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Morte vestita da fanciulla

Poesia

Enrico Pietrangeli
FusibiliaLibri

Recensione di Letizia Leone
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Pubblicato il 04/09/2025 07:22:00

A volte basta un giro di endecasillabi incipitari per essere catapultati nel realismo crudo e fastoso di una solitaria danza sul buio. Così l’immagine potentemente spaziale e gestuale di un abbraccio privo di ritorno, innalza l’arcata gotica di accesso alle potenti elegie funebri di questo ultimo libro di Enrico Pietrangeli, Morte vestita da fanciulla – Appunti in versi di resistenza alla fine, FusibiliaLibri, 2025:

 

Non avevo mai abbracciato una bara

Mai stretto avevo tanto vuoto in seno...

 

Con un lessico che integra la concretezza all’astrazione, il poeta tira fuori la morte da ogni andito inconscio per riposizionarla, non in uno spazio collettivo antico e tribale, bensì sul proscenio di un pensiero tragico e individuale. Nella modernità ognuno è solo davanti alla morte con le proprie sofferte interrogazioni, ipotesi o lampi di fede. E già questi versi fondati sull’ossimoro implicito di assenza/presenza preludono ad un approccio sospeso tra il biologico e il metafisico del mistero ultimo, e del limite espressivo che lo circonda.

La dissonanza simbolica, rafforzata dal senso di irreversibilità dell’anafora (non avevo mai.../Mai...), rende corporeità anche al vuoto e al Nulla (densi concetti filosofici) in un’antitesi interna tra lo “stringere”(che implica presenza) e il Vuoto (assenza assoluta). Eppure la metafora ardente del titolo Morte vestita da fanciulla, calata nel pathos del coinvolgimento biografico, indica un passaggio osmotico, quasi vivificante, tra le dimensioni laddove il poeta oliando tutti suoi strumenti orfici va inseguendo una pacificazione dialettica.

Quanto sia vicina la morte alla nascita, quanto i due stati siano interscambiabili come quelli del sogno e della realtà, è il messaggio di questo redivivo pellegrino vagante nella notte oscura. Tra mondi intermedi anche l’identità del soggetto si scompone. Ma il poeta non arretra di fronte ai rischi di un mistero vissuto anticipatamente:

E... se morendo ci destassimo da un sogno,

tanto da rassicurare l’esser di nuovo svegli

oppure, dal sonno tuttavia presi,

provassimo della frivola nostalgia

per quel nostro sogno del vivere...

 

Pietrangeli affonda il passo verso una catabasi interiore. E se si può parlare di teatralizzazione barocca della morte, qui è associata anche ad un aspetto contemplativo che si rivela nella postura stoica dell’autore che scruta gli antri delle sepolture in un insospettabile anelito mistico:

 

Dell’ossario dell’anima,

si contemplino pure,

uno ad uno, i teschi,

su se stesso si rigiri

il malleolo nel tempo

e che obelisco posi 

quella tibia in terra 

per lasciare un segno!

 

Camera nigra o ventre di cottura di alchimistica memoria, affinché il Decomposto pulviscolo o il fetido della dissoluzione trapassino in «un odore che ha qualcosa di aromatico», per usare le parole del mistico trecentesco Raimondo Lullo.

Dunque teschi, malleoli, tibie, mandibole appartengono a una notte oscura ma fecondante. L’aspirazione alla trascendenza nella sua prima fase deve passare per l’azzeramento di ogni operazione simbolica di consolazione. È il ritorno sostanziale all’organico, all’oscenità della decomposizione, all’esperienza rimossa della propria stessa morte (nell’esperire il morire attraverso gli altri, e soprattutto attraverso la madre).

Osserviamo la più bassa catena alimentare delle mosche settembrine o degli scarafaggi, che ‘di cadaverina esalata stanno’ , immagini che richiamano il sontuoso metaforeggiare di Pasternak, di una vita come un giardino assonnato brulicante di scarafaggi bronzei: «Come di bronzea cenere caduta dai bracieri, / di scarafaggi brulica il giardino assonnato...E come in una fede inaudita io entro in questa notte...»

Pietrangeli riabilita il passaggio bloccato alla natura organica, al biologico, alla terra, alla putrefactio, entra nella nigredo tentando di scrutare il principio di esistenza della forma. In controtendenza con l’assimilazione spettacolare della morte del carnevale mediatico contemporaneo, l’autore ritrova antiche radici letterarie e artistiche, come ben evidenzia Ugo Magnanti nella postfazione.

La parabola dell’annientamento in Pietrangeli transita dalla lauda medievale ad un certo espressionismo tedesco che esalta l’estetica nichilista della morte. Ma qui i dettagli macabri amplificati sono elementi necessari ad una inesausta meditazione poetica.

Nella camera oscura di questa “Morte vestita da fanciulla”, nascita e morte non sono più i termini inconciliabili di eventi scissi ma lenta e sofferta elaborazione di un matrimonio pulito. E ancor di più la morte e la vita diventano i termini di un serrato dialogo iniziatico: ‘Nient’altro ci tiene in equilibrio nella binaria follia di un perfetto intelletto che ci unisce’.

Contro la morte sconsacrata, contro quella che Jean Baudrillardchiama «l’estradizione dei morti» o «il ghetto d’oltretomba», Pietrangeli mette in atto tra queste pagine una epistrophè, un rivolgimento, una conversione. Un tornare indietro dallarimozione attuale dell’evento della morte, se è vero che «tutta la nostra cultura è igienica: essa mira a epurare la vita dalla morte.»  

Nell’eccezionalità del linguaggio poetico il tempo prende un’altra misura, non umana, aprendo passaggi: il poeta lo sa, anche intuitivamente, e ne prospetta una sorta di “dichiarazione di poetica” dove il suono (e la parola) sono i punti in grado di aprire varchi sull’indeterminato, l’altrove, l’infinito: ‘Suono che dilata la percezione e non ha né ragione né intermediazione, bensì trasporto che non è soltanto memoria che riecheggia dal passato, è passato, presente e futuro, un indeterminato sentire che proietta l’anima in un altrove, viaggia all’infuori del tempo rendendo il sé vibrante e parte di un fenomeno che trascende, esonda e travalica gli argini del nascere e il morire, non rivela ma fomenta l’intuizione, il guizzo, la scintilla.

 

Elaborazione del lutto attraverso l’autenticità della parola poetica. In Pietrangeli, la morte recupera  il valore di presa di coscienza della finitudine, nel momento in cui la società ne ha derubricato l’essenza a simulacro, a «fantasma simbolico». Un sentire affine all’esistenzialismo heideggeriano che lega l’autenticità dell’esistenza al «vivere-per-la-morte». In Heidegger la morte è occasione illuminante di svelamento: «La morte sovrasta l’esserci. La morte... è un’imminenza che sovrasta... nell’angoscia davanti alla morte, l’esserci è condotto davanti a se stesso in quanto immesso alla sua possibilità insuperabile.»

Si tratta di riposizionare la morte dentro la vita quale atto di verità,quale atto ontologico.

Si tratta, in questo caso, soprattutto di «vestire la morte da fanciulla» quale sommo, irremovibile atto poetico.


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