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L’Iguana

Romanzo

Anna Maria Ortese
Adelphi Edizioni

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 23/01/2009 21:35:00

Un viaggio verso l’isola, dapprima, e poi nei meandri della stessa, quello che il giovane Daddo compie lungo le pagine di questo libro che definire favola o, ancor più semplicemente, romanzo appare grandemente riduttivo. Il libro è permeato forse maggiormente di romanticismo mitteleuropeo che di tradizione italiana del dopoguerra; anche il linguaggio, che getta una ragnatela di rimandi tra il Manzoni ed il Gadda, e, pur apparendo dapprima, per i rimandi ai due Grandi e per alcuni vezzi, dal gusto desueto, esprime in realtà una forte carica di modernismo e di desiderio di rottura con una certa stagnazione linguistica dei contemporanei del libro (apparso nel 1965) e che ha molto da insegnare ancora oggi ai più giovani e moderni, che tendono ad imbastire stilemi su modelli di importazione o – orrore, ma reale – su schemi esplicitamente “televisivi”.
Il libro è attraversato da linee che si intersecano e creano prospettive differenti col mutare degli attimi, degli stati d’animo dei protagonisti quasi come l’autrice ci facesse percorrere una galleria di specchi deformanti. La linea principale sulla quale si muovono i protagonisti della vicenda e, soprattutto, gli incontri e le scoperte del nobile milanese, ricordano un viaggio di iniziazione alchemica, il povero Daddo sbarca su di un’isola, che forse non esiste nemmeno, e cominciano ad apparirgli diversi personaggi simbolo, i quali, sebbene sembrino a tratti estremamente mutevoli, restando saldamente loro stessi incidono grandemente l’animo del conte milanese, sino ad esacerbarlo e produrre in lui una lacerazione con quel che egli sapeva di se stesso, quasi un novello Christian Rosenkreutz, partito per un matrimonio e giunto sulle sponde dell’insondabile, così Daddo si imbarca per una impresa commerciale e scopre invece un mondo inimmaginato e, soprattutto, sé stesso.
A questa, che potrebbe apparire la traccia principale della vicenda, la Ortese, annoda, con mirabile sapienza, un tessuto fatto di ironica messa alla berlina di una certa società che viaggia per lucro e sbarca in luoghi sconosciuti per trasformarli in casa propria e trarne profitto economico, come vorrebbe fare il protagonista, acquistando l’isola, o riportando all’amico Adelchi qualche libro inedito, dal sapore esotico, da pubblicare con clamore e profitto. Atteggiamento tipicamente occidentale in virtù del quale un viaggio e una scoperta sono solo occasioni per imporre il proprio modello di vita e sfruttare le popolazioni locali. Di conseguenza a questa fustigazione di costumi “fuori porta” dei milanesi, la Ortese accende una aspra critica nei confronti dei suoi contemporanei e di una certa classe culturale, ma lo fa sempre con notevole leggiadria, ricamando quasi scherzosa i suoi appunti sulla trama generale dell’opera. E, per finire, la misteriosa iguana, ridotta ad essere una umile serva, neanche tanto capace, ma che ha avuto nel suo passato la gioia di essere – forse- amata dal marchese proprietario dell’isola, ma additata poi come Male Assoluto incarnato, in una simbolica donna-serpente è fatto oggetto di scherno e di disprezzo: attraverso l’iguana, vestita in modo dimesso, con abiti più che vecchi, antichi, quasi a richiamare un emergere dal buio dei tempi (chiamata nel corso della narrazione familiarmente iguanuccia, forse col tentativo di non ricacciarla del tutto nel regno animale, cui appartiene) l’autrice svela parte della sua allegoria, facile è leggere la metafora di una donna-serpente, serva ma amata e di cui si innamorerà anche il malcapitato Daddo, sino ad uno scambio tra quest’ultimo e la donna bestia sul fondo del pozzo, termine dell’iniziazione del conte ed inizio della vita umana della allor fu bestia. Attraverso questi amori per un essere considerato repellente, l’autrice sottolinea come spesso l’amore per il diverso sia oggetto di scherno e porti a sofferenza e dolore chi, sebbene di malavoglia, si acconci al comune pensare. Il fatto che l’Iguana è pagata in sassolini, trovati sulla spiaggia dal marchese, detto quasi en passant, incardina nel testo dapprima una forte critica dell’autrice verso il malcostume di pagare con miseria persone che vengono costrette a lavorare per noi, ma con l’interrogativo che forse i sassolini – forse perché proprio raccolti dall’amato marchese – per l’Iguana sono un grande tesoro: la bestiola cacciata ed insultata raccoglie quasi con avidità anche le miserie che la mano amata le elargisce.
Un libro davvero molto bello, simile nei suoi intrecci e ramificazioni a quei mondi speculari ma differenti che Borges amava creare partendo da enciclopedie e facendoli via via divenire reali e più reali del reale, nel momento in cui ci si accorge che quello che si percepisce reale è in realtà immaginario nel mondo che si ritiene frutto di fantasia, tutto questo, dalla magistrale penna della Ortese, è diventato tangibile e quasi “concreto” nelle pagine di questo romanzo…o cronaca interiore.

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