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Mistero Buffo ovvero Dario Fo e il paradossale sproloquio

Argomento: Teatro

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 14/10/2016 10:25:58

DARIO FO … Mistero buffo: ovvero il ‘paradossale sproloquio dell’attore’.

 

«Fammi ridere, chiede l’interlocutore improvvisato (qual io sono).»

«Devo confessare – scrive Fo nel suo ‘Manuale minimo dell’attore’ – che uno dei miei sogni segreti è quello di riuscire, un giorno, a entrare in televisione, sedermi al posto dello speaker che dà le notizie del telegiornale e parlare, per tutto lo spazio della trasmissione, in grammelot:

Oggi traneuguale per indotto-ne consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparedico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto…”; aggiungendo infine che: “..per una buona mezz’ora, si potrebbe continuare imperterriti, scommettiamo che nessuno se ne accorgerebbe”.»

Ma che cos’è questo ‘grammelot’ Dario Fo lo ha spiegato più volte durante le sue ‘lezioni’ tenute all’Argentina (noto teatro romano) e nelle Università di mezzo mondo; si tratta di uno sproloquiare onomatopeico a imitazione di lingue diverse e dialetti vari in cui viene spostata l’attenzione di chi ascolta (uditore o spettatore che sia), sul suono fonosimbolico e/o imitativo prodotto dalla parola, sulla tonalità della voce che la pronuncia e spesso dal gesto che l’accompagna.

Ciò che di per sé ‘fa teatro’, anzi, come direbbe Fo: ‘risale all’origine del teatro’, inteso come intrattenimento più o meno colto che si continua a fare ancora oggi, basta accendere la televisione in un qualsiasi momento della giornata e incappare in uno dei tanti talk-show dove, oltre alle chiacchiere ‘teatrali’ tra condominiali, si assiste sempre più spesso alle ‘opposizioni politico-drammaturgiche’ tenute dai numerosissimi azzaccagarbugli di turno.

«È un fatto – avverte qualcuno fra i presenti – ed è inutile sperticarsi a dare un senso a ciò che dice l’uno o l’altro, poiché hanno tutti ragione e si finisce per non credere a nessuno …» Chissà, forse anche per questo si vuol chiamare ‘democrazia’, per quanto tutto ciò stia creando solo confusione e nessuno (individualmente parlando) sa più chi veramente è, qual'è il suo riferimento socio-culturale, qual'è la sua appartenenza e/o la sua etnia. Per poi dover dare la colpa alla ‘globalizzazione’ che di certo non dovrebbe intendersi come ammasso di genti e d’intenti ma preposta per la collaborazione e il libero scambio.

Al contrario, assistiamo al riorganizzarsi di ideologie avulse da ogni umanistica sollecitazione, di agglomerati umani intolleranti, mitomani e omofobi, che non hanno in sé (senza saperlo) un’autentica ragione di appartenenza, in quanto siamo tutti figli spuri di provenienza incerta.

In questo possiamo dirci di essere tutti quanti ‘attori’ di una tragedia costante che ci vede gli uni contro gli altri a combattere una guerra, molte guerre, ché mettono in discussione la prevalenza ideologico/religiosa/culturale che prevarica ogni principio di libertà, uguaglianza e fraternità, cui tutti siamo chiamati a rispondere e che proprio per questo rimangono senza riscatto.

Personaggi di un ‘teatro dell’assurdo’ che se pure possiamo condividere sulla scena, non è affatto più tollerabile nella realtà, in cui assistiamo – per l’appunto – al continuo ‘paradossale sproloquio dell’attore’ che individualmente (e non solo) interpretiamo. Colui/colei che, secondo 'il motodo' Stanislavskij (Konstantin), che ha contrassegnato la grammatica elementare di tutto il teatro del Novecento: “..senza perdere se stesso deve creare il personaggio, nella sua realizzazione psicologica, gestuale, sonora, scenica”.

Questo, in sintesi, è quanto operato sulla scena e fonte dell’insegnamento che Dario Fo ha voluto trasmettere nel ‘fare’ il poprio originale anti-teatro; il quale, pur partendo dai suoi prestiti e dai ripetuti lasciti del teatro istituzionale ma spingendosi oltre, nell’assurdità dell’assurdo del suo divenire, alla ricerca di una propria identità d’attore, rivestendolo di un significato universale. Sulla scia di una ‘idea del teatro’ che già eloquenti studiosi in quegli stessi anni 1960-70, andavano elaborando.

Come ad esempio Antonin Artaud che nel suo noto saggio “Il teatro e il suo doppio” (con una strepitosa prefazione di Jacques Derrida), nel quale egli ci introduce a quel ‘fare teatro' che possiamo ben riconoscere essere la cifra del Dario Fo degli inizi, poi ripreso dopo una lunga parentesi, negli anni più avanzati della sua carriera artistica. Teatro nel quale Artaud non pensa semplicemente di modificare l’equilibrio istituzionale del teatro o di ridefinirlo in un discorso precettistico su come fare teatro, bensì:

“..evocando le possibilità estreme dello stesso nella tentazione ‘del suo doppio’ che il fare teatro rappresenta sulla scena: l’azione asoluta, irreversibile che incombe sull’esibizione dei corpi nello spazio scenico, forzando le finzioni e le riserve di cui è costituita la trama del vissuto”.

E del quale, stravolgendo ogni sua dimensione scenica, gestuale e della parola (per fare un discorso all’inverso) Dario Fo si avvale per riprendere il discorso di Stanislavskij impostato in “L’attore creativo”, rispondendo così a una esigenza del nostro tempo, dove lo spettatore aspira ad essere ‘protagonista’ sulla scena (ancor più in TV) ma, anche, chi è curioso di sapere che cosa gli succede intorno; anche se a guardar bene non sfugge all’osservatore, la quantità delle ‘maschere’ che ognuno indossa per l’occasione.

Dario Fo che dell’uso della maschera in teatro ha dato innumerevoli lezioni, indossandola o spogliandosene al contempo, non ha dubbi che le ‘maschere non servono a mascherare’, bensì citando ripetutamente a suo modo: “Lo sproloquio degli uccelli” tratto da Aristofane, buttandosi a sfottore e addirittura a insultare il pubblico:

«La commedia, per chi non lo ricordi, tratta di due ateniesi, i quali decidono di lasciare la loro città con la motivazione più che moderna del disgusto delle infamità, dei giochi politici bassi e dei processi orchestrati. Sembra d’essere nell’Italia odierna con gli attuali governanti e in testa a tutti Andreotti (allora a capo del governo) che, è risaputo, viveva già allora e faceva parte del parlamento ateniese. Lo si riconosce in alcune figure vascolari attiche nell’atto di sfuggire, con un suo straordinario scatto di reni, all’ennesima incriminazione per intrallazzi di sapore mafioso. I personaggi della commedia, dicevano, nauseati dall’andazzo politico-cialtrone, se ne vanno con lo scopo dichiarato di trovare una città ideale. Decidono di fermarsi in un mondo intermedio tra la terra e il mondo degli dèi, che è quello degli uccelli, dove, se non altro, vige un sistema di vita fondato su certe onestà che gli uomini non possiedono.»

Questa la storia in sintesi, dove s’insinua predominante nel dialogo diretto col pubblico la creatività dell’attore: «Ah, ah, ah, ah dio mio che pubblico straordinario! Ho viaggiato per tutti i teatri, dal Pireo all’Ellesponto, ma poche volte mi è capitato di trovarmi a recitare davanti a un pubblico come voi (una frase ruffiana che verrà ripetuta in tutte le rappresentazioni dagli attori consumati). Incredibile! Io vi sogno anche di notte (cambia tono all’istante), siete un incubo! (rifiuto estemporaneo di sottomissione). Ma cosa avete nella testa? Possibile che un gioco di parole o una allusione allegorica non vi riesca di capirla? (proposizione di coinvolgimento). Perdio, le più belle battute satiriche vi sono scivolate sul cervello come il lado sul burro. Fate finta, almeno, di intuire, ci sono degli stranieri qui stasera , bella figura che ci facciamo! Ridete! (si volta di qua e di là come ad ascoltare). No, non così a caso, ma sulla battuta. Aspettate, vi farò segno io, così, con uno schioccare delle dita … e voi: ah, ah, ah! …»

C’è però un altro aspetto che non è stato ancora toccato e, che pur volutamente estraniandosi dalle discussioni politiche e le numerose critiche, va qui affrontato nel quadro del coinvolgimento che Dario Fo, in fine di serata, amava tenere col pubblico. Avveniva così che, dopo aver dismesso ogni suppellettile, oggetto di scena, maschere e quant’altro, si presentava per così dire ‘nudo’ di fronte al pubblico applaudente con il suo vero volto, corredato da una mimica facciale che lo ha reso ‘maschera’ di se stesso.

Allora la scena apparecchiata solo in parte si svuotava ed egli affrontava i riflettori con coraggio, direttamente, senza finzioni, mettendo in mostra l’uomo oltre all’attore, parlando, rispondendo, più spesso canzonando la società e i costumi di questo nostro tempo. A leggere il solo elenco parziale delle sue opere c’è davvero da perdersi nei meandri di un dialogare tra passato remoto e presente futuribile, perché anche se alcune situazioni possono sembrare datate alla cronaca degli anni che furono, si può ben vedere come i personaggi siano malleabili e trasferibili a quelli odierni e, perché no a quelli che verranno.

In quanto, non è solo Dario Fo che lo afferma, ma è universalmente conosciuto il fatto che l’essere umano (?) è comunque uguale a se stesso, in qualunque parte del mondo, ricade sempre sugli stessi errori e si comporta come ieri o ieri l’altro, tale e quale come oggigiorno, e come presumibilmente accadrà domani, senza contraddizione alcuna. Così come Dario Fo ha fin qui recuperato se stesso nell’indirizzare al pubblico l'ara comica e quell’amore che lo ha sempre distinto in tutte le sue manifestazioni di uomo e di artista.

Dalle origini cabarettistiche al tempo del sue esperienze off-teathre, alle apparizioni al fianco di Franca Rame durante gli spettacoli in TV, accanto a nomi famosi del teatro leggero come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Maria Monti, Walter Valdi e Ornella Vanoni, cui fanno riferimento molte delle sue ‘canzoni’ (chiamiamole così con beneficio d’inventario) nate dal sodalizio con Fiorenzo Carpi, la cui collaborazione abbraccia l'intero arco della sua vita. Dario Fo così lo ricorda: "Un musicista straordinario per cultura e duttilità, col quale ci siamo divertiti e impegnati nel corso di circa 40 anni, a scrivere canzoni, alcune delle quali sono diventate famose, spaziando in tutti i generi musicali e teatrali, inventando nuovi stili, rielaborando quelli classici e fingendoci via-via “anonimo lombardo del '400”, “minuettista settecentesco”, “cantastorie”, il tutto in perfetta sintonia dovuta anche alla genialità e alla serietà del lavoro di Fiorenzo”.

Ed inoltre, in quell’apparente leggerezza insita nell’arte dell’attore comico impregnato di gestualità mimica o di imitazione che lo differenzia dall’attore più generico, per la capacità di sintetizzare nell’espressione e ovviamente nel gesto ciò che ha affinità con lo spazio che gli sta attorno, con gli oggetti consoni alla personalità del personaggio che porta in scena: come strumenti di lavoro, musicali, ecc. sviluppando un proprio stile individuale, e destinati a indirizzare il lavoro dell’attore nel modo illustrato da Claudio Vicentini nel suo “L’arte di guardare gli attori” un manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione, contenente regole e trucchi, nonché criteri per riconoscere gli stile degli attori e scoprire le tecniche che usano sul palcoscenico e sul set.

Nel quale, inoltre, Vicentini parla di Dario Fo facendo riferimento alla sua capacità ‘estremamente specializzata’ di utilizzare le tecniche dell’imitazione nella celeberrima “La fame dello Zanni”, in cui il personaggio tormentato dalla fame sogna di preparare un gigantesco banchetto, con uno, due, tre pentoloni, dove versa un sacco di polenta e tutti gli ingredienti e quel che ne consegue alla preparazione, finché il tutto non è ridotto a un enorme pastone che ingoia felice, per poi svegliarsi e accorgersi disperato che è stato soltanto un sogno:

“E allora nota un moscone che gli vola intorno ronzando e poi gli si posa sul naso. Lo afferra di scatto, urla di gioia, l’osserva goloso, gli strappa una zampa, la guarda in estasi, l’azzanno e la mastica, stacca le ali delicatamente, una alla volta, le assaggia, le ighiotte, guarda la carcassa che gli è rimasta tra le dita, la sala con cura, la porta alla bocca, l’assaggia, mugola di gioia, ed esplode trionfante: “che magnada!

"Di solito le tecniche dell’imitazione – scrive Vicentini – impiegano il corpo dell’attore per far apparire di fronte al pubblico una figura del tutto immaginaria, quella del personaggio. Gesti, espressioni, movimenti rendono visibile un essere fantastico, diverso dall’aspetto reale e quotidiano del suo interprete. Per riuscirci l’attore seleziona alcuni tratti salienti della figura da rappresentare, li riproduce e li mette in evidenza in modo da attrarre su di loro l’attenzione dello spettastore. (..) Per mettere in luce l’oggetto, l’interprete non lo raffigura mai, o quasi mai, in modo diretto. Piuttosto crea con il proprio corpo e i propri movimenti dei segni precisi, forti, caratteristici, che indicano l’oggetto agli spettatori. (..) Se i gesti colgono con precisione e mettono in evidenza quanto di più caratteristico c’è nell’oggetto, il pubblico immancabilmente ‘vede’ lo strumento tra le mani dell’attore".

Un sogno, forse, che ha condotto Dario Fo fino al riconoscimento di quel Nobel per la ‘Letteratura’ tanto discusso (e tanto invidiato dai contemporanei) che gli fu assegnato nel 1997, per i suoi meriti in ambito letterario-teatrale, il suo impegno sociale sì, ma anche per aver insegnato al mondo che l’arte dell’attore, al di là dell’impegno sulla scena, è in tutto e per tutto l’arte della vita.

Innumerevoli sono inoltre le canzoni che hanno perseguito un certo successo di pubblico, soprattutto attraverso le voci di eccezionali interpreti. Ricordo qui di seguito alcuni titoli allusivi e sarcastici che hanno divertito generazioni di ascoltatorinegli anni ‘60/’70: ‘La luna è una lampadina’ ‘La prima volta’ (fammi ancora un livido sul femore); ‘Il mio amico Aldo’ e ‘Tre storie di gatti’ (con Mogol); ‘Il foruncolo’; ‘Pianto dei piantatori di piante’; ‘La brutta città’ (Milano con Giorgio Gaber); ‘Il mio ligéra’ e ‘nteressa a me’ con Franca Rame; ‘Hanno ammazzato il Mario’ e ‘Senti come la vosa la sirena’ con ornella Vanoni.

Eccone un assaggio realizzato da Dario Fo e Franca Rame in: ‘Ma che aspettate a batterci le mani’, spettacolo musico-teatrale andato in scena in quegli anni:

 

"Ma che aspettate a batterci le mani a metter le bandiere sul balcone? Sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Venite tutti in piazza fra due ore, vi riempirete gli occhi di parole, la gola di sospiri per amore e il cuor farà seimila capriole. Napoleone primo andava matto per 'sto dramma e ogni sera con la sua mamma ci veniva ad ascoltar. Napoleon di Francia piange ancora e si dispera da quel dí che verso sera ce ne andammo senza recitar. E pure voi, ragazze, piangerete se il dramma non vedrete fino in fine dove se state attente imparerete a far l'amore come le regine. E non temete se la notte è scura: abbiamo trenta lune di cartone con dentro le lanterne col carburo, da far sembrar la luna un solleone. Napoleon francese, per vederci da vicino, venne apposta sul Ticino contro i crucchi a guerreggiar. Napoleone primo, che in prigione stava all'Elba, vi scappò un mattino all'alba per venirci a battere le man. Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone, sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Vedrete la regina scellerata, innamorata cotta del figlioccio, far fuori tre mariti e una cognata e dar la colpa al fato del fattaccio. Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone? Sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Venite tutti in piazza fra due ore, vi riempirete gli occhi di parole, la gola di sospiri per amore e il cuor farà seimila capriole".

 

‘Tutta brava gente’ di Capi Fo.

"Qui si parla di ufficiali piuttosto compromessi: tutta brava, tutta brava, tutta brava gente, e qui ci saltano fuori almeno sei processi per miliardi, a questo stato che è così indigente, qui si parla di una banca insediata in un convento, qui c'è un tal che alla Marina ha fregato un bastimento, qui un tal altro che a fatica ha corrotto un gesuita, assegnati quattro appalti a un'impresa inesistente, concessioni sottobanco contro assegni dati in bianco, truffe sui medicinali, sulle mutue e gli ospedali, sopra i dazi, le dogane, i tabacchi e le banane. Oh, che pacchia, che cuccagna: bella è la vita per chi la sa far! Ma tu, miracolato del ceto medio basso, tu devi risparmiare, accetta sto salasso: non devi mangiar carne, devi salvar la lira e, mentre gli altri fregano, tu fai l'austerità!"

 

In fine, eccoci giunti ai saluti di rito, e voi … “Ma che aspettate a battergli le mani!”

Ciao Maestro degno di entrare con onore nel ‘cielo’ della nobile Commedia dell’Arte.

 

Bigliografia di riferimento: Dario Fo, ‘Manuale minimo dell’attore’ – Einaudi 1997 Konstantin S. Stanislavskij, ‘Il lavoro dell’attore’ – Laterza 1982 AA.VV., ‘L’attore creativo’, «con una risposta a Stanislavskij» di Jerzy Grotowski - La Casa Usher 1980 Antonin Artaud, ‘Il teatro e il suo doppio «con la prefazione di Jacques Derrida», - Einaudi 1968 Claudio Valentini, ‘L’arte di guardare gli attori’ – Marsiglio 2007 Per ‘Il teratro dell’assurdo’, Martin Esslin in Edizioni Abete 1980.


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