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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Valerio Magrelli

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 21/10/2009 16:31:14

[Ringraziamo Valerio Magrelli per questa bella intervista che ci ha concesso invitandoci nella sua residenza romana. Lo ringraziamo per l'ospitalità.
Intervista a cura di Roberto Maggiani (R.) e Giuliano Brenna (G.) :: Fotografia di Roberto Maggiani]


*


DOMANDA.
Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Valerio Magrelli? Di che cosa si occupa?

RISPOSTA.
Ho incominciato a scrivere nel 1975, quindi sono più di trent’anni che scrivo; ho pubblicato cinque libri di poesia e due libri di prosa; insegno letteratura francese e mi sono laureato in Storia della Filosofia. Ho abbandonato la Filosofia perché era un amore non ricambiato, mi piaceva molto ma non riuscivo a parlarne, ero come afasico. Allora passai alla letteratura, sempre tenendomi un po’ sul crinale filosofico. Dato che avevo passato un anno a Parigi – il mio primo anno universitario – ho iniziato a tradurre, ho insegnato in scuole di traduzione, ho diretto una Collana di traduzione sperimentale e appassionante per Einaudi per una decina d’anni. Si trattava di una Collana trilingue in cui venivano presentati testi di due autori, entrambi stranieri (il traduttore e anche il tradotto), mentre in basso, sul fondo, correva la traduzione in italiano. Per esempio, avevamo l’originale inglese di Conrad, a sinistra, la traduzione francese di Gide, a destra , e sotto la versione italiana dall’originale, in modo da poter trovare sulla pagina tre lingue insieme. Era un bel lavoro tipografico, perché, girando pagina, si andava a capo contemporaneamente in tre lingue. Abbiamo pubblicato tredici titoli, alcuni ebbero un certo successo, anche di vendite, malgrado fosse una Collana difficile. Ecco, questo è stato uno dei miei lavori. Quindi riepilogando, io scrivo , traduco e mi occupo di critica letteraria.

DOMANDA.
Lei è uno scrittore. Nella sua prima raccolta di versi, “Ora serrata retinae”, di cui parleremo tra poco, lei scrive: “Io non conosco / quello di cui scrivo, / ne scrivo anzi / proprio perché lo ignoro. / […] / Per me la ragione / della scrittura / è sempre scrittura / della ragione.” Che cos’è per lei la scrittura? Perché il giovane Magrelli ha iniziato a scrivere? E’ stato un dovere, un volere o una necessità? Che cosa ricercava, in particolare, nella poesia? Perché l’adulto Magrelli continua a scrivere? Che cosa ricerca ora nella poesia?

RISPOSTA.
La prima cosa da dire è che la scrittura rappresenta un’avventura e un piacere – le prime due risposte, preliminari. E’ un’avventura nel senso che quando si incomincia una poesia non si sa dove si andrà a finire, e la bellezza della scrittura, voglio spiegarlo per chi non scrivesse, consiste proprio in questo andare avanti a tentoni, brancolando. Nessuno sa quanti versi avrà una poesia, se tre, trecento o di trenta, quindi c’è un vero tuffo nel vuoto. Ogni testo – parlo di poesia ma potrei parlare di romanzi – è sempre una scommessa, una puntata sulla sorte. L’avventura è perciò il suo primo tratto caratteristico. Il secondo è invece il piacere. Quanto al dovere, beh, bisogna stare attenti alla retorica. Per quanto mi riguarda, amo molto una risposta di Paul Valéry all’amico proprio di Gide, il quale, sempre molto enfatico , gli aveva scritto una lettera in cui diceva: “Se mi vietassero di scrivere, mi ucciderei”. Ebbene, Valéry gli rispose: “Se mi costringessero a scrivere, mi ucciderei”. Io sono del secondo partito. Certo che esiste una necessità, ma c’è innanzitutto piacere, passione.

DOMANDA.
Chi sono i suoi maestri nella scrittura, coloro che hanno contribuito, con la loro scrittura o con la loro diretta conoscenza, alla sua formazione/affermazione come poeta e scrittore in genere.

RISPOSTA.
Quelli che ho conosciuto e che hanno creduto in me. Quanto ai critici, inutile che li elenchi: sono coloro che mi hanno accompagnato sin qui. Fra gli scrittori, invece, in senso più personale e meno pubblico, vorrei ricordare Elio Pagliarani, Enzo Siciliano e Antonio Porta per primi, e poi Giorgio Caproni. Mi piacerebbe poi citare Giovanni Macchia, di cui seguii i corsi di Letteratura Francese all’Università di Roma. In quel periodo guadagnavo qualcosa scrivendo sui giornali. Quando vinsi il dottorato, andai da lui e gli dissi: “Professore finalmente ho uno stipendio, sia pure per tre anni, quindi potrò lasciare i giornali per dedicarmi alla ricerca”. Al che lui mi rispose: “Non lo faccia mai. E’ fondamentale continuare a scrivere sui giornali, per evitare l’ossificazione, la paralisi della scrittura. Il giornale è una specie di antidoto, che la obbliga a scrivere rapidamente e le permette di tenere una scrittura viva, vivace”. Fu straordinario; il giovane risultava molto più conformista del maestro ottantenne! Così, da un lato ora esce, dopo vent’anni di ricerche, un libro che ho iniziato nel 1989, dall’altra magari mi chiamano alle sei di pomeriggio e mi chiedono un articolo per le sette. Mi piace molto questo doppio registro: qui una scrittura titubante e lentissima, là una veloce, istantanea e adrenalinica. Quanto ai maestri, infine, sono quelli che uno scopre da sé. I primi che mi vengono in mente sono Mandel'štam – maestri stranieri – Michaux, quelli che mi hanno dato i brividi. Un russo, un belga e forse ci metterei Bruno Schulz , un narratore polacco che è stato per me una rivelazione. Poi gli italiani, numerosi. Ancora l’altr’anno ho riletto le operette morali di Leopardi. E poi mi piace la letteratura dialettale, Carlo Porta e Tessa, per il milanese , e Belli – sono un adoratore di Belli – nel romanesco.

DOMANDA.
Ciò che può fare la fortuna di uno scrittore, o sfortuna talvolta, è la novità che egli porta con la sua scrittura, novità che si inserisce in un contesto culturale e letterario ben definito, in cui vi sono scrittori più o meno affermati e ai quali ci si può ispirare, in uno slancio iniziale, sia nei contenuti che nella forma, che assunti e fatti propri alimentano la caratterizzazione di uno scrittore. Ad esempio, per certi versi la sua scrittura ricorda la polacca Wislawa Symborska, con i suoi toni un po’ beffardi, sempre sinceri e spontanei, ironici. La domanda è se tale poetessa ha influito nella sua scrittura e quali altri poeti lo hanno fatto? Che cosa la caratterizza rispetto ai poeti suoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi l’accompagnano?

RISPOSTA.
Una caratteristica della mia scrittura è quella di cambiare – mi è anche stato rimproverato – penso che la mobilità sia fondamentale. Il più grande complimento è stato quando un amico mi ha detto che sì, i miei lavori cambiano, ma si vede sempre l’impronta. Questo per me è lo scopo cui ambirei arrivare. Il primo libro è un libro di stasi, di concentrazione, monolitico; il secondo era fatto di sparpagliamenti, di frammentazioni. Il terzo, ancora più sperimentale, è una raccolta con prose e traduzioni, mentre il quarto è tutto un testo mimetico che ha la forma del quotidiano (ho voluto imitare il giornale, ogni poesia rappresenta una rubrica di giornale). L’ultimo, infine, ha l’aspetto di un trattatello filosofico. Insomma, per me non è essenziale cambiare, ma è naturale, è spontaneo farlo. Non posso immaginare un nuovo libro senza immaginare una nuova invenzione, una nuova forma, sperando però che in questo ci sia un elemento costante. Rispetto poi alla Szymborska, mi piacciono moltissimo i suoi saggi, e anche alcune sue poesie, ma per il resto la somiglianza arriva fino a un certo punto, perché lei persegue un’esposizione sguarnita, elementare, volutamente ingenua. Si deve comunque a lei la frase più bella che io abbia mai ascoltato sulla poesia (l’ho addirittura usata come occhiello di un mio libretto intitolato che “Che cos’è la poesia?”, Luca Sossella Editore). Io da ragazzo scrivevo, ma mi vergognandomene. Si faceva la politica, si faceva sport, e io di nascosto scrivevo poesie. Ebbene, la Szymborska ha scritto questa frase che è un autentico emblema: “Preferisco la vergogna di scrivere poesie, alla vergogna di non scriverle”. Immagine magnifica, perché ammette che scrivere poesia è una vergogna, ma spiegando che resta una vergogna anche il non scriverle!

DOMANDA.
Al suo esordio letterario, che risale al 1980, era molto giovane, aveva soli ventitre anni, avvenne con la pubblicazione della raccolta di versi “Ora serrata retinae”, Feltrinelli (premio Mondello opera prima), nella quale, oggetto del poetare sono, forse, in primo luogo la scrittura , lo sguardo e il sonno. Ci può dire qualcosa della genesi di questa sua prima opera fino alla pubblicazione? Che significato ha avuto per lei allora e che significato ha oggi?

RISPOSTA.
Mi fa piacere parlare del sonno, perché in origine il titolo era dedicato al sonno, era un titolo sul sonno; poi, invece, ho deciso di mettere l’accento sulla visione, e quindi ho trovato un titolo tratto dal latino scientifico. Si tratta di un’espressione medica, tanto che quando andai dall’oculista, qualche mese dopo dall’uscita del libro, questi mi accolse dicendo: “Non sapevo che fossimo colleghi, ho visto che ha scritto un libro…” In effetti il titolo proviene da un atlante medico; mia madre era medico, tirai giù i suoi libri di oculistica e di anatomia comparata, e trovai la soluzione. Il libro raccoglie le poesie di quasi cinque anni, e al momento di raccoglierle lavorai molto sulla scansione, e lo divisi in due parti di quarantacinque testi ognuna: i primi quarantacinque erano già usciti in rivista, i secondi quarantacinque erano tutti inediti. Diedi due sottotioli, sempre con un riferimento all’occhio, “Rima palpebralis” e “Aequator lentis”, quindi scelsi tre titoli di origine medica e volli un numero in qualche modo simbolico, il novanta, che mi ricordava il gioco dell’oca. In una parola, volevo governare e razionalizzare questa materia. Ma mi veniva da ridere, perché ogni volta che telefonavo al direttore della Collana Feltrinelli, Aldo Tagliaferri, a cui devo molto, e gli dicevo, posso fare così? Posso fare cosà? La risposta era invariabilmente “sì”. La libertà era assoluta: ma devo metter un titolo? Come ti pare. Ma lo devo dividere? Come ti pare. Tutto questo, però, mi metteva paura, paura di una libertà completa: forse proprio per questo motivo architettai un sistema di regole.

R. Quindi iniziò a pubblicare molto giovane, a ventitre anni…

Però sottolineo sempre una cosa: è vero che esordii molto presto, ma è anche vero che iniziai a spedire i testi alle riviste a diciassette anni. Ecco semmai è questo da segnalare. Tutti mi dissero: “Hai avuto una partenza bruciante, come i bestseller di oggi”. Io rispondo di no: se i bestseller hanno una partenza bruciante, io aspettai sei anni.

R. E la prima poesia pubblicata quale fu?
La prima poesia uscì nel 1976, mi pare, in “Periodo ipotetico”, scelta da Elio Pagliarani, poi, dal 1976 al 1980, uscirono in dieci, venti riviste. E’ una cosa a cui tengo molto, perché altrimenti la mia prima pubblicazione sembrerebbe una cosa caduta dal cielo, un meteorite: non è così. Anche allora le attese erano lunghissime, con tutto che la situazione editoriale era molto più favorevole di oggi: c’era sempre molto da aspettare. Ho sempre avuto questo senso della gavetta, non mi sono sentito un miracolato.

DOMANDA.
Nella nota alla pubblicazione di Einaudi “Poesie (1980-1992) e altre poesie”, lei dice: “Sono convinto che una raccolta, laddove non si tratti di un’opera prima, costituisca innanzitutto un mezzo di segnalazione . Come il bengala lanciato da chi è perso, […]: il nuovo testo è la testimonianza di un avvenuto disorientamento”. Un’opera prima che cos’è? E’ una terraferma? Una certezza di inizio di un viaggio che poi seguirà rotte impensate? C’è il rischio di perdersi? Può esplicitare questo suo pensiero in relazione alla fase iniziale del viaggio?

RISPOSTA.
C’è una grande differenza – lo dico perché spesso i lettori non lo immaginano – tra la poesia e la narrativa. Nel secondo caso, uno scrittore spedisce il suo libro all’editore, il quale, se tutto va bene, decide di pubblicarlo. quindi io passo Dall’oggi al domani, dal lunedì al martedì, si passa da potenziale autore a scrittore consacrato; è quello che nelle teorie matematiche si chiama catastrofe, c’è un momento, cioè, in cui cambia tutto. E’ questo quanto accade nella narrativa. Nella poesia non è così, la poesia è una lentissima opera di costruzione, arriverei a dire che in poesia l’opera prima non esiste, perché si tratta sempre di un’opera ultima. La mia opera prima, appunto, era la pubblicazione di un libro in cui la metà dei testi era già uscita su rivista. Io avevo fatto già decine di letture in pubblico, venti pubblicazioni, tre antologie, quattro traduzioni, e voglio sottolinearlo, perché spesso i lettori non lo sanno. Si tratta di un passaggio molto più graduale rispetto alla narrativa. Per questo dico che si arriva all’opera prima come a una conquista, dopo anni e anni di contatti, di spedizioni, di francobolli, di file alla posta: questo è quanto io ho fatto, non voglio esagerare, per cinque o sei anni. Cominciai a scrivere nel 1974-75, e dopo sei anni, essendo uno dei più fortunati della mia generazione, solo dopo sei anni sono arrivato al libro, quando c’è gente che ci arriva dopo dieci o quindici. Questa è la poesia. L’opera prima nella poesia, lo ripeto, rappresenta un lento, lentissimo perseguimento, mentre nella narrativa è un colpo ai dadi, o come l’ambo vinto all’enalotto, casuale, istantaneo: può andar bene o male, ma non ha un prima o un dopo. Per finire il discorso editoriale, dopo sette anni avevo trovato un editore, Feltrinelli; pubblico il mio primo libro, ma l’editore chiude la collana di poesia. Ebbi un momento di smarrimento, e dovetti ricominciare la caccia. Per fortuna il libro era andato bene , se ne era parlato e aspettai di meno, però tra la prima e la seconda raccolta passarono di nuovo sette anni.

DOMANDA.
Ad “Ora serrata retinae” seguì, nel 1987, la pubblicazione della raccolta “Nature e venature”, nella quale tratta anche il tema del nostro quotidiano, fatto allo stesso tempo di tecnologia e di degrado, che cosa pensa della modernità?

RISPOSTA.
Tutto il bene e tutto il male possibile insieme…. Nel mio secondo libri appaiono i telefoni, appaiono le sirene della macchine, i cinema, gli autobus; è un testo completamente diverso rispetto al primo, che era astratto, poteva essere scritto nel Seicento. In “Nature e venature” parla la modernità, che si mostra soprattutto sotto l’elemento del guasto, del danno, della crepa. A me della tecnologia colpisce soprattutto la precarietà, la vulnerabilità, e questo è un tema ripreso anche in seguito, in “Didascalie per la lettura di un giornale”, dove menziono addirittura dei computer rotti, tutto quanto costituisce il lato in ombra dello splendore tecnologico.

DOMANDA.
Da alcune sue poesie pare che lei scriva molto nelle ore notturne. Come avviene il processo di scrittura? In quali ore, con quali modalità? Pubblica ciò che scrive di getto oppure rivede i suoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Scrivo di notte perché di giorno lavoro; anche volendo non potrei trovare il tempo, se non alla fermata dell’autobus, in treno, in momenti strappati alla giornata lavorativa. Tutti i testi che pubblico vengono rivisti e rivisti per mesi, per anni addirittura, cambiati, manipolati. Sono molto grato alle riviste, proprio in quanto genere letterario, perché mi permettono di saggiare il testo, di vederlo stampato, decidere cosa non va, modificarlo, ritirarlo. Molti testi pubblicati in rivista, per esempio, non li ho mai ripresi in un libro. E’ un tentativo, come con una macchina: la mandi in giro, scoppia, ripari la carrozzeria, la smonti e non la usi più, la si collauda. Nel primo libro c’è una poesia che formata da quattro poesie tutte riunite insieme, segate, c’è proprio un lavoro proprio di falegnameria. Nel terzo libro ce n’è una a cui sono molto affezionato, che è nata unendone due; viceversa ce ne sono altre che erano lunghissime e sono state tagliate. La più breve del primo libro, “Ora serrata retinae”, Einaudi, è tre versi ed era la più lunga, erano quasi quaranta versi, poi ho deciso di buttarne trentasei. Ora mi piace molto, perché per me ha l’aspetto di uno spezzone, come di una colonna infranta; eccola:

Già i nidi delle rondini si staccano
e l’edera mi abbraccia il cuscino:
il mio letto è una foresta.

R. Se non sbaglio il 2003 è la data di esordio in campo narrativo con “Nel condominio di carne”, Einaudi…

Le sue prose erano nate insieme a quelle uscite nel 1992, perché “Esercizi di Tiptologia” ha delle prose; cominciai da lì e ne scrissi altre nel 1992, prima di arrivare all’idea di un libro in prosa sono passati undici anni; ecco, come dicevo, i tempi lunghi…

R. E’ impressionante che lei parla di dieci anni in dieci anni, ma è giovane…

E’ come dal fruttivendolo: basta mettersi in fila presto. Io ho preso il bigliettino di buon’ora…

DOMANDA.
Se non sbaglio il 2003 è la data d’esordio in campo narrativo, con “Nel condominio di carne”, Einaudi, vibrante racconto dedicato al corpo, in cui riprende molte delle tematiche affrontate fin da “Ora serrata retinae”, Einaudi. Perché questa prediletta attenzione al corpo? Che significato ha per lei il corpo?

RISPOSTA.
Beh, forse tutto, il corpo è proprio il nucleo. Cerco di tematizzarlo di studiarlo. Per esempio, anche nella letteratura francese, che è il mio lavoro, ho cercato di approfondire questo tipo di argomento attraverso altri autori. Per questo nel 2002 ho scritto un libro su Paul Valéry, uscito da Einaudi col titolo “Vedersi, vedersi. Modelli e circuiti visivi nell'opera di Paul Valéry”. E’ uno studio sul tema dello sguardo, sul rapporto tra sguardo e corpo. A me questo argomento interessa sia dal punto di vista della scrittura sia dal punto di vista della critica.

DOMANDA.
Lei ha contribuito alle pagine culturali di diversi quotidiani e riviste culturali fra cui “Il Messaggero”, “L'Unità”, “Diario” e “Avvenire”; ha diretto, tra il 1987 e il 1993, la Collana di poesia italiana e straniera La Fenice dell'editore Guanda; nel 1993 ha invece assunto, per Einaudi , la direzione della Collana Scrittori tradotti da scrittori. Ecco la domanda: perché tanti lettori devìano davanti alla poesia? La trovano forse difficile? Qual è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella delle pagine culturali; quale quella dei lettori?

RISPOSTA.
Quanto alle colpe, i poeti sono gli unici che non ne hanno. Dipende molto dagli editori e dalle pagine culturali, perché non c’è fiducia. Non c’è fiducia nella poesia. Certamente un poeta può vendere diecimila copie, a volte succede, però bisognerebbe capire che il pubblico va coltivato, ci sono delle responsabilità.

DOMANDA.
All’attività di poeta e giornalista lei affianca quella di traduttore dal francese di poeti come Valéry, Mallarmé, Verlaine, Jarry, Char e Ponge; ha curato inoltre l’antologia “Poeti francesi del Novecento” (Lucarini, 1991); tra i suoi lavori critici troviamo lo studio “Profilo del Dada” (Lucarini, 1990) e la monografia “La casa del pensiero”. “Introduzione all'opera di Joseph Joubert” (Pacini, 1995). “Vedersi, vedersi. Modelli e circuiti visivi nell'opera di Paul Valéry”, (Einaudi, 2002). Che cosa l’appassiona di più, scrivere testi suoi, in prosa o narrativa, tradurre i testi di altri o il suo lavoro critico?

RISPOSTA.
Ho tradotto molto per il teatro, ho tradotto Beaumarchais, “Le nozze di Figaro”, poi un Koltès, un drammaturgo francese morto dieci anni fa, grandissimo. Adesso ho tradotto l’ultimo libro di Roland Barthes, sulla morte della madre, un libro toccante, dovrebbe uscire a gennaio da Einaudi.

R. Ha curato anche l’Antologia “Poeti francesi del Novecento”…

C’è una battuta di Mandel'štam, dice: “Non c’è niente di più grave per un poeta che tradurre, è come mangiarsi il cervello per la fame”. E’ un lavoro sostanzialmente ingrato, ti assorbe una enorme quantità di energie intellettuali, per poi ottenere un prodotto caduco per definizione; le traduzioni ogni vent’anni, trent’anni vanno rifatte, perciò già sai che lavorerai a qualccosa che scade. E’ come se ti dicessero: “Vuoi scolpire una statua di marmo o di panna montata?” Farla di panna montata richiede una fatica uguale, solo che dopodomani s’è squagliata. La traduzione è destinata a morire.

G. Come mai questa passione per il Dada?

Mah, è un po’ casuale, perché me lo chiese un mio professore, un professore che credette in me, Pasquale Iannini. Io ero giovanissimo, non ero neanche laureato, però aveva sentito un mio intervento a un convegno, era rimasto interessato, allora mi disse: “Io dovrei fare un lavoro per una enciclopedia, non ho tempo, lo vuole farlo al posto mio?”; risposi di ignorare la materia, non sapevo neanche che cosa fosse il dadaismo, lui non solo mi offrì un lavoro pagato (avevo vent’uno anni ), ma aggiunse: “Questa è la mia libreria, prenda tutti i libri che vuole”. Così uscii da casa sua con due valige piene di libri, mi chiusi in una stanza e per tre mesi lessi solo cose sul dadaismo; alla fine gli riportai i libri. Fu un privilegio, e devo dire che per me è stato fondamentale, per la mia formazione, per la mia poesia: tutto ha risentito di questo incontro felice. Sono molto grato a questo docente. E’ stato bello che dopo vent’anni abbia ristampato il mio studio da Laterza, una nuova edizione, una ristampa, un lavoro cui sono affezionato.

DOMANDA.
Riguardo alla sua attività di traduttore, è molto interessante un breve testo presente nella sua ultima opera in prosa, “La vicevita”. Treni e viaggi in treno, edito da Laterza nel 2009. Racconta di come tempo fa si sia trovato all’ultimo momento, in treno, diretto a un convegno a Trieste, a tradurre l’elegia di un traduttore francese del Seicento, Guillaume Colletet, intitolata Discorso contro la traduzione. Ma, dopo essersi accorto di aver dimenticato a casa gli “strumenti” per la traduzione, dizionario dei sinonimi e rimario, mentre temeva di dover lasciare perdere, si ritrova invece ispirato dal ritmo del treno, e sul ritmo stesso del ta-tàm del treno sulle rotaie, si lancia a tradurre il testo e a concludere così la narrazione di quell’esperienza: “[…] Rullavano, i miei giambi ferroviari, e come avrei potuto lasciarli andare? Cosa c’era di meglio che tradurre, stando dentro un metronomo? Così, facendo a meno di ogni libro, mi abbandonai a quella possente ipnosi ritmica, e composi la mia versione italiana come un invasato, come un posseduto. Di solito si va in trance per una poesia; a me successe per una traduzione.”
Il testo tradotto recita così, in base alla sua traduzione pubblicata su “La vicevita”:

Son stufo di servire, basta con l’imitare,
Le versioni sviliscono chi è in grado di inventare:
Sono più innamorato di un Verso che ho prodotto
Che di tutti quei Libri in prosa che ho tradotto.
Seguire passo passo l’Autore come schiavi,
Cercare soluzioni senza averne le chiavi,
Distillarsi lo Spirito senza capo né coda,
Far di un vecchio Latino un Francese alla moda,
Spulciare ogni parola come fossi un Grammatico
(Questa funziona bene, quella ha un suono antipatico),
Dare a un senso confuso uno sviluppo piano,
Unire a ciò che serve tutto un linguaggio vano,
Parlare con prontezza di quello che più ignori,
I Dotti, dei tuoi sbagli, rendere spettatori,
E seguendo un capriccio spinto fino all’eccesso
Capire chi neppure si capì da se stesso:
Ormai, questo lavoro mi ha talmente stancato
Che ne ho il corpo sfinito, lo spirito spossato.

Qual è lo spirito – il pensiero – del traduttore Magrelli nei confronti della traduzione dei testi dal francese all’italiano, quello che emerge dalla elegia che vuole proporre ad un convegno a Trieste, quindi un Magrelli dal “corpo sfinito, lo spirito spossato” a causa del lavoro di traduttore, o quella che emerge dalle ultime righe del suo breve racconto, un traduttore appassionato alla traduzione? Anche per lei vale questa frase? “Sono più innamorato di un Verso che ho prodotto / Che di tutti quei Libri in prosa che ho tradotto.”

RISPOSTA.
E’ bella questa contrapposizione fra due anime che poi in realtà coesistono; innanzitutto c’è lo sfinimento, però certe soluzioni fanno anche piacere, e rendono il lavoro appassionante. Ho davvero un metronomo, sta lì. Ho studiato per quasi vent’anni pianoforte. Ma non sono mai riuscito a preparare l’esame, lo considero un fallimento; viceversa vado molto fiero d’aver superato l’esame di teoria e solfeggio: sono un maestro solfeggiatore. Per me è importante, ho passato giorni e giorni su questo metronomo, e quando dico “trovare un nuovo ritmo”, non uso una metafora, ma mi riferisco a qualcosa che corrisponde a un vissuto profondo, alle ore che ho passato nella casa del mio maestro a scandire note con il pentametro davanti. In qualche modo aggiungerei che, nel mio lavoro sulla metrica, probabilmente si è travasata parte dell’esperienza musicale.

DOMANDA.
La sua ultima pubblicazione, come già accennato è il libro intitolato “La vicevita”. Treni e viaggi in treno, recensito e proposto come lettura consigliata su larecherche.it, da cui leggo: “Questo libro di Magrelli è strutturato in brevissimi racconti in cui sono narrate meditate esperienze autobiografiche tratte dalla sua vita di viaggiatore che, fin dalla prima giovinezza, per varie motivazioni, lo porta a stare in treno […]”. Nella prima pagina del libro si legge: “Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos’altro. Il suo scopo, cioè, risiede altrove […] Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. E’ ciò che chiamerei: la vicevita.” Ancora riporto dalla recensione: “Un libro snello da leggere, riposante – come il verde attraente della copertina già sta a significare –, a tratti divertente, sa strappare sorrisi svagati. Un libello che mette in luce aspetti ironici e tragici dell’esistenza umana e della convivenza civile, a guizzi provocatorio…

M. Mi ha colpito che citava quella cosa da Auschwitz. Cioè appunto, è importante sottolineare la parte svagata però poi… cioè mi piace lavorare per contrapposizioni

…Ci fa soffermare su quanto mai semplici, e per questo acute, meditazioni circa il senso della storia e di eventi accaduti nel passato e che hanno nel treno un evocatore che porta sensazioni, dentro la propria pancia, e rivela consuetudini dell’Italia e delle sue gentili o isteriche convivenze.” Come nasce questo libro? Noi l’abbiamo consigliato a tutti , a lei piacerebbe consigliarlo a qualcuno in particolare? A che cosa sta lavorando attualmente?

RISPOSTA.
“La vicevita” nasce in un intervallo del mio sterminato libro su Baudelaire, sviluppato nel corso di vent’anni, che uscirà tra poco. All’inizio avevo fatto un corso su un sonetto di Baudelaire, poi per caso l’anno seguente scopro lo stesso sonetto in Beckett; passano due anni, e per caso ritrovo lo stesso sonetto citato in Perec; passano altri due anni, e lo ritrovo in Céline. Insomma, per farla breve, ogni due o tre anni ritrovo lo stesso sonetto. Alla fine l’ho rintracciato in dieci scrittori, dieci scrittori francesi, tranne Nabokov, da Queneau a Colette, fino a Michaux. Tutti lo hanno usato nelle loro opere, una volta, questo sonetto, tutti lo stesso sonetto e senza sapere uno dell’altro. Ora, probabilmente, anche con altri sonetti accadrà questo, perché Baudelaire famosissimo, però la cosa fa impressione. Il libro inanella e segue questa storia di dieci riscritture, dieci trapianti, con la stessa poesia che sbuca, sbuca, sbuca… Ma la cosa più divertente sono le forme di un simile trapianto, la cosa che interessante è come ognuno di loro l’ha ripreso in una maniera diversa: chi per un accenno, chi riscrivendolo, chi negandolo, chi attaccandolo, chi prendendolo in giro – in due o tre casi ci sono delle parodie. Fatto sta che mentre mi concentravo su questo libro che non finiva mai (andavo in giro a fare conferenze, poi un amici mi chiamava uno dicendo: “Ma sai che ho trovato un nuovo caso di innesto”; allora lo aggiungevo, pubblicavo il saggio, ma mi scrivevano per dirmi che ne avevano trovato un altro ancora e così via, in un tam tam), ecco, a un certo punto ho scritto “La vicevita”. Anna Gianluca, che è la direttrice della collana Laterza, mi disse: “Ma perché non scrivi nulla per la nostra collana Contromano?” A me questa Collana piaceva molto già dal titolo, una Collana che attraversa i generi, permette una libertà assoluta, ma risposi di non avere tempo, e di non sapere cosa scrivere. E’ stata lei che mi ha detto: “Ma come, sono vent’anni che vivi in treno…” Sono rimasto folgorato, e per la prima volta in vita mia ho scritto un libro in sei mesi, come in una specie di ricreazione, di parentesi felice. Mi sono molto divertito a scriverlo, perché è come se avessi ricevuto una parola magica per catalizzare tutta una vita trascorsa praticamente in treno. è l’emozione di aver scoperto una chiave, mi sono molto appassionato. Poi mi è venuta in mente l’idea delle sezioni (ho creato quattro sezioni, numerate in maniera abbastanza equilibrata), ma anche questo lo devo a Anna Gianluca. Non c’è niente da fare, la casa editrice è importante. L’interlocutore è fondamentale, non deve essere un editor che ti dice togli questa parola e così via , bensì qualcuno che entra nel libro.

R. Lo consiglierebbe a qualcuno in particolare?

A differenza dei libri di poesia, questo ha mille entrate. I libri li vedo, a volte, come delle fortezze; alcuni che hanno un unico ingresso, c’è un ponte levatoio e basta. Questo è un testo molto aperto, disponibile all’incontro. Per quello su Baudelaire, invece, la scommessa è stata di non farne un libro universitario. Ho impiegato quasi un anno di revisione per scriverlo in maniera molto lineare; ovviamente non posso pretendere che un idraulico, un manager , un calciatore, vi si appassionino. Certo, sarebbe possibile, però è difficile; ma non vorrei neanche che questo libro venisse letto solo da francesisti. La scommessa con l’editore è stata di scriverlo nella maniera più lineare, senza dare mai nulla per scontato. Quando dico Proust, specifico, il famoso autore e narratore della Recherche, e così via; non mi piace escludere le persone sulla base delle nozioni, semmai le escluderei sulla base dell’interesse. Chi non ha interesse abbandona la lettura, però io voglio dare a tutti la possibilità di seguire questa riflessione, anche perché il sonetto, non l’ho detto, è davvero scottante, incandescente: Baudelaire che si rivolge al dolore chiedendogli aiuto. Assistiamo a una situazione profondamente contraddittoria, in quanto di solito si maledice il dolore. Il dolore in francese è femminile, quindi diventa la Musa; Baudelaire si rivolge alla Musa, madre, amante, sorella, figlia, quello che si vuole, per chiedergli aiuto, ma lei è il dolore: come si fa a chiedere aiuto al dolore? Ecco cosa ha sollecitato tanti lettori. Arrivo al caso estremo, veramente è impressionante –relativo alla morte della figlia di Trintignant, l’attrice che fu uccisa dal suo compagno, un cantante rock, del gruppo musicale francese Noir Désir… Il capo di questa band era fidanzato con la figlia di Trintignant, e durante una lite la uccise a pugni, la picchiò fino ad ucciderla (era drogato, tossico). Ebbene un giorno una mia amica mi telefona: “Compra Le Figaro immediatamente”; vado a comprare Le Figaro, e scopro che la madre di questa ragazza era stata interrogata e la polizia, e si scoprì che l’ultimo SMS della vittima era l’inizio del sonetto di Baudelaire spedito alla madre. Perché? Perché è una specie di parola d’ordine. Il primo verso, appunto, in cui ci si rivolge al dolore, non è soltanto un ricordo letterario scolastico, libresco, ma significa qualcosa che viene usato anche nei momenti più tragici, come un talismano. Questo perché la letteratura, quando agisce, quando è viva, non è qualcosa di accademico, di freddo, distaccato dalla vita, ma diventa essa stessa strumento di vita. Per quella giovane donna, la poesia di Baudelaire era un flebile, esilissimo mezzo di difesa. Insomma questo sonetto è diventato un’ossessione. Ma oggi hanno telefonato dicendo che lunedì arriveranno le bozze del libro….

R. Quindi il libro quando uscirà probabilmente a…?

Penso a febbraio.

R. Per l’anno nuovo, poi ce lo fa sapere così lo leggiamo.

Spero sia leggibile.

DOMANDA.
Già dal 1992, con Esercizi di tiptologia, e anche in “La vicevita” si nota la sua tendenza a mescolare versi, traduzioni, prose, in direzione di una scrittura ibrida e contaminata, continuerà in questa direzione? Amplificherà tale commistione?

RISPOSTA.
Non ne ho idea. Per adesso no, per adesso non ho in progetto nuovi libri di poesia: intanto scrivo poesie poi vedremo.

DOMANDA.
Ed ora una domanda per soddisfare una mia curiosità. Il suo ultimo libro in prosa “La vicevita”, a tratti, non so come mai, mi ricorda certi film di Woody Allen. E’ plausibile la mia sensazione? Anche perché mi pare di aver letto da qualche parte che lei ha studiato cinema…

M. Sì il primo anno in Francia, in realtà all’università io studiai cinema.

…e comunque qual è il suo rapporto con il cinema? E’ per caso lei il Valerio Magrelli, primo dermatologo, in Caro Diario del 1993 di Nanni Moretti?

RISPOSTA.
Sì sono io. Ho avuto anche altre offerte, devo dire la verità, però non ho accettato.

R. E come ci è finito dentro il film di Nanni Moretti.

Beh, perché allora eravamo amici ci vedevamo spesso. Poi ci aveva unito la pallanuoto. Io gli dedicai un testo in Esercizi di tiptologia, un testo sulla pallanuoto che era nato leggendo una sua intervista. Moretti si chiedeva: “Perché ha trascorso tanti anni in acqua?”… Mi piacque talmente questa domanda, che l’applicai a me stesso. Poi lui in qualche modo è diventato il rappresentante ufficiale della pallanuoto nella rappresentazione immaginaria del pubblico italiano, dato che quel film, a cui sono affezionatissimo, è uno dei suoi più belli. Però la pallanuoto per me fu molto seria, vincemmo addirittura il campionato italiano giovanile. Quando mi invitò a partecipare al film “Caro diario” accettai , lo confesso, anche perché avrei dovuto fare la parte del medico, e siccome mia madre è medico... Io ho sempre avuto problemi con la medicina, come si vede con “Nel condominio di carne”… L’idea di fare un medico che sbaglia mi parve splendida, fu una vendetta; la mia è stata una vendetta.

R. E Woody Allen?

Ne ha fatti troppi di film, diciamo che alcuni film erano come le mie traduzioni che lo hanno fatto vivere, però la sua ironia è veramente magistrale. Certo, passo la vita vedendo film, quello mi è rimasto. In un giorno ne vedo anche due: per me il cinema è ossigeno. E’ un grande amore. Con Fellini, ad esempio, ci siamo visti per anni, anche se raramente, perché Fellini era interessatissimo alla letteratura italiana, conosceva molti scrittori. Mi telefonò a casa, un bel giorno, anzi pensavo fosse uno scherzo, quando era uscito il primo libro, nell’Ottanta. Mi ricordo ancora, era agosto, stavo a casa , squilla il telefono, era Fellini, e disse: “La vorrei conoscere”…

DOMANDA.
In tutta libertà e sincerità che cosa pensa di siti, quali larecherche.it, che danno la possibilità di pubblicare testi online ad autori altrimenti sconosciuti?

RISPOSTA.
Ogni spazio d’ascolto secondo me è proprio quanto di più necessario si possa pensare per la letteratura; la letteratura vive della comunicazione, della circolazione. Una volta feci un esempio che forse funziona ancora, quello degli squali: gli squali non si possono fermare, perché non hanno apparato respiratorio. O nuotano, o si fermano in particolari punti dove ci sono correnti molto forti, altrimenti non si possono fermare, perché morirebbero. Questa è la letteratura: non si può bloccare, deve sempre girare. Tutto quanto gli assicura circolazione rappresenta la sua vita. Ciò detto, però, è assai importante l’idea di filtro: una rivista, cioè, è importante sia per quello che pubblica, sia per quello che rifiuta, perché, dove c’è una redazione, c’è un filtro, e questo vale anche per il Blog in genere. Una pubblicazione senza filtro, finisce un po’ per essere una tautologia. Sarebbe come immaginare case editrici che pubblicassero tutto. Pubblicare tutto vuol dire non pubblicare più nulla.
Un altro punto sul quale ho delle riserve riguarda la differenza tra il lettore e il critico. Quello che non bisogna mai far venir meno è la figura del critico; quando si inizia a parlare di un libro, bisogna tener presente che ci sono delle competenze che il lettore comune non può avere. C’è sempre un salto, secondo me, tra la dimensione del lettore e la dimensione del critico. Attenzione, non dico tra la persona del lettore e la persona del critico, perché io posso essere, per esempio, lettore di un testo sulla medicina, e contemporaneamente critico di uno sulla letteratura, o viceversa. Il medico che leggerà me come lettore, probabilmente non ha strumenti per capire come funziona una poesia, ma diventa mio maestro e critico per quanto riguarda invece un libro di medicina. Nessuno è inchiodato per sempre ad un ruolo, ma volta per volta le competenze girano. Ora, anche la letteratura è una competenza. Quante a volte sul Blog si tende a dimenticarlo! Insomma, io valuto diversamente il parere del lettore comune e quello di Mengaldo. Se Mengaldo mi dice una cosa su un libro, io lo ascolto come un luminare, ma non mi farei mai operare ai denti da Mengaldo, piuttosto vado dal mio dentista. Questa è qualcosa da sottolineare, perché il problema vero è solo quello delle competenze, e dell’autorevolezza, tutto qua.

DOMANDA.
Che cosa consiglia a chi vorrebbe provare a pubblicare i propri testi in un libro? A quali editori dovrebbero rivolgersi? Se è poesia è meglio desistere? Va bene pubblicare contribuendo alle spese di pubblicazione?

RISPOSTA.
La cosa più importante sono le letture pubbliche e le riviste. La poesia incomincia da lì, e ora sui Blog, certamente, cioè riviste telematiche, riviste cartacee, letture pubbliche. Stabilire dei contatti con dei gruppi di ascolto predisposti, con dei lettori di eccezione, con dei critici. Cos’hanno in più di me? Hanno esperienza. Se uno fa il redattore di una rivista, ha visto mille testi, quindi saprà stabilire differenze tra mille testi, mentre io, che ne ho letti solo due o tre, ho tutto da imparare. Mi limito a proporre quello che ho fatto io: ho scritto alle riviste, ho iniziato a seguire le letture, andavo agli incontri delle redazioni, nei dibattiti, iniziavo a farmi conoscere, facevo leggere i miei testi. Per la poesia la diffusione è una cosa graduale, a differenza del romanzo. E’ inutile mandare i testi direttamente al grande editore, bisogna far decantare, creare come una stratificazione di pubblicazioni, per piccoli passi… ripeto questo è il mio parere. Però è quello che ho visto funzionare in tanti casi, vedendo autori arrivati alla grande pubblicazione gradualmente; mi sembra una cosa sana e devo dire che in Italia funziona. Faccio un nome tra tutti, l’ho incontrato, proprio l’altro ieri, a Pordenone, al festival “Pordenone legge”. Franco Buffoni, che è un poeta, da dieci anni cura dei quaderni di giovani poeti. Era una tradizione della Guanda e di Einaudi, ebbene ora Buffoni segue questa serie straordinaria, sceglie gli autori, li trova leggendoli su rivista. Ecco, il vero canale è proprio questo.

R./G. Grazie

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