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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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CURARSI DALLA FAMIGLIA

Argomento: Letteratura

di Valentina Corbani
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Pubblicato il 24/05/2011 14:30:04

CURARSI DALLA FAMIGLIA: RAPPRESENTAZIONE DELLE FIGURE GENITORIALI IN VIRGINIA WOOLF E CARLO EMILIO GADDA

Dal diario di Virginia Woolf:

28/novembre/1928: Compleanno di papà. Avrebbe avuto 96 anni, sì, 96 anni oggi; e avrebbe potuto avere 96 anni come altre persone che abbiamo conosciuto; ma per fortuna non è stato così. La sua vita avrebbe distrutto completamente la mia[1].

“Per fortuna”, scrive la Woolf, “non è stato così”. Avrebbe potuto essere (perché il padre sarebbe potuto vivere cento anni) ma, per fortuna, non è stato.

Già ho parlato della funzione terapeutica della scrittura (e, in parte, della lettura). La scrittura, in sostanza, è terapeutica, ha un effetto ‘medico’ quasi perché parte dallo scrittore e da ciò che egli è e lo spoglia, lo denuda, quasi, da se stesso, così egli diventa null’altro che se stesso. Mostra allo scrittore ciò che egli è (e magari non sapeva d’essere).

C’è, allora, un effetto di ‘denudazione’ dello scrittore di fronte al suo libro. Non solo, quindi, quel libro è una spoglia pagina bianca davanti alla penna dello scrittore pronto a scrivere la prima parola; ma lo scrittore stesso si spoglia, talvolta, di se stesso; ‘esce’ un po’ da sé per riempire di sé il suo libro.

Questo effetto di ‘spoliazione’, di mettersi a nudo di fronte a qualcosa, non comporta necessariamente il trovarsi scoperti, senza difesa alcuna, soli. Spesso, al contrario, ci si spoglia per vestire i panni di qualcun altro: uno scrittore, infatti, può benissimo scrivere ciò che vuole e fingendo d’essere chi vuole.                                                            Può, come Nabokov in Fuoco pallido, attribuire l’intero libro e il commento a qualcun altro in una mirabile mimesi della realtà[2].                                                    Talvolta quest’ altro, l’alter ego dello scrittore, non è poi così lontano da lui, come Marcel nella Recherche.                                                                                                            “Il romanzo”, scrive Virginia Woolf, “è una macchina di grandissima importanza per la creazione di personaggi”[3] il cui prototipo, la forma base, si potrebbe aggiungere, siamo talvolta noi, talvolta altri.

Comunque sia, in qualunque modo avvenga questa denudazione, è inevitabile che quando ci si spoglia si mostra ‘tutto’: la virtù e i difetti, i turbamenti del nostro ‘povero cuore’[4] e le gioie, il nostro personale giardino segreto e carico di frutti e gli scheletri dell’armadio (anch’esso, per fortuna, segreto e personale).                                 Quando ci si spoglia, si è nudi di fronte a se stessi, in definitiva; davanti a ciò che si sta per scrivere. Si sono, così, in un certo modo, disposti gli ‘elementi della scrittura’.

Anche senza voler fare affermazioni assolute è innegabile che la scrittura, come l’arte in generale, si nutra anche di qualche cosa che abbiamo dentro.                                            Ciò che si è detto nel secondo saggio a proposito del ricordo è valido, forse, anche per la scrittura: una sensazione, un oggetto, un raggio di sole, le rose del Bengala, una tazza di tè possono far riemergere ‘l’immenso edificio del ricordo’[5]; tuttavia, emerge solo qualcosa che c’è, che è ben nascosto magari, ma c’è. Infatti, se un ricordo è assente, se un’esperienza non è stata vissuta, nessuna tazza di tè può farla riemergere. Al contrario, e come è ovvio, se qualcosa c’è, giace in noi, sta dentro di noi, anche se volontariamente non ce ne ricordiamo, comunque è lì, in qualche parte di noi, e lì sta.

Così è per la scrittura. Lo stimolo, la spinta a sedersi alla scrivania e prendere la penna in  mano possono tranquillamente venire dall’esterno, ma si scrive anche qualche cosa e di qualche cosa che si ha già, in un certo modo, dentro.

In fondo, non è forse sbagliato dire che, se è vero che ‘si sogna il sogno di tutti’[6], così ‘si legge il libro di tutti’.

“Chaque lecteur”, scriveva Proust, “est le prope lecteur de soi même. L’ouvrage de l’écrivain n’est qu’une espèce d’instrument optique qu’il offre au lecteur afin de lui permettre de discerner ce que sans ce livre in n’eût peut-être pas vu en soi même”[7].

Ma che cosa si vede? Che cosa rileva questo strumento ottico?                                 L’abbiamo detto: una volta che si è nudi, ‘tutto’ si vede: le virtù, i pregi, ma anche le mancanze e le debolezze nostre e con gli altri.

Tra questi ‘altri’ bisogna inserire anche i genitori; o meglio, la rappresentazione letteraria delle figure genitoriali.

Nello specifico, dal momento che l’argomento è abbastanza vasto, saranno prese in esame due opere di scrittori molto diversi: Al faro di Virginia Woolf e La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda.

 

Vediamo subito i due incipit:

Al faro, “Sì, naturalmente, se domani sarà bello” disse la signora Ramsay. «Ma dovrai alzarti all'alba» aggiunse.
Per suo figlio quelle parole furono messaggere di una gioia straordinaria, come fosse ormai deciso che la gita avrebbe avuto luogo, che il prodigio atteso con tanta ansia, per anni e anni gli sembrava fosse ora, dopo una notte di oscurità e un giorno di navigazione, a portata di mano. […] “Ma non sarà bello”, soggiunse il padre. “Non potrai andare al faro”
[8];

La cognizione del dolore, In quegli anni, tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maradagàl, che è paese di non molte risorse, davano facoltà ai proprietari di campagna d’aderire o di non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte[9].

Come si può vedere dall’incipit, nel romanzo della Woolf viene da subito lasciata intendere, suggerita la rivalità con la figura paterna. Si crea, infatti, un effetto di polarizzazione molto netta tra le due figure dei genitori: da una parte, la madre che dice “Sì, naturalmente” e aggiunge, subito dopo, “se domani sarà bello”, quindi non è un’affermazione assoluta (come quella del padre) ma, dicendo ‘se’, lascia aperta la possibilità al fatto che il tempo l’indomani sarebbe anche potuto essere bello. D’altra parte, il padre che dice “No”; “Ma non sarà bello”.

Oltre la distinzione evidente tra il ‘sì’ della madre e il ‘no’ del padre è, secondo me, molto importante sottolineare il fatto che c’è un preciso atteggiamento, una precisa caratterizzazione dei personaggi sotto quello che dicono, al di là delle parole. E, oltre le parole, è possibile conoscere un linguaggio più segreto, nascosto ma non così misterioso se lo si sa leggere. Questo linguaggio dice che, oltre il ‘sì’ della madre, c’è il fatto di lasciare aperta una possibilità; la madre dice ‘sì’ e molto di più. Dice che forse si sarebbe potuti andare al faro, altrimenti si sarebbe andati un’altra volta; dice di non disperare per l’indomani perché forse il tempo sarebbe stato bello; dice che ci sono le stesse probabilità, in effetti, che il tempo sia bello oppure no. Dice, oltre a questo, che capisce quanto questa gita al faro sia importante per James, il figlio, quindi calibra bene le parole, non vuole illuderlo né deluderlo; cerca, insomma, di mostrare al figlio tutte le possibilità.

Dall’altro lato, il ‘no’ del padre non può essere interpretato così, secondo me. Il ‘no’ del padre dice solamente: “No, domani sarà brutto, non c’è possibilità alcuna che sia bello e non andremo affatto al faro”. Così, la differente caratterizzazione dei due personaggi (padre e madre) si ha già in maniera splendida in queste prime righe: laddove la madre lascia al figlio delle possibilità, il padre toglie ogni speranza; laddove la madre cerca di non deludere il figlio, di lasciargli respiro, il padre non vuole illuderlo e perentoriamente gli presenta l’unica visione accettata delle cose. La sua.

Questo discorso, se vogliamo, si lega a quello che si faceva prima nel saggio n. 6 sulla realtà e la verità. Si potrebbe dire, infatti, che la grande differenza tra queste figure sta nel fatto che la madre si pone con un atteggiamento di apertura: ammette che il tempo non è dei migliori (prima verità) e accetta, prende in considerazione, almeno, l’idea che sarebbe potuto migliorare per l’indomani (seconda verità / possibilità). Il padre, invece, vede che il tempo è brutto ed è sicuro che non migliorerà: ha già deciso che non cambierà il tempo e che la gita non si farà. Per il padre, allora, c’è una verità sola, un’unica realtà: la sua.

“Non c’è possibilità alcuna di andare al faro, James”, dice il personaggio nel romanzo; e “non c’è possibilità alcuna di diventare una scrittrice, Virginia”, avrebbe (ha?) forse detto Leslie Stephen alla figlia. Infatti, se continuiamo nella lettura del diario, poco dopo si legge: “Che sarebbe avvenuto? Niente libri, niente scrivere; inconcepibile”[10].

“La sua vita”, continua il diario, “avrebbe distrutto completamente la mia”[11].

Ecco l’ossessione, il timore, o meglio, la paura. La vita ingombrante, enorme dei genitori che schiaccia quella dei figli.

Un passaggio simile si trova anche nella Cognizione:

Conoscevo, sapevo chi era. Non poteva esser altro … altissima, immobile, velata, nera …            Nulla disse: come se una forza orribile e sopraumana le usasse impedimento ad ogni segno d’amore: era ferma oramai … Era un pensiero … nel catalogo buio dell’eternità … E questa forza nera, ineluttabile … più greve di coperchio di tomba … cadeva su di lei! come cade l’oltraggio che non ha ricostituzione nelle cose … Ed era sorta in me, da me! … E io rimanevo solo[12].

Qui il discorso, il contesto è molto diverso, ma è possibile trovare dei punti di contatto. Anche la madre è altissima, nera; qualcosa di enorme allora che sovrasta, in un certo modo, il figlio.  

E’ valida, comunque, l’affermazione che si faceva prima, cioè di non schiacciare l’opera sulla biografia: Leslie Stephen è il padre di Virginia Woolf non di James; ma è vero anche che, in qualche modo, il padre viene trasposto nella finzione narrativa. Non è di lui che si parla nel romanzo, ma di un tratto del suo carattere, della sua personalità: viene preso quel tratto e viene trasposto nella finzione. Si racconta quel tratto e qui sta la funzione terapeutica della scrittura, perché di quel tratto si prova a liberarsi.

“Credo che sia vero”, continua infatti la Woolf, “che io fossi morbosamente ossessionata da entrambi; e scrivere di loro è stato un atto necessario. Ora ritorna piuttosto come un contemporaneo”[13].

Questa sensazione è condivisa. Infatti, tra la corrispondenza della Woolf, c’è una lettera della sorella Vanessa che dice proprio

A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei creduto possibile. È quasi doloroso vedersela risuscitare davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo carattere […]. È stato come incontrarla di nuovo, ormai adulti e su un piano di parità[14].

La stessa sensazione, quindi; lo stesso bisogno, forse, di rincontrarsi e su un piano di parità, su un terreno neutro dove non ci sono dislivelli tra genitori ingombranti e figli fragili: un piano di parità.

Questo tratto trasposto in letteratura (o in pittura o in musica) di cui si parlava prima, può infatti (e lo è il più delle volte) essere un’ossessione, una paura, una delusione, qualcosa di cui si ha il bisogno di liberarsi.

Scrivendo questo accade nella Woolf: il padre torna come un contemporaneo, cioè qualcuno “come lei”, della sua misura, qualcuno al quale non si sente più inferiore, che non può farle male, che non l’ossessiona più. Diventa solo un pensiero, qualcosa di molto più gestibile.

Prima, parlando del sogno, si era detto con Bottiroli che “il sogno è la realizzazione in forma allucinatoria di un desiderio”[15], quindi che durante il sogno quel desiderio represso e quel frustrante controllo che va sempre esercitato su quel desiderio inappagato trovano spazio e il desiderio “si avvera” (nel sogno, almeno).

Lo stesso avviene con la scrittura. Se, infatti, si riesce a incanalare la paura, la frustrazione, l’ansia, il terrore, i genitori e quello che sono lì, nel foglio scritto; se si riesce a far passare tutte queste cose da un certo punto di noi in cui sono, alla penna, fino al foglio scritto (e da scrivere); ebbene, quello è un “terreno di gioco” già più neutro, una strada più praticabile e, chissà, forse in quel terreno siamo un pochino in vantaggio.

“Ma scrivere di lui era necessario”, ha detto la Woolf; e probabilmente lo era perché era l’unico modo per affrontarlo: guardare in faccia quella paura, il padre reale che lei non può controllare, e trasporlo nella finzione, scrivere di lui ciò che si vuole. In fondo, se ci si pensa, la paura è qualcosa che non si riesce a controllare, che prende il sopravvento su di noi. Scrivendo del padre, probabilmente la Woolf è riuscita a ottenere questo controllo: il personaggio nel romanzo, infatti, dice, pensa e fa quello che lei decide; è sicuramente più gestibile del padre in carne e ossa.

Tuttavia, “la reminescenza letteraria non basta ad attenuare e a disinnescare la tremenda energia distruttiva dell’evocazione”[16]. Ricordare non basta, scrivere forse neppure: una volta affiorata, capita, una volta che la paura si definisce davanti a noi; una volta che guardiamo in faccia “quell’altissima donna nera” bisogna gestirla quest’immagine.

E una volta gestita bisogna affrontarla; e per affrontarla ci vuole coraggio. Innanzitutto, secondo me, il coraggio di essere quello che si è; esserlo per davvero; andare là dove è il nostro sogno e diventarlo. E per raggiungerlo si può fare qualunque cosa.

C’è un’immagine che mi ha sempre fatto riflettere in questo senso: Cosimo Piovasco di Rondò, il Barone Rampante. Io sono profondamente convinta che se Cosimo non fosse mai salito su quell’albero o se fosse sceso, non sarebbe stato lo stesso. Cosimo è se stesso perché quel giorno ha rifiutato le lumache ed è salito su quell’albero annunciando a tutti che non sarebbe mai più sceso (“E io non scenderò più!” E mantenne la parola”[17]), e così ha fatto. Il suo sogno probabilmente stava lì. Cosimo “in terra” non è lo stesso Cosimo.

“Leggerò Proust, credo. Voglio andare indietro e avanti”[18], scrive di nuovo la Woolf; ecco come si affronta la paura, come si trova il coraggio di salire su un albero e non venir gettati a terra ma andarsene in mongolfiera; ecco come è possibile placare quei fantasmi: andando indietro e avanti. Tornando indietro, quindi, alle scaturigini della paura, al punto in cui qualcosa si è rotto e tutto è iniziato; e poi andando avanti: si torna indietro per andare avanti; si ricorda non per conservare il ricordo inscatolato, ma per aprire la scatola e darle luce. Si parte, lo dicevamo prima, si torna e si continua di nuovo.



[1] Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, cit., p. 188

[2] Cfr. Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, cit.

[3] Virginia Woolf cit. in Federico Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, cit., p. 178

[4] Cfr. Giacomo Leopardi, Canti, cit.

[5] Marcel Proust, Á la recherche du temps perdu, cit., p. 987

[6] In questo libro, saggio n. 6 

[7] Marcel Proust, Á la recherche du temps perdu, cit. p. 2347

[8] Virginia Woolf, Al faro, cit., p. 4

[9] Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, Milano 1988, p. 9

[10] Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, cit., p. 188

[11] Ibid

[12] Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 97

[13] Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, cit., p. 188

[14] Lettera di Vanessa riportata in Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, cit., p. 156

[15] Giovanni Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, cit., p. 213

[16] Federico Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, cit., p. 128

[17] Italo Calvino, Il Barone Rampante, Mondadori, Milano 2001, p. 14

[18] Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, cit., p. 188



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