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Marcel

di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 05/12/2007

La prima volta che vidi Parigi fu agli inizi del Novecento, forse il primo o il secondo anno, non saprei, con l’età i ricordi tendono a sbiadirsi e diventare come merletti sovrapposti, in cui si fatica a distinguere fra gli strati. Del viaggio che feci per arrivare non ricordo molto, ma ciò che invece è ancora vivido nella mia mente è il forte desiderio di vedere ogni angolo, respirare ogni nuvola, bere ogni bicchiere d’acqua che quella città poteva offrire. Essere li era come ricostruire tassello per tassello, ogni giorno il sogno di ciascuna notte, ma , come è noto, i sogni sovente si infrangono sulle ripide scogliere della realtà, fu così che per sbarcare il lunario ed assicurarmi un tetto sopra la testa dovetti cercare un lavoro. Venni assunto come barista all’Hotel Ritz di place Vendôme, nelle mie illusioni di ventenne con quel lavoro avrei potuto farmi una idea da vicino dell’alta società parigina per poi raccontare tutto in un grande romanzo. Purtroppo l’unica idea che mi feci, molto chiara, fu cosa significa essere aiuto barista: ore e ore a sciacquare bicchieri e trasportare casse dal magazzino al retro del bar, insomma l’alta società in cui volevo essere immerso la potevo solo intravedere. Fu un evento, quindi, una sera tardi quando ormai tutti se ne erano andati, poter servire una birra ad un solitario cliente. La cosa che maggiormente mi colpì di lui fu lo sguardo che, sebbene non indagatore ne sfrontato, mi parve riuscì a leggere fino al più recondito dei miei pensieri nei pochi attimi in cui mi vide.
Ebbi solo un’altra occasione di rivedere questo signore, fu qualche mese dopo, al Bois de Boulogne, dove ero andato a passeggiare per poter ammirare le signore eleganti che, come era allora consuetudine, facevano una passeggiata prima di colazione per farsi ammirare.
Lo vidi vicino ad una siepe di lauri che, assorto nei suoi pensieri, tracciava dei cerchi in terra col suo bastone da passeggio; quando mi vide, quasi mi stesse aspettando, cominciammo a parlare, o meglio, il suo sguardo mi faceva parlare, lui ascoltava ed annuiva. Quando gli dissi che volevo diventare uno scrittore sorrise mestamente, pose i suoi occhi direttamente sulla mia anima e disse che lui semplicemente avrebbe costruito una cattedrale in cui sarebbero state esposte delle grandi opere d’arte: le vite di ognuno di noi, poi abbassò gli occhi e, toccandosi la tesa del cappello, si congedò.
Non lo rividi mai più, dopo poco tempo tornai al mio paesello, con un grande tesoro, quelle poche parole, che nel corso degli anni hanno avuto il grande valore di un aureo monito, poche parole di una persona di cui so semplicemente il nome: Marcel.
Naturalmente non diventai uno scrittore.

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