Pubblicato il 07/04/2008
Persia misteriosa. Nel manufatto persiano è racchiuso tutto il fascino dell'Oriente. Anita Amirrezvani svela qualche segreto di un'arte millenaria.
L'Iran e il suo popolo stanno diventando sempre più misteriosi per l'Occidente da quando gli Usa, circa trent'anni fa, hanno rotto le relazioni in seguito alla rivoluzione islamica di Khomeini. Quando parlo d'un atto ordinario, come fumare tabacco al gusto di mela in un bar di Isfahan, la gente mi guarda con gli occhi sbarrati e mi sommerge d'un mare di domande - dice Anita -. Il discorso finisce sempre sulla condizione delle donne. È comune pensare a loro come a un mazzo di viole appassite. Ma le donne iraniane rappresentano il 60 per cento della popolazione universitaria, che in anni recenti s'è molto organizzata per combattere per i propri diritti. Una di esse è ovviamente Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003, la prima donna musulmana ad avere tale onorificenza. Ma non è certo la sola. Parla Anita Amirrezvani, classe '61, nata a Teheran e cresciuta negli Usa. Ora s'è cimentata con la narrativa. E se l'è cavata bene con questo suo delizioso e intenso romanzo, Il sangue dei fiori (Mondadori). Ecco perché ho voluto narrare questa storia - continua Anita - per far conoscere qualcosa della mia terra, della mia gente, al di là della politica di questo momento. La cultura persiana è antica di millenni e durerà nel futuro. Ho voluto far entrare i lettori nell'anima di questa cultura: le tradizioni matrimoniali, la cucina, la vita delle donne, le finissime arti delle miniature e della lavorazione dei tappeti, la passione per narrare storie e recitare poesia. Per portarci nella sua terra dolorosamente e allegramente pulsante di vita, Anita ha scelto di collocare il suo romanzo nella Persia del diciassettesimo secolo, nella mozzafiato città di Isfahan, ai tempi del glorioso re Shah Abbas il Grande. Galeotta fu una cometa maligna. Che, come il saggio predisse, avrebbe avvolto con la sua malevole luce il villaggio in un fascio di guai. E nei guai finì una ragazza quattordicenne, in età da marito per l'uso dell'epoca. Viveva spensierata quando un brutto giorno, dopo la cometa, il suo adorato padre fu portato a casa, dal campo in cui lavorava, sulle spalle di alcuni uomini. Morì dopo poco. Per la ragazza e sua madre la vita si schiantò di colpo. Piombarono nell'assoluta miseria. S'avviarono allora verso Isfahan, la città delle moschee splendenti, ricoperte d'incredibili ceramiche turchesi, la città della cupola scintillante d'oro, del leggendario ponte a trentatrè archi, del sontuoso palazzo del re, della sua corte e del suo grandioso harem, e... d'una sterminata folla di poveracci. Finirono serve nella casa d'un lontano parente e delle sua dispotica moglie. Almeno avevano di che sfamarsi. Ospiti indesiderate, s'adattarono a sgobbare nei lavori più umili. La ragazza si dovette piegare alla volontà dei parenti, che l'obbligarono all'umiliazione d'un segreto sigheh - il matrimonio a tempo. Quando aggradava l'egocentrico signorotto, ella veniva richiesta come moglie per una notte, per soddisfare le volubili voglie del temporaneo marito.Ma questa ragazza possedeva un talento fuori dal comune. Sapeva creare e an- nodare tappeti con un'incredibile maestria. Pur da protagonista essa rimane anonima, come lo sono state le migliaia d'artisti antichi in ogni parte del mondo e migliaia di donne d'un tempo nella loro fragile condizione.Ma ella sfida il destino, anzi lo prende nelle proprie mani. E intestardendosi a lavorare anima e corpo a quest'arte raffinatissima, trova il bandolo della matassa per superare le avversità del destino. Dimostrando che l'influsso d'una cometa maligna non esiste. Esiste il mistero della vita. Spesso arduo da afferrare. Questo racconto ci fa sbirciare dentro i segreti più riposti di un'arte millenaria. Perché in un tappeto persiano è racchiuso il fascino dell'Oriente. Non è semplicemente un intreccio di nodi, di forme e di colori, ma un mosaico di trame, immergendosi nelle quali ci si può addentrare nella grandiosità dell'infinito. Fare un tappeto è come scrivere poesia. Come creare giardini. E di queste due forme artistiche i persiani sono alti maestri. La poesia gioca un ruolo essenziale nella cultura persiana, che ha dato i sommi Hafez e Sa'di, Firdusi e Rumi, Nezami e Khayyam. Insieme ai loro poemi la Persia si estasiava pure per i suoi dolcissimi giardini, detti paradisi. Perché la parola paradiso vuol appunto dire giardino, un luogo ombroso e profumato, riposo agognato dopo l'aspra nudità del deserto. Nelle loro fontane gorgheggiavano le parole del Corano: Dio ha promesso ai fedeli - uomini e donne - giardini irrigati da corsi d'acqua. Essi vi dimoreranno per l'eternità. Ha loro promesso dimore deliziose nei giardini dell'Eden. La giovane protagonista ci svela che un tappeto nasce dal tripudio dell'anima che sente sgorgare in sé la chiaroveggenza dell'ispirazione. Allora ci si butta a schizzare su carta le bozze dei motivi principali e di quelli secondari: intrecci ispirati ai fiori, alle piante, alle foglie e ai tralci; al motivo della mano distesa a cui l'Oriente attribuisce una forza magica contro gli spiriti maligni; ai motivi della palmetta, dell'ascetico loto e della succosa melagrana; del drago e della fenice; o di arabeschi che riempiono tutta la superficie come frammenti d'una composizione infinita. Scelti i colori s'andava poi al suq a scegliere la qualità della lana e della seta. Quindi nel cortile s'allestiva il telaio. E si cominciava a lavorare per ore ed ore, ad annodare. Faceva un male cane la schiena, dopo un po'. S'allestiva la trama, i fili che corrono orizzontalmente rispetto a quelli dell'ordito e insieme formano l'armatura del tappeto. Spesso si ripassava più volte in direzioni contrapposte, ma più di tre passaggi di trama dopo ogni fila di nodi diminuiscono la qualità del tappeto. L'artista ben lo sapeva. Si lavorava assieme, diversi lavoranti a un tappeto. Il maestro chiamava ad alta voce i colori. Poi la rasatura, che si completava dopo aver rimosso il tappeto dal telaio; un'operazione di grande responsabilità. Il tappeto mostrava allora tutta la sua lucentezza. Così furono creati, proprio durante il regno di Shah Abbas, quelle ammalianti opere d'arte che sono i tappeti Ardabil esposti come autentici gioielli nel Victoria and Albert Museum di Londra. Sono esemplari incredibilmente fini, con più d'un centinaio di nodi a centimetro quadrato: si dice che furono il frutto del lavoro di otto uomini per tre anni e mezzo. Sì, oggi il mondo, in particolar modo Israele, guarda con preoccupata perplessità alla politica iraniana. Anche con ragione. Ma la politica farà il suo tempo, la grande arte rimarrà. E la bellezza che ci trasmette, se non riesce a far diminuire l'apprensione per il presente, ci invita a guardare alle cose contingenti da angolazioni che affondano le radici nella grande tradizione. Non è detto che non si scoprano da lì prospettive inattese.
POI SI SCELGONO I COLORI
Il rosso - carminio, porpora, rubino - colore del sangue, dell'ardore fuoco e della passione, senza i cui bruciori ogni nostro gesto è cosa assai misera. Il sensuale arancione. Il giallo, che profuma di zafferano, colore delle cose semplici, dei ranuncoli e dei girasoli, e delle più pregiate, dell'oro; colore della preghiera, che fra gli atti umani è il più misterioso, forse il più prezioso. Il turchese, tagliente trasparenza, colore delle cose che riempiono lo spazio, che arrivano dovunque, per congiungersi, colore del mare che vuole straripare dall'orizzonte, della terra che straborda dai suoi confini. E l'indaco, colore delle polle d'acqua del Paradiso, colore delle cose rare, di quel finissimo moto dell'anima che è la contemplazione. E ancora il viola, colore della tenerezza, della tristezza sconfitta, colore che non ammette sotterfugi.
(Pubblicato su Città nuova n.2/2008)
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