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Jone.DOC o Il battesimo col vino

di Rosanna Varoli
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Pubblicato il 06/01/2014 21:27:13



Li battezzava tutti col vino. Sì, tutti. Non c'è mica da fare tante squese, come avrebbe detto lei.
La Jone li battezzava tutti col vino.
Col braccio sinistro reggeva il neonato mentre l'indice della mano destra lasciava cadere, nella piccola bocca spalancata dal pianto, poche gocce di lambrusco denso e viola come pesto di cavallo.
Appena il vino raggiungeva la gola, il pianto si placava. I piccoli restavano senza fiato. Poi la pelle del faccino si raggrinziva, si pieghettava in disperate e mute smorfie di disgusto per l'asprezza del prezioso contenuto delle turate.
Ma se il pianto aveva taciuto un attimo anche per l'illusione che quella sostanza liquida fosse il latte tanto agognato, subito dopo riprendeva forsennato e inconsolabile per l'affronto del primo sapore brusco della vita.
Ed era per questo che la Jone li battezzava così: che sapessero subito, appena aperti gli occhi, che non c'era tanto da illudersi, che col dolce, al mondo, ci stava sempre l'agro e che, anzi, di questo ce n'era ben di più.
E così era stato per tutti.
Ennio, l'Itola, l'Isotta, Gino, Marcello, Giuseppe, Angelo, la Bianca e la Maria.
Nove, scritti in disordine. Morti in disordine.
Ennio in braccio all'Itola, la più vecchia, mentre la Jone era ancora a letto di parto.
La Bianchina di difterite, a dieci anni. Nella fotografia della Villetta ha il vestito bianco della Cresima, quello passato dalle cugine più grandi.
Gino e Marcello a diciotto e vent'anni, insieme in montagna, durante una battaglia contro i tedeschi. Due medaglie al valore.
La Maria, l'Isotta e Angelo ce l'avevano cavata a diventare vecchi, e a morire di malattia.
L'Itola così così, se n'era andata poco oltre la mezza età, e da tempo si dava il fiato con la pompetta.
E' rimasto solo Giuseppe.
Lei, la Jone, sempre per via del poco dolce e del molto amaro, a poco più di cinquant'anni, carica di dispiaceri e di fatica, s'era buscata una polmonite che l'aveva uccisa. Angelo e Giuseppe, gli unici figli maschi che ancora le rimanevano, erano corsi in Svizzera per procurarsi due fiale di penicillina, ma era ormai troppo tardi.
I medici avevano potuto somministrargliene una soltanto, con l'altra avevano salvato una donna incinta.
Un altro battesimo della Jone. Un battesimo con la chimica, stavolta, ma anche quello nel segno dell'asprezza.
Sì, era aspra, la Jone, piccola e grassa, sfiancata e sformata dai parti. I grossi seni le rotolavano sul ventre gonfio. I capelli sempre raccolti, un ampio grembiule impadellato provvisto di due tasche capaci , tutta la sua giornata la passava all'osteria, che gestiva meglio d'un uomo.
E, del resto, il marito la faceva da padrone nel vero senso della parola: perennemente seduto a tavolino, non sapeva far altro che chiedere d'essere servito, apostrofando le figlie perchè gli portassero “un scudlén ad ròss” o “dò fèti e na mìca”. Per il resto, si dedicava ad interminabili partite a carte con gli avventori abituali, o organizzava burle memorabili ai danni dei più ingenui.
Quanto alla Jone, le toccava pure tenere a bada i clienti.
Non era infrequente che, per sedare qualche rissa o quietare i bollenti spiriti di qualche bullo avvinazzato, brandisse una bottiglia a mò di clava minacciandolo, con maschia decisione, di fracassargliela sul grugno... “va fora o t'spac al mus!”
Nei casi più gravi, accadeva che la calasse con violenza sullo spigolo del bancone e ne usasse il collo, trasformato in un'arma da taglio micidiale, per rendere più incisivo il suo intervento presso le masnade più riottose.
Fiera e schietta, coraggiosa e autoritaria, era capace di gesti di grande generosità. La sua osteria era il quartier generale di una piccola corte dei miracoli che contava costantemente sul suo aiuto.
Franzon il gobbo, tanto deforme e cagionevole di salute da essere inadatto a qualsiasi occupazione, eccezion fatta per quella di trasportare, comodamente seduti a cassetta sulla sua gobba, i figli più piccoli della Jone; la Pepèta, prostituta ormai in quiescenza, ma senza emolumenti, per raggiunti limiti d'età; la Nisé e Miné, coppia di anarchici mangiapreti, lui ortolano ambulante e lei fantesca, che, per indefettibile coerenza, avevano sdegnosamente rifuggito l'istituto matrimoniale, in favore di una convivenza che sarebbe durata tutta la vita, e Brèghi d'Ris, il ferrivecchi, illustre vittima di una delle burle più clamorose di Luigi, “al Bel Morètt”, il marito della nostra.
Vi dirò, en passant, com'era andata.
Brèghi d'Ris aveva un socio, di soprannome Bus Nigor, anche lui comprimario nel corteggio dell'ostessa. Dato che gli affari languivano, il primo sospettava che, a parte la scalogna che, come un'amante fedele, li accompagnava da una vita, anche il socio ci mangiasse dentro.
Un giorno, Luigi gli butta lì che Bus Nigor era riuscito ad accaparrarsi un carrarmato, e che lo aveva smontato e nascosto sotto il letto. Poi, dopo aver atteso che la notizia facesse fermentare i succhi viscerali del poveretto, aveva fatto spudoratamente battere la lingua sul dente dolente del già infumanatissimo e ingenuo rottamaio.
“Ma va là... tu fai lo stupido per non pagar dazio, non vorrai farmi credere che non sai niente di un affare così importante...”.
Fatto sta che Brèghi d'Ris si era precipitato a casa di Bus Nigor con l'oltraggiosa pretesa di perlustrarne palmo a palmo la magione, e ne era nata una lite rimasta famosa in città quasi quanto la mitica Buia di Bogolese.
L'unica a non divertirsi affatto, nemmeno in queste occasioni, era la Jone.
Infatti, oltre ai dispiaceri e ai fardelli fisici e psicologici che ogni giorno le recava in dono appena aperti gli occhi, e anche prima, nei sogni notturni, lei aveva un cruccio.
Un groppo che riguardava l'amore.
Quel marito bello e simpatico, alto e moro, con due baffetti da sgaggio, che troppe donne le avrebbero rubato volentieri.
E sapeva bene che, quando gli si presentava l'occasione, non la mandava a un altro.
E soffriva. Era gelosa. Gli faceva scenate picaresche e sanguinose.
Lui non se ne curava, alzava le spalle e ci scherzava su. La prendeva per i fondelli. Come quella volta del bordello.
Era una sera lustrata dalla pioggia primaverile, i borghi tirati a cencio e olio di gomito.
Luigi aveva indugiato più del solito davanti allo specchio, si era leccato e imbrillantinato con particolare cura.
Quando era già sull'uscio, la Jone l'aveva affrontato: “In dò vèt?”
- Fora -
“In dòva?”
- In dò n'ò voia -
“Dim in dò t'vè”
- A vag in dò n'ò voia -
“A ven an mì”
A quel punto, sul labbro del Bel Morètt aveva fatto la sua comparsa un lieve sorriso beffardo, appena inquinato da una sfumatura di tenerezza divertita...
- An t'pol miga -
“No, mi ven”
- A vag in t'un pòst in dò ti nt'pol miga gnir -
Ma su un minaccioso “at fag vedor mì”, pronunciato con un tono che non ammetteva repliche, la Jone era corsa in camera per uscirne quasi subito con uno spolverino scuro atto a celare il grembiulaccio, e, così arrangiata, aveva oltrepassato impettita la soglia, guadagnando le calcagna di Luigi.
Per strada, lui precedeva e lei seguiva.
Gli stava a tre passi di distanza, come se rispettasse l'ordine di seguitanza cui sono strettamente tenute le mogli musulmane, ma lei era a fronte alta e viso scoperto, e per nulla al mondo avrebbe fatto tacere la rabbia che le bolliva in corpo.
Non era mica disposta a dividerlo con altre, lei.
Gliela avrebbe fatto vedere, a quella slandra che di certo lo aspettava dietro qualche cantone, di che lana andava vestita! L'avrebbe capito subito, quella miù miù, chi delle due doveva battere in ritirata.
Perchè non si era mica ridotta col sangue grosso, che il dottore doveva riempirla di sanguisughe, e con le gambe come due carte geografiche a forza di figli, per poi vedere che la prima cagnetta in calore che passava le ranciva l'osso. Eh no!
E camminavano.
Lui, senza voltarsi, di tanto in tanto lasciava cadere con noncuranza un – guerda ca vag in t'un sit in dò ti nt'pol miga gnir -, al che lei ribatteva, a muso duro e alzando pericolosamente la voce, “at si me marì e mì ven con tì”.
E continuava imperterrita nel suo inseguimento, con il respiro che, senz'altro più per il montare della furia che per la fatica di tenere il passo, spingeva su e giù, con sempre maggiore energia e rapidità, quei suoi due enormi tettoni, che era sempre stato un problema ingabbiarli. Meno male che aveva lo spolverino, sennò quella là avrebbe visto subito che era ridotta peggio di una cavagna sfondata. E pensare che non era mica vecchia. Ma il Bel Morètt l'aveva sposato che non aveva ancora compiuto sedici anni, e subito giù una siepe di figli, e lavorare, lavorare e basta.
Bella non l'era mai stata, per dire la verità. Tante volte anche lei se l'era detto... dove gli sarò piaciuta, poi...
Piccola, ve l'ho già detto, cicciotta, più larga che alta, come quelle stufette di ghisa coi cerchi che sembravano niente, e invece scaldavano tanto che una ti bastava per tutta la casa.
Anche la faccia non era granché, sempre seria, mutriosa, le palpebre un po' gonfie, le labbra sottili, e quegli occhi che foravano, che arrivavano dritti al dunque, sempre tesi.
Neri, come i capelli. O meglio, di un castano scurissimo ma molto caldo, e del resto tutto, nella Jone, era caldo, caldo e brusco.
Non era, il suo, il calore gioviale e accogliente dei buoni come il pane e dei belli come il sole, come si dice da noi: era il calore di una generosità e capacità d'amare, per così dire, drammatica, il fuoco inquietante e tormentoso che attingeva ad una sensibilità acutissima e segreta, sempre vigile, assorbente, e perciò sempre piena, gonfia, pletorica, spesso incline a deflagrazioni apocalittiche.
E nascondeva il tutto dietro ad una bella faccia da due indritti, una maschera che, essendo continuamente a contatto con la gente, aveva dovuto imparare ad indossare. Ma lo stesso, quando proprio era vicino alla piena, qualche avvisaglia della sanguinosa tracimazione imminente, la dava, eccome! Non era traditora come il suo torrente, quello che le scorreva a due passi da casa e dall'osteria, che invece non avvertiva proprio nessuno, e ti buttava lì una piena a bruciapelo che mai te l'aspettavi...
Il torrente l'avevano traversato anche quella sera, lei e il Bel Morètt, su uno dei ponti grigi che portavano nella città nobile, fuori dai loro borghi plebei. E avevano continuato a camminare ancora, con la Jone sempre sulle peste di un Luigi assolutamente imperturbabile.
Lei guardava le sue spalle dritte, la giacca che gli cadeva bene sui fianchi asciutti, la nuca ancora corvina folta di capelli.
Lui non era cambiato negli anni, anzi, che non fosse diventato, con la maturità, ancora più piacente.
Ah sì, da qualunque angolatura lo guardasse, vedeva bene che il suo Luigi era un boccone prelibato per tutti i palati, anche per i più delicati e schizzinosi, merce ottima per compratrici di tutte le età, anche per le più giovani, sottili e fresche. Tutto il contrario di lei.
Non aveva speranza, o meglio, le rimaneva solo quella dei malvestiti: che non facesse un inverno freddo...
Poco prima della meta, lui di nuovo l'aveva messa in guardia sul fatto che quello dove stavano per arrivare non era luogo in cui le donne potessero entrare, ma lei aveva tenuto duro, ribadendo che non le interessava proprio niente, e che il prete, quando li aveva sposati, aveva detto che la moglie doveva seguire il marito nella buona come nella cattiva sorte. Punto.
E, in quella, erano arrivati.
Luigi aveva bussato ad una porta, erano dalle parti di Borgo Tasso.
Pochi secondi dopo, al posto della tavola di legno scuro lavorato che si era tolta con gentilezza di mezzo girando diligentemente sui cardini, la Jone aveva visto apparire, dalla zona d'ombra dei tre passi indietro dove ancora stava, una pittura, sì, proprio un grande quadro, dentro una spessa cornice rettangolare di luce dorata.
Una sfavillante pala d'altare, e c'era una Madonna in quella pittura, bella, bionda, alta, con le labbra rosse rosse, vestita da capo a piedi di lilla lucente.
Aveva scoperte soltanto le spalle e il décolleté, ma li circondava una nuvola viola, spumosa, appena più scura dell'abito.
Le faceva da sfondo il verde cupo d'un grosso cespo d'aspidistre, alto su un trespolo di legno chiaro lavorato ad amorini, e una carta da parati a larghe strisce bordò, interrotte da sottili sentieri sinuosi color dell'avorio.
La carta era setosa, mandava un lucore caldo, e, nei punti in cui i nastri serpeggianti rientravano, si vedevano, perfettamente disegnati, uccelli diversi per le forme, le dimensioni e i colori del piumaggio. Abbondavano gli esemplari esotici: le paradisee rosse, gialle, verdi e nere, i turdidi dalle spettacolari livree azzurre, gli uccelli lira dalle leggiadre code. Roba che la Jone non s'era neanche mai sognata, e adesso ci lasciava gli occhi.
E quel quadro profumava, proprio come un certo calendarietto, regalo del barbiere, che Luigi teneva nel portafoglio, ed emetteva pure suoni flautati.
La Madonna, infatti, mentre parlava col Bel Morètt, rideva gorgheggiando, e gli tendeva confidenzialmente le mani.
La sua celestiale dolcezza era però improvvisamente svanita quando lui, volgendosi, aveva detto: - Vieni, vieni, Jone...-, allora, la si era vista rabbuiarsi ed afferrare con mano rapace il battente della porta.
Mossa azzeccata, perchè la nostra, rientrata ben presto in possesso del suo vigoroso senso della realtà, dopo un momentaneo annebbiamento dovuto alla visione della Madonna di Fontanellato nel suo manto abbagliante, dentro un'uccelliera dov'era tutto un frullo d'ali colorate e di piume iridescenti, già stava per piombarle addosso come una furia, al grido, assai poco mistico, di “at mas, bruta putana!”, mostrando che né il sacro orlo del manto di Maria, né, tantomeno, la soglia di un bordello, potevano fermarla.
A proposito, la Jone parlava sempre il dialetto sguaiato e colorito dei borghi, ma, all'occorenza, era anche in grado di prodursi in un italiano che aveva la pretesa di essere estremamente rispettoso delle formule della cortesia e dell'urbanità, e perfino forbito.
Per via del suo senso degli affari veramente spiccato, che le aveva permesso di costruirsi, in poco tempo, un piccolo impero commerciale e immobiliare – era padrona di due trattorie, di alcuni bar, aveva acquistato una casa per ogni figlio, e spesso rilevava al Monte di Pietà gioielli e intere doti, di cui facevano parte lini preziosi e stoffe di Fiandra dai ricami raffinati – aveva talvolta contatti con i responsabili delle associazioni di commercio e delle banche cittadine. Era in quei casi che sfoderava il suo italiano, di cui, nonostante il suo sentirsi completamente del popolo, ed avere consapevolmente i modi del popolo, era sotto sotto orgogliosa, perchè anche quello era la testimonianza di un riscatto, di una rivincita su un destino di miseria e di fatica che sembrava inevitabile, com'è inevitabile che il vino diventi aceto se lo lasci alla mercè dell'aria.
Certamente, non sempre certe belle parole di cui si riempiva la bocca perchè le sembravano adatte e importanti, perchè le pareva che potessero fare impressione – e in questo era come certi uccelli che, oltre a gonfiare le piume per sembrare più grandi e pericolosi, aggiungono al canto caratteristico schiocchi di becco, insistenti e ossessivi battiti contro legni o pietre per indurre il concorrente o l'avversario a crederli ben più forti e aggressivi di quanto, in realtà, non siano – ecco, non sempre quelle sue espressioni cadevano a puntino.
Poiché la sua frequentazione col vocabolario era pressochè nulla, le accadeva di richiedere che un pagamento facesse la truculenta fine di venire “dilaniato”, o di discutere, avendone evidentemente già stabilito l'andamento, del “basso” di sconto.
In ogni modo, gli affari marciavano, e negli ultimi anni, forse sopito appena il dolore per la morte dei figli, talvolta zittito dai gasolini teneri o dalle ruscellanti risate dei nipotini, la Jone aveva imparato a concedersi qualche svago.
La sua severità aveva un poco ceduto. La sua asprezza era ora quasi abboccata, addolcita, come quei bicchieri di lambrusco cui si aggiungeva lo zucchero per concederne un goccio ai bambini, o che si raccomandava alle puerpere perchè “al t'fa fer dal lat”, aggiungendo alla prescrizione di pocciarci dentro una bella micca di pane.
Su Luigi era tranquilla. Era vecchio, ormai, e non faceva più gola a nessuno. Da quando i fascisti gli avevano spaccato la testa a forza di legnate, aveva perso un bel po' del suo morbino. Era rimasto un po' intontito, lento e pigro.
Il divertimento d'elezione della Nostra, in quei tempi, era portare nuore e nipoti fuori porta, “a magnèr dò foi d'nadòr in tratoria”, intendendo per trattoria una di quelle dei suoi colleghi, osti di campagna, dove lei poteva finalmente sedersi coi piedi sotto il tavolo, farsi servire e chiacchierare con le donne giovani e nuove della famiglia.
In certi giorni di bel tempo, quando il marino, dopo essere arrivato a monte ed essersi infilato smanioso nel letto del torrente come un amante clandestino, da tempo a stecchetto, in quello della ganza, giungeva ad addolcire l'aria dei borghi, la Jone metteva in atto il suo piano, a lungo segretamente covato.
Una primadonna della scena non avrebbe preparato una sua entrée con la stessa cura e la stessa attenzione che la Jone poneva nell'ammannire l'occorrente per il rito.
L'imperativo categorico era che nessuno, ovviamente gli interessati per primi, sapesse nulla, che non potesse nutrire neppure un barlume di sospetto. Se la cosa fosse rimasta segreta, l'effetto sorpresa non sarebbe di certo mancato, e lei avrebbe recitato la sua scena lasciandoli a bocca aperta, come le grandi soubrettes delle compagnie d'avanspettacolo, che andavano a mangiare nella sua osteria, e apparivano come visioni mistiche sul palcoscenico del Ducale, splendenti nei loro costumi rutilanti e succinti, circondate da agili boys, belli come il suo Luigi da giovane.
Anche per lei doveva esserci l'éclat, il botto, l'effetto fuochi d'artificio... lo stupore per il fulmine nero di una rondine scoccata in cielo quando nemmeno l'aria e le nuvole se l'aspettano.
Nel giorno prescelto, la Jone congedava come sempre le nuore che l'avevano aiutata in cucina e ai tavoli, tirava giù la saracinesca, si sedeva a contare l'incasso, che stava tutto stipato nei suoi tasconi - “a guerd s'iò fat giornèda...”-, tutto come sempre, esattamente come ogni giorno.
Di diverso c'era che, terminata la sequela delle normali incombenze, mandava Franzòn a comandare una carrozza. E lo faceva solo quando era certa di essere rimasta completamente sola, quando tutto era predisposto in modo che i clienti della sera potessero trovare tutto pronto, e dopo aver calcolato che il tempo a disposizione fosse più che sufficiente per permettere a lei, e alla bella compagnia, di godersi in santa pace la sortita.
Così, in carrozza, del tutto inaspettata, ancora bisunta e puzzolente di cucina, e senza essersi ravviata nemmeno un capello – le autentiche eroine della scena brillano macerate e in cenci – arrivava sotto le finestre delle nuore, e si metteva a chiamarle a gran voce: “gnì sò, andèma fora porta a magnèr quel...”
Le nuore si schermivano, tentavano di opporre una timida resistenza, una azzardava:”... Jone, lo sapete, sono appena arrivata, sono ancora tutta in disordine...”
Ma lei non voleva sentir ragioni, e recitava fino in fondo la sua commedia, continuando a sbraitare con quanto fiato aveva in gola, i pugni decisi piantati sui fianchi larghi da ottima fattrice.
“ Stà miga fèr la siòchèta, na volta c'at pol fèr la siòra, a i'ò spiché anca la caròsa...”
A quel punto, il vicinato si affacciava, le nuore si vergognavano un po' e finivano per cedere.
Una volta in campagna, a tavola, la Jone ordinava generosamente per tutti: buon salume, arrosti, torta fritta e rosso di turata.
Lo voleva servito nelle scodelle di coccio bianco, così poteva controllare “s'al fèva la colon'na”, cioè a dire se lasciava una traccia viola alta e ampia, come scia di lumaca, lungo tutta la parete curva della ciotola, perchè questo dimostrava che era grasso e denso al punto giusto, e soprattutto non annacquato.
Poi, dalla sua scranna di pavera a capotavola, fissava lo sguardo inquieto davanti a sé, osservando pensierosa quelle superstiti schegge di una grande famiglia.
Quante ne aveva passate... Ma qualcosa, qualcuno era rimasto.
Allora, come riprendendo il filo del racconto, cui in realtà non aveva mai dato inizio, forse nemmeno con se stessa, cominciava a rievocare... “ Al sèt, Tina, che il tuo Giuseppe l'ho mandato a balia dalla Deborén, e non me l'ha mai perdonata? Ci andava dentro una carretta da muratore, lo spingeva l'Isotta fino ai Baccanelli... il fatto è che il figlio della Deborén ha ucciso uno, è ancora dentro... Giuseppe mi ha sempre detto – m'hai fatto bere il latte di un assassino -... e io ci rispondevo – sì, ma prima ti ho battezzato col vino -...”


Della Jone è rimasto poco. A parte Giuseppe, uno sparuto gruppetto di nipoti che non possono ricordarla o che non l'hanno mai conosciuta. Potrebbero parlare di lei le vecchie mappe catastali, qualche foglio del giornale locale, archiviato sotto le antiche volte dell'Emeroteca Comunale, forse il caveau della più imprtante banca cittadina. Si è sempre favoleggiato di una cassetta di sicurezza mai ritirata...
A me è rimasto il suo cavatappi.



Glossarietto

“un scudlén ad ròss” : una scodella di vino rosso

“dò fèti e na mìca” : due fette di salame e una micca di pane

“va fora o t'spac al mus!” : vai fuori di qui o ti spacco il muso!

“In dò vèt?” : dove vai?
- Fora - : fuori
“In dòva?” : dove?
- In dò n'ò voia - : dove voglio
“Dim in dò t'vè” : dimmi dove vai
- A vag in dò n'ò voia - : vado dove voglio
“A ven an mì” : vengo anch'io
- An t'pol miga - : non puoi
“No, mi ven” : no, io vengo
-A vag in t'un pòst in dò ti nt'pol miga gnir - : vado in un posto dove tu non puoi venire
- guerda ca vag in t'un sit in dò ti nt'pol miga gnir : guarda che vado in un posto dove tu non puoi venire
“at si me marì e mì ven con tì”: sei mio marito e io vengo con te

“at mas, bruta putana!” : t'ammazzo, brutta puttana!

“al t'fa fer dal lat” : ti fa fare del latte

“a magnèr dò foi d'nadòr in tratoria” : a mangiare due foglie di... anitra in trattoria

“a guerd s'iò fat giornèda...” : guardo se ho fatto giornata

“gnì sò, andèma fora porta a magnèr quel...” : scendete, andiamo fuori porta a mangiare qualcosa

“Stà miga fèr la siòchèta, na volta c'at pol fèr la siòra, a i'ò spiché anca la caròsa...” : non fare la sciocchina, una volta che puoi fare la signora, ho spiccato anche la carrozza

“s'al fèva la colon'na” : se lasciava una traccia a forma di colonna

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