Pubblicato il 14/05/2011 21:52:32
Roma. Siamak Pourzand aveva già tentato d’impiccarsi due volte, la seconda persino con i pantaloni. Alcuni giorni fa, a ottant’anni, è riuscito a suicidarsi gettandosi dal sesto piano della sua casa a Teheran, dove viveva agli arresti. E’ il colpo più duro nella recente storia della dissidenza iraniana. Le imputazioni contro il decano del giornalismo iraniano, che era solito chiamare gli ayatollah “Savonarola islamici”, si erano srotolate come un catalogo ben rodato: “Propagandista antislamico”, “spia”, “emigrato”, “collaborazionista”, “servo”, “adultero” e “consumatore di vino”. Nel mercuriale del regime è stata copiata dalla Repubblica democratica tedesca la spiegazione per i suicidi politici: “Depressione”. I mullah hanno detto così anche quando il blogger Omidreza Mirsayafi si è ucciso nel carcere di Evin. Il “Gandhi di Teheran”, come era chiamato Pourzand, non ha retto a tre decenni di torture. C’è chi lo ha paragonato a Jan Palach, lo studente che si diede fuoco contro l’occupazione sovietica di Praga. O a Szmuel Zygielbojm, l’ebreo polacco che nel 1943, in segno di protesta contro l’indifferenza degli Alleati sull’Olocausto, si uccise con il gas a Londra. Altri a Nelson Mandela e a Vaclav Havel. Eminente intellettuale prima della presa di potere islamista del 1979, Pourzand era noto in Europa per via della collaborazione alla prestigiosa rivista francese Cahiers du Cinéma. A suo favore nel 2006 era intervenuto anche l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Quando due anni fa i gendarmi iraniani hanno ucciso Neda Soltan, la ragazza simbolo delle proteste, Pourzand disse: “Hanno assassinato mia figlia”. La famiglia aveva chiesto che il dissidente venisse sepolto nel cimitero di Teheran riservato agli artisti, il Behesht-e Zahra. Il regime lo ha negato, perché “Pourzand ha vissuto ed è morto in maniera antislamica”. Nel 2001 fu sequestrato e torturato, nonostante avesse settant’anni. Fu costretto a confessare in tv. Quando un funzionario gli fece una domanda non prevista, Pourzand si rivolse al suo avvocato d’ufficio: “Questa non è nell’elenco, che devo dire?”. “Amava l’Iran e si è ucciso perché provava disgusto per un regime disumano e antiraniano”, ha dichiarato la famiglia. Dagli Stati Uniti gli ha scritto una lettera una delle figlie, Azadeh: “Ho sentito dire che per un momento ti sei aggrappato al bordo del balcone prima di lasciarti andare. E’ perché ti stavi pentendo di essere saltato giù? O perché per un secondo hai creduto di sentirmi bussare alla porta? Non te ne faccio una colpa, neanche per un momento. Avevi tutto il diritto di cercare la libertà in questo modo. Sappi che ora il pensiero della tua testa infranta su quel terreno, il tuo sorriso meraviglioso e tutte le cose che mi hai sempre detto mi danno forza e, al tempo stesso, mi fanno morire ogni secondo di una brutta morte”.
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