[ Proposto anche nell'antologia Conversazioni con Proust, LaRecherche.it, 2011, eBook ]
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Il principio
Affascina e coinvolge il ‘misterioso’ e commovente progetto del protagonista dell’opera di Marcel Proust espresso nelle ultime righe de La recherche, prima della parola «FIN» che lo scrittore scrisse nel 1922, dandone emozionata notizia a Céleste Albaret, poco prima di morire. Voglio qui rileggerle, tradotte da Giovanni Raboni, per comprenderle meglio nella loro sublime ambiguità. Ciò propriamente anche in relazione alla assai discussa e generale e talvolta manieristica con-fusione fra autore e narratore-protagonista: argomento per Proust acutamente trattato (senza che se ne cancelli del tutto l’ambiguità medesima) dallo stesso Raboni nella prefazione al biografico Meridiano-Mondadori, Album Proust (1987):
«… Se mi fosse stata lasciata, quella forza, per il tempo sufficiente a compiere la mia opera, non avrei dunque mancato di descrivervi innanzitutto gli uomini, a costo di farli sembrare mostruosi, come esseri che occupano un posto così considerevole accanto a quello così angusto che è riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura poiché toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni, periodi vissuti da loro a tanta distanza e fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo».
I corsivi, inutile dirlo, sono miei. Ma già Marcel (per sé o per il protagonista?) aveva annotato:
«Mi avrebbe detto, Françoise, guardando i miei quaderni smangiati come il legno dove è entrato il tarlo: “È tutto rovinato…”»… «Come sarebbe felice, pensavo, chi potesse scrivere un tale libro, che impresa davanti a lui!…»… «Era ben altro che dovevo scrivere, io: qualcosa di più lungo, e per più di una persona. Lungo da scrivere. Di giorno al massimo, avrei potuto tentare di dormire. Se avessi lavorato sarebbe stato solo di notte…».
Allora come possiamo chiamare quella infinita meditazione de La recherche, se è scritta ma è ancora virtualmente tutta da scrivere? Da parte di chi? E non sarà mai scritta come avrebbe dovuto essere scritta? Possiamo definirla semplicemente cronaca, diario di una vita, di un ossessivo perpetuo pensiero ancora da rivelare a se stesso e oltre se stesso? Ma non un romanzo, seppur in fieri, velatamente suggerito da alcuni disordinati quaderni smangiati …? Proust aveva detto già in Jean Santeuil: «… écrire un roman ou en vivre un, n’est pas du tout la même chose, quoi qu’un dise…». Egli l’aveva vissuto, ma non interamente scritto? L’aveva vissuto come protagonista ma non come autore? Ma se diciamo Narratore, protagonista e autore si riprendono il loro conturbante gemellaggio. In verità o in finzione?
Harold Bloom in A map of misreading cita Wallace Stevens: «Questa è forma ingollante informità, / Pelle guizzante a desiate disparizioni / È il serpente corpo guizzante fuor della pelle…».
La Recherche che noi leggiamo è dunque una forma che ‘ingolla’ una in-formità. È una ‘pelle guizzante a desiate disparizioni’ e ci pone, per suggerimento di un ‘impotente’ protagonista, in attesa di un’imprevedibile corpo - inconoscibile poiché non mai formato - che dovrà uscire ‘guizzante fuor della pelle’. La pelle del vivere, la vita, la sua metamorfosi e il suo indicibile desiderio. Un desiderio di memoria che ci impone di metterci al lavoro, seriamente, per cogliere la verità sfuggente di un universo in formazione, ma solamente per ora (dopo il FIN!) al principio. Il tempo è ritrovato, tuttavia solamente nella sua perpetua informità. Marcel Proust, pur con il suo rigore di scrittura tutta giocata, potremmo dire maliziosamente e magistralmente sull’ambivalenza, ci lascia comunque un nulla prolifico tutto da riempire. Il tempo ritrovato è la proposta di un improbabile ossessivo futuro aprosdokéton. Il romanzo che dovrà essere scritto. Così che la recherche è sempre in atto e l’ambiguità della forma della poesia è la sua memoria, la sua speranza di rivelazione, la sua tensione, eppure il suo impossibile punto d’arrivo.
Ecco che al principio della fine Proust, o il suo alter ego, invita al colloquio, personaggio terzo, lo sconosciuto fantasma del Lettore. Quel romanzo apparentemente non scritto che doveva essere scritto viene lasciato alla responsabilità del lettore, per il quale viene messo a disposizione l’imponente, evanescente, eppure incancellabile materiale della memoria:
«… il tintinnio saltellante, ferruginoso, instancabile, stridulo e fresco della campanella, annuncio che il signor Swann se n’era andato… Allora pensando a tutti gli avvenimenti che si collocavano per forza di cose fra l’istante in cui li avevo sentiti e il ricevimento Guermantes, mi fece spavento pensare che fosse proprio quella campanella a tintinnare ancora dentro di me, senza che io potessi cambiare nulla alle note stridule del suo sonaglio, visto che non ricordando più bene come si spegnessero, per riapprenderlo, per ascoltarlo bene, dovetti sforzarmi di non sentire più il suono delle parole che le maschere si scambiavano attorno a me…».
Fra quell’istante, quel suono dimenticato e ancor desiderato, e le parole rese silenti dalla ossessione della memoria, si pone lo spazio vuoto del tempo trascorso, alla ricerca di un Tempo universale, biologico e cosmologico. Il tempo che viene dopo la FINE e che infine riguarda ormai solamente il lettore.
Il lettore si colloca oltre il limite della memoria sull’abîme del Nulla. E ormai la campanella suona solamente per lui. Per sempre, nello spazio prolungato a dismisura. Perciò oltre ogni spazio e ogni tempo al di là del deposito dei tanti giorni vissuti a tanta distanza. È in quel nulla che il lettore scopre la poesia di un tempo ritrovato nella dimenticanza che si è fatta memoria di una storia cancellata eppur disponibile, nella ricchezza dei materiali ereditati, a rifarsi vita nella scrittura della nostra mente. Di una assenza che si farà dismisura dell’essere, nella sua primigenia purezza.
Nulla è tutto ciò che abbiamo fatto, e letto, e udito, e visto, nulla è ciò che faremo e potremo fare entro la storia caduca del racconto raccontato nella sua virtuale verità. Ci apparirà chiaro che nel nulla la recherche instancabile manipolerà sì, ancora, tutto ciò che l’autore ci ha astutamente e coscientemente lasciato, tuttavia solamente come poiéin. Poesia di verità inscrivibile, oltre ogni utilitarismo anche nostalgico di un tempo perduto. Oltre ogni falsa evidenza. Per una vicenda in verità invissuta di maschere. Poesia come vita di verità inconoscibile ma pur sempre presente alla nostra ricerca:
«… notre vie, la vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seul vie réelmente vécue…».
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La Recherche è il racconto scritto (perciò si danno un autore e un lettore) di un flusso straripante di memoria che con difficoltà trova, nella narrazione, la sua forma nel tempo, per aprirsi comunque ad un inarrestabile ritrovamento postumo. Per analogia un’esperienza relativamente recente è comprovata da un’opera cinematografica famosa: Otto e mezzo di Federico Fellini. In cui un regista (che potrebbe essere il vero regista – l’Io duplice di cui dice lo stesso Proust), ossessionato da personali prorompenti memorie, non riesce a dar loro l’apparenza concreta di un film. Film che pur tuttavia si realizza e si offre allo spettatore con una ambigua proposta di collaborazione mentale in relazione alla sua prosecuzione, forse senza fine.
Maggio 2011