Pubblicato il 15/09/2009 18:21:00
Stefano, il protagonista di questo breve romanzo, appare affetto da quello che venne definito, con “montaliana” reminiscenza, il male di vivere, non riesce più ad interessarsi realmente a nulla. Anche la routine familiare con la moglie ed il figlio che lo amano, amatissimi, non lo rende felice, ha nell’animo una sorta di ombra grigia, dovuta anche all’insuccesso dei suoi manoscritti, inviati invano a case editrici e produttori cinematografici. Decide così di uscire dal mondo, e vivere per un periodo, questa è la sua intenzione, in quello che l’autore del libro, descrive come una sorta di mondo parallelo, Stefano diventa un cosiddetto clochard, o barbone. Inizia così per lui una nuova vita che al ritmo frenetico della sicurezza quotidiana del lavoro e una casa, sostituisce una ovattata esistenza fatta di interminabili soste su una panchina, di notti quasi sempre all’aperto e pasti donati, a lui ed ai suoi compagni di avventure, dalla carità di varie associazioni. Il mondo parallelo in cui queste persone vivono è raccontato con poetica efficacia dallo Scalisi, senza mai usare le parole che la società “per bene” usa, quali barbone o senza-tetto, ma termini più umani quali famiglia o amici. Nel libro sembra quasi che questo mondo silenzioso ed in continuo movimento che è la nuova famiglia di Stefano sia racchiuso in una bolla d’aria fluttuante in città, che sfiora e a volta tange il mondo delle persone comuni, ma praticamente senza mai entrarvi in contatto e sicuramente senza mai offrire punti di compenetrazione tra i due mondi. Ma ciò non è dettato da rancori o cattiveria, è semplicemente perché è nella natura di questo piccolo pianeta dai confini fluttuanti il non posarsi mai, restare sempre a mezz’aria o vagare fra la gente visibile ma non visto. Le rarefatte atmosfere della narrazione ricordano a tratti certi bianco e nero di wenderiana memoria, soprattutto del periodo più angelico, facendo quasi trasfigurare Stefano e il suo amico Carlo in angeli un po’ emaciati e disincantati, che si posano su una panchina, guardano, e spesso vedono attraverso la società e le persone, spesso scolorano sullo sfondo grigio della città, altre volte si fanno assolutamente tangibili mettendosi a cenare in un affollato ristorante e rubacchiando anche qualche cuore qua e là. A fare da contrappunto a questi due angeli, i piccioni, alati ed indifferenti come loro al mondo, in cerca di qualcosa con cui riempirsi lo stomaco e di un comodo riparo, ma sempre in movimento, nessuno li può rinchiudere e, soprattutto, nessuno lo vuole fare, liberi di una libertà cercata ma quasi appiccicata addosso, così come quella che si tengono stretti i protagonisti umani. Il romanzo fa posare il nostro sguardo su una fetta di società silente, quasi mai al centro della cronaca, di cui nessuno parla, o lo fa giusto per le Feste, ma che è assai presente e radicata nelle nostre città, accanto alle nostre vite convenzionali, col suo approccio non ovvio all’esistenza, ma altrettanto reale. Queste vite parallele sono descritte con accorata passione, senza mai cadere nel banale, anche nella scelta degli aggettivi o dei nomi per definire tali vite. Forse perché, e qui sta la magia dello Scalisi, esse non hanno bisogno di nomi né di definizioni, così come il mondo “stabile” non ha definizioni particolari, allo stesso modo questo microcosmo fluttuante non necessita di definizioni, servono solo i nomi, di ciascuno. Una bella botta a tante ipocrisie che celano profondo razzismo, tra le righe troviamo proprio il monito a ricordare il fatto che non vi sono diversi e normali, ma solo esseri umani, diversi sono i piccioni, che guardano e ascoltano attoniti gli umani, lottare per affermare qualcosa che è solo un disvalore. Lo Scalisi confeziona il suo bel lavoro in modo semplice, intercalando la narrazione della vita di Stefano con brevi accenni su chi è rimasto a casa ad aspettarlo, ma tali accenni si fanno via via più rarefatti come si vanno affievolendo nel cuore del protagonista. La narrazione è singolarmente composta con largo uso di dialoghi attraverso i quali l’autore riesce a costruire le scene, dedica poco spazio alle parti meramente descrittive, lasciando alle parole dei protagonisti medesimi il compito di descrivere luoghi e sensazioni, dando al lettore la percezione di essere presente e vivere le vicende coi protagonisti stessi. Purtroppo talvolta le frasi hanno un sapore marcatamente dialettale, che lascia al lettore un gusto un po’ strano, quasi una venticello di trasandatezza; alcuni di questi tratti parrebbero licenze poetiche, altri sembrano un po’ ingenuità, anche fuori posto, a mio avviso, una maggiore cura nell’uso di certe espressioni potrebbe giovare senz’altro alle buone capacità dell’autore. Per ovvi motivi non dirò nulla del finale, se non che vi si giunge delicatamente come sulle tenui note di un acquarello.
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