Pubblicato il 18/01/2008
Marco Amendolara è nato a Salerno, è laureato in filosofia e in lettere moderne, ha esordito giovanissimo. E' un autore che conosco da vari anni e che da subito ha destato il mio interesse per la sua sincera passione per la poesia.
Nelle ultime pagine del libro si legge una breve intervista di Olga Chieffi all'Autore, il quale, alla domanda "Quali sono gli obiettivi dello scrivere per te?", risponde: "Per me la scrittura dovrebbe cambiare le cose e ricordare, ricordare sempre. La rapidità della vita non consente a nessuno di scherzare con la memoria. Quando si scrive, si cerca molte volte di interrogare il passato e il futuro". Questa visione della scrittura è infatti quello che traspare dalla lettura della sua variegata silloge poetica, Amendolara ha sempre davanti a se, nel mare del fluire quotidiano, mosso talvolta dal soffio del dolore, il faro della memoria, che non è solo ricordo di eventi passati ma piuttosto una speciale lente attraverso la quale vedere nuove, e più profondamente, le "cose" dell'oggi, tra le quali troviamo gli affetti, l'amicizia, l'amore; tre poli, questi, in relazione profonda e osmotica. Si percepisce, nello scorrere i testi, il tempo che è andato, non come una sequenza di fatti ma una totalità di eventi avvenuti che pare ancora adesso avvengano; il poeta scrive facendo trasudare dalle righe dei suoi versi la sua "serietà", difficilmente egli si concede il gioco nella poesia, o meglio la poesia è cosa seria, è memoria e, come già detto, la rapidità della vita non consente di scherzare con la memoria.
La scrittura di Amendolara riesce a cambiare le cose? Dal mio punto di vista oserei dire che le cose reali "prese" nel suo campo visivo, vengono cambiate nel loro essere stesso, trasfigurate diventano mezzi attraverso le quali egli penetra il reale stesso e, in esso, la sua passione amorosa, per scivolare così in una relazione profonda con il soggetto del proprio amore: "Invidio quel bicchiere / ... / perché incontrerà le tue / labbra, e vorrei essere anche / il vino che tu diventi, / ti beve ed è bevuto".
In queste pagine si legge un mondo che trascorre e lascia dietro di sé tutto ciò che è stato, la paura di perderlo per sempre, la memoria che se ne va definitivamente risucchiata nella morte: "E' la paura della morte / che mi rende pazzo, / la paura di essere luogo buio e putrefatto, / non provare più affetto, / non poter pronunziare il tuo nome, / non avere neanche un ricordo, / non sognarti / e fare di me, da sogno, realtà".
Dal punto di vista del versificare, il testo ha una caratteristica snellezza e musicalità senza il ricorso alla rima o ad altri astrusi meccanismi poetici. I suoi versi sono asciutti, brevi, mai sovrabbondanti, chiari. Le parole evocano ciò che è situato oltre il loro significato formale, agganciano qualcosa dal profondo e lo elevano alla luce della mente.
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