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Hotel Borg

Romanzo

Nicola Lecca
Mondadori

Recensione di Anna Guzzi
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Pubblicato il 25/09/2009 19:17:00

Per questo giovane scrittore di talento l’arte ha il color ghiaccio dei paesi del Nord, dell’Islanda in particolare. Il fascino gratuito della musica classica, suonata o amata dai suoi personaggi, sorvola un mondo dominato da traffici rumorosi e degrado di massa, cieco ormai a ogni residuo di bellezza. La sorgente dell’arte pura si oppone, in Hotel Borg, ai nonluoghi di Marc Augé ai quali, peraltro, è dedicata una recente raccolta poetica di Roberto Mosi, pubblicata sul sito de La Recherche. È la vitalità fiabesca della provincia nordica, sperduta, a emergere, insieme, come spazio artistico e infanzia non ancora deturpata dalla civiltà moderna:
(…)
A Göteborg la vita di Oscar trascorreva piano e piano lo lambiva, di giorno in giorno, sempre nello stesso modo. È così Göteborg: una città lenta in cui le luci dei lampioni, la notte, illuminano soltanto cose belle. Oscar la amava molto soprattutto d’estate, quando, per qualche giorno, si recava in visita da un amico. La sua casa affacciata sull’arcipelago era tutta in legno, e bianca, ma il tetto, color nocciola, portava evidenti i segni della neve passata: macchie rotonde, come di bolle scomparse (p. 22).
Basterebbe questo passo a far capire la qualità di una scrittura che nasce nominando i dettagli invisibili, quelli ai quali si presta, di solito, scarsa importanza. Oscar è uno dei personaggi che tenterà di partecipare all’ultimo concerto del maestro Alexander Norberg. Quest’ultimo ha deciso, infatti, di organizzare un’esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi nella cattedrale di uno spopolatissimo paese dell’Islanda, sorteggiando il pubblico attraverso l’elenco telefonico, un gesto grottesco che cela una sottile protesta contro l’impossibilità per l’artista di scegliere interlocutori capaci di apprezzarlo. Quella del genio incompreso, d’altronde, in sintonia con la letteratura di Thomas Mann, è un filo rosso dell’intera produzione narrativa di Lecca che, soprattutto nella raccolta dei racconti Concerti senza orchestra, dà voce a musicisti schizofrenici e tormentati, in bilico tra una marginalità sociale talora subita, talora rivendicata come indizio di una superiore aristocrazia dello spirito. Il modello è l’artista bohémien che, come Baudelaire, pretende di possedere una conoscenza segreta delle cose e fa dell’arte una questione esistenziale. Non a caso il romanzo ha una struttura lirica, frammentaria, suggerita per esempio dai puntini sospensivi che aprono ogni capitolo, come se Lecca registrasse un discorso iniziato chissà dove, chissà da chi. Questa liricità, legata all’ascolto ‘poetico’ dei frammenti superstiti di arte e bellezza, convive con lo spessore filosofico e morale del romanzo che è diviso in tre parti, corrispondenti alle fasi di un’opera musicale, seguite da una sezione conclusiva dal titolo Dopo il concerto. Ebbene l’atto primo e l’atto secondo della prima parte hanno titoli che richiamano categorie astratte come noia e libertà, secondo una dinamica che, pur tra cospicue differenze, fa pensare a Moravia. E simile in questo al narratore romano Lecca sembra colorare tali categorie attraverso la corposità dei particolari narrativi, mostrandone varie sfaccettature e, soprattutto, ponendo un interrogativo: qual è la vera noia? Quella della periferica e statica Göteborg dove non c’è alcuna crescita moderna o quella della Londra alienante e carnevalesca in cui Oscar trova lavoro come ‘buongiornista’, come persona, cioè, che, imprigionata da una divisa in velluto rosso, saluta, ogni mattina, i clienti di un hotel di lusso?
Ma lei era lì e, in silenzio, aspettava di venir fuori. Attese a lungo e, improvvisamente, si presentò di nuovo. Oscar la vide, nera come un orco, seduta su una delle poltrone della Promenade scrutarlo con arroganza e, subito, si convinse che quel lavoro era troppo faticoso per la mente e che – tempo qualche settimana – lui ne sarebbe morto (p. 42).
La noia ha il volto di un orco; Oscar ancora legge la realtà circostante come fosse un bambino ignaro delle conseguenze spropositate che si sprigionano da eventi apparentemente minimi e insignificanti. Non ci sono vincitori nel romanzo di Lecca: solo personaggi che, insidiati dall’inquietudine, cercano una possibile forma di comunicazione. Per questo Alexander Norberg, il direttore d’orchestra, nel chiuso del suo appartamento, dove una riproduzione di Arlecchino sembra deriderlo, dopo una performance di successo, pensa che «migliaia di occhi […] erano avidi soltanto della sua musica, ma non di lui» (p. 39).

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