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La Z di Zorro

di Paolo Dapporto
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Pubblicato il 16/02/2015 14:57:20

La Z di Zorro

 

La mattina, alle sette e mezzo precise, mi svegliava la sirena delle Officine Galileo, un suono acuto che feriva le orecchie. Non è proprio come alzarsi al suono delle campane.

«Paolo, Roberto, svegliatevi che fate tardi a scuola» ribadiva la mamma senza pietà. Sulla tavola di cucina ci aspettava una tazza fumante di caffellatte, con il caffè che non era caffè, ma “caffè d’orzo”, perché quello vero non ce lo potevamo permettere. La mamma ci metteva nella cartella una brioscia, più o meno un pezzo di pane che di brioscia aveva solo la forma, ci rincorreva per un ultimo colpo di pettine e giù di corsa per le scale.

La strada era un fiume di grembiulini bianchi e neri, troppo lunghi o troppo corti, che si muovevano tutti nella stessa direzione. Un fiume carico di risate, di corse che toglievano il respiro. Un’allegria che si interrompeva di colpo appena si entrava nella scuola, troppo grande e austera per ragazzi così piccoli.

Seduto in quel banco di quinta elementare, sezione maschile A, dentro un’aula senza odori né colori, mi assaliva un ritorno di sonno. Rimbalzando sul soffitto altissimo e sulle pareti spoglie, la voce della maestra si trascinava dietro un’eco inquietante che incuteva timore e rispetto. Era tutto così chiaro e luminoso che mi sembrava di essere finito dentro una foto in bianco e nero che avesse subito un eccesso di esposizione.

Io, nato da un matrimonio tra un metalmeccanico e una sarta, avevo come compagno di banco un ragazzo che apparteneva all’unica famiglia ricca del quartiere, un rione abitato dagli operai delle fabbriche vicine. Biondo, lo avevano chiamato Bruno. I ricchi tendono sempre a intorbidire le acque.

La casa di Bruno era un’anomalia: un villino liberty, circondato da un grande giardino, su cui si affacciavano le finestre di alti palazzoni anonimi che mostravano ancora le ferite della guerra finita da poco. Molte donne della zona lavoravano per la ditta dei suoi genitori, dove si confezionavano tovaglie e lenzuoli di qualità, tutto ricamato a mano. Ci lavoravano anche mia zia e mia nonna: mia zia ricamava, mia nonna stirava. Mi chiedevano sempre di lui.

«Come va Bruno a scuola? Sei davvero amico di Bruno? Chi è più bravo di voi due?»

Degli altri compagni non mi chiedevano mai niente.

Bruno era diverso dagli altri ragazzi. Non rideva, non giocava, era sempre triste, con certe occhiaie scure e profonde che gli scendevano lungo la faccia. Le sue ginocchia e le sue braccia non mostravano i segni delle battaglie combattute sul greto del torrente che correva lungo la scuola. Alla fine della lezione veniva a riprenderlo sua madre, anche se abitava vicino. Alcune volte, davanti al cancello, lo aspettava suo padre appoggiato a una macchina di lusso. Io credo che Bruno avrebbe preferito fare delle belle corse con i compagni, quelle corse a perdifiato fino all’ultimo albero del lungo viale, ma i suoi genitori erano di quelli che “i figli non devono sudare”. Quando lo vedevo salire nell’automobile con la sua aria triste, ringraziavo il cielo che non mi aveva fatto nascere in una famiglia ricca.

Io ci provavo: «Bruno, nel pomeriggio vieni a giocare con noi nel prato dietro la palestra» ma lui nulla, la sua mamma non lo lasciava uscire.

Un giorno mi invitò a casa sua, o meglio nel suo giardino. Me lo disse con l’aria di un grande onore impossibile da rifiutare. Infatti ci andai.

Quello però non era un posto per giocare: un giardino grande e triste, senza animali, senza prato, solo pochi alberelli striminziti che spuntavano da un pavimento di ceramica. Niente a che vedere con la vita che animava il greto del torrente, luogo di battute di caccia a lucertole e ranocchi con i soliti amici.

«Così i bambini non si sporcano» mi disse sua madre, mentre ci serviva il tè all’aperto su un piccolo tavolo metallico di forma antica. Era una signora distinta, magra, dai capelli precocemente imbiancati. Aveva più l’aspetto di una zia che di una mamma.

Una mattina, la maestra ci assegnò un tema in classe dal titolo: “A fare la spesa con la mamma”. Ma cosa credeva la maestra? Che a casa mia avessimo tempo da perdere? Che andare a fare la spesa fosse una specie di divertimento come andare al cinema?

 

Io non vado mai a fare la spesa insieme alla mamma.

Lei lavora in casa, cuce vestaglie per una ditta, e, quando c’è bisogno di qualcosa, dall’ortolano, dal pizzicagnolo e dal vinaio, ci manda me o mio fratello. Non fa neppure la lista, intanto sono sempre poche cose, come ieri: “Da Mario prendi un’aringa, di quelle al latte che piacciono al babbo, da Gino fatti dare delle arance, meglio se avesse quelle un po’ battute, i capirotti, che costano meno. Quando hai fatto, vai da Loris e fatti riempire un fiasco di vino rosso.” Guardo l’aringa che mi incarta Mario: tolte testa e coda, cosa resta da mangiare? Speriamo che la mamma ci prepari anche una frittata insieme ha questa aringa. Lei fa spesso delle frittate, dice che dentro ci nasconde gli avanzi. Nella bottega di Loris entro senza fare rumore. Dicono tutti che lui nel retrobottega aggiunge acqua nella damigiana del vino. Cerco di prenderlo con le mani nel sacco o meglio con la canna dell’acqua nella damigiana. Loris invece sta dormicchiando su una sedia in attesa di clienti. È vecchio e forse non è vero quello che si dice in giro.

 

Proprio così: un’acca in più che le maestre non sopportano. Secondo loro, l’errore più grave che si possa commettere nella vita. E io quell’acca ce l’avevo messa apposta. Ogni tanto mi andava di inserire uno strafalcione in un compito di scuola, una specie di firma, un segno di riconoscimento, la mia Z di Zorro.

Se oggi qualcuno mi domandasse perché lo facessi, non saprei dare una risposta. Divertimento? Sfida? Follia? Masochismo? Delirio di onnipotenza? Forse semplicemente il desiderio di non distinguermi troppo dai compagni per essere accettato nei loro giochi. Sì, perché i primi della classe non godevano di buona reputazione nel mio quartiere, dove i galloni ci si guadagnavano con la forza, la velocità, la fionda, l’archetto, la cerbottana.

La maestra mi scrutò con occhi severi e premiò Bruno per il miglior tema della classe. Chissà che cosa si sarà inventato Bruno, che a fare la spesa non c’era mai andato né solo né in compagnia della mamma, che nelle botteghe ci mandava la mia nonna quando aveva finito di stirare le tovaglie.

Mi ricordo ancora la beatitudine che gli si leggeva in faccia. Lo vidi perfino sorridere mentre stringeva con forza l’automobilina rossa che gli aveva regalato la maestra, un premio a sorpresa. Era così bella quella macchinina con la carica a molla che mi pentii amaramente di aver messo la mia Z nel giorno sbagliato.

Fuoriuscì, prepotente, tutta la rabbia repressa per l’automobilina rossa, la villa liberty, l’automobile di lusso, il tè servito nel giardino, la nonna, la zia. Decisi di vendicarmi con quella perfidia che hanno solo i bambini.

Confabulai con alcuni compagni che, all’uscita dalla scuola, lo circondarono: «Stupido! Paolo l’errore ce l’ha messo apposta.»

Stavano ridendo tutti di lui. Sembrava che non avessero aspettato altro per poterlo umiliare. Bruno spalancò gli occhi incredulo e scoppiò in un pianto dirotto.

La storia non finì lì.

Bruno si lamentò con sua madre, una di quelle donne che “mio figlio non si tocca”, sua madre si lamentò con mia zia, mia zia si lamentò con mio padre, mio padre si lamentò con me: «Perché hai fatto questa scenata a Bruno, inventando una storia così strampalata? Non lo sai che i suoi genitori sono delle persone perbene che danno lavoro alla nonna e alla zia?»

La questione stava prendendo una brutta piega. Non era proprio il caso di scherzare con il lavoro.

Lei, la sua mamma, non ancora contenta, andò a raccontare l’episodio alla maestra. La maestra mi prese in disparte:

«Non farlo più!»

«Non fare più che cosa?»

«Non mettere più errori volontari nei compiti.»

«Ah!» preso alla sprovvista non seppi rispondere altro.

«E non mortificare Bruno. Lui è un bambino fragile, non è come te.»

Delle mie fragilità non si preoccupava nessuno.

 

Finite le elementari, ci siamo persi di vista. Io sono andato in una scuola media pubblica, quella del quartiere, Bruno in una scuola privata, per famiglie ricche. Si sono sciolti anche i legami tra le famiglie, perché mia nonna era vecchia e non ce la faceva più a stare in piedi a stirare e anche mia zia, con gli occhi rovinati a forza di ricami su lenzuoli e tovaglie, aveva dovuto smettere di lavorare.

Io non la misi più la Z di Zorro nei compiti, tranne una volta proprio alle scuole medie. Mi ero innamorato della professoressa di francese e volevo che lei mi notasse, si accorgesse di me. Parlando di Firenze, in un compito scrissi la ma ville, errore grossolano che suona così male che non poteva passare inosservato.

Lei segnò l’errore con la matita blu e mi guardò con la sua solita aria di superiorità (Dio, come mi piaceva quella sua espressione), col nasino rivolto all’insù, del tipo “ma guarda in che razza di scuola mi hanno mandato a insegnare”.


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