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L’escapismo identitario di Elena Ferrante

Argomento: Letteratura

di Timothy Megaride
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Pubblicato il 19/11/2020 12:32:18

da il tetto, n. 335, anno LVII, gennaio-febbraio 2020, pp. 84-89

 

Bugie, bugie, gli adulti le vietano e intanto ne dicono tante. Beh, non solo gli adulti, anche i bambini le dicono, sia pure senza il calcolo dei grandi. La menzogna è un po’ il sale dell’esistenza. Si mente per pietà, per vergogna, per proteggere, per celare. Il mondo al quale approdiamo alla nascita è già una menzogna, inautentico per scarsa o nessuna cognizione di sé, per l’insopprimibile impulso alla mistificazione. È lo schermo alle nostre paure, alle insicurezze, alle angosce. Mascheriamo le rughe per parere più giovani, tingiamo i capelli per il medesimo motivo, indossiamo abiti che ci rendano gradevoli agli occhi altrui, convinti di non esserlo nella nostra nudità senza artifizi o belletti. 

Se l’infanzia è immaginifica, l’età adulta è mistificatrice, consapevolmente ipocrita sia che coltivi come una religione il familismo, sia che ne dissolva le dinamiche nella comunità sociale dei sodali e degli eletti. 

«Vittoria e Costanza erano donne così diverse, tutto in loro divergeva. La prima non aveva istruzione, la seconda era coltissima; la prima era volgare, la seconda fine; la prima era povera, la seconda ricca»

Vittoria è la vestale del familismo, Costanza lo è delle buone maniere e del viver civile: due convenzioni apparentemente in conflitto, in realtà due facce della stessa medaglia che paiono ignorarsi per guardare verso opposti poli, in realtà in simbiosi per appartenere allo stesso conio. Il simbolico connubio tra i due universi che Elena Ferrante ci ripropone è rappresentato da un braccialetto che passa di polso in polso senza badare alla condizione civile o sociale di chi lo indossa. È solo un oggetto, non ha nulla di magico o di taumaturgico, a giudicare dalla cognizione che ne avrà Giovanna (Giannì in allocuzione), la protagonista narratrice del romanzo[1], dopo averne sentite tante, ma davvero tante, intorno al monile.

È una ragazzina di tredici anni alla quale i turbamenti della pubertà disveleranno “la vita bugiarda degli adulti” attraverso un percorso doloroso che sembra concludersi, tre anni dopo, con una fuga verso prospettive supposte meno anguste e più consone alla costruzione di un’identità non indotta dalle convenzioni. I temi cari alla Ferrante ci sono tutti: l’infanzia e le sue illusioni, la cognizione dolorosa della complessa realtà, il bisogno di verità oltre la finzione delle rappresentazioni. Chi sono io e che cosa voglio al di fuori della gabbia rassicurante delle consuetudini? Per saperlo devo sfuggire alle maglie di una rete soffocante, dall’ottusa sentina delle tradizioni, dall’ostentato perbenismo dei benpensanti. Immagino Giovanna come una sorta di pervicace viaggiatrice, borsa da viaggio sempre a portata di mano, in fuga perenne da tutti i vecchi vincoli. È per questo che ho pensato a una sorta di escapismo identitario che induce allo straniamento etico e culturale. Sennonché - mi pare ovvio - ovunque tu vada ti imbatti nelle coordinate di sistemi che non hai mai scelto e che possono essere più o meno angusti, a seconda di chi li ha concepiti. Non esiste la dimora di noi stessi. La fuga diventa la condizione perenne di chi non si accontenta del già detto, del precostituito, del preconfezionato. Non resta che la peregrinazione: è il nostro destino, è la Storia! È fuggito un tempo Andrea, fugge Roberto, il suo giovane omologo, fuggono Giuliana e Tonino, fugge Ida, infine la stessa Giovanna. Senza considerare che gli altri si agitano parecchio, confusamente, privi come sono di strumentazione idonea alla burrascosa navigazione. Sembrano palle da biliardo che battono una sponda e tornano indietro segnando angoli eterogenei fino a quando la forza d’attrito non ne vanifichi il moto e le costringa alla stasi; si muovono, non agiscono. Sono come acque chete che, a lungo andare, si trasformano in pantani, maleodoranti come pisciatoi, come i cessi dei treni, di dubbia utilità o valore parimenti alle appendici che i soliti maschietti narcisisti esibiscono a mo’ di scettro. Riferendosi a Corrado, il più inerte della combriccola del Pascone, Giovanna afferma che dai suoi pantaloni veniva fuori un disgustoso e greve odore di latrina. Non è soltanto la dissacrazione della virilità presunta padrona, è la ribellione alla supremazia maschile che suppone la donna mite e sottomessa ai suoi desideri. Giovanna non si lascia fottere, non si lascia chiavare. Lei, indiscutibilmente, non è Vittoria e mai lo sarà. Opera delle scelte, agisce, benché, tra tutte le possibili opzioni, finisca nella degradante esperienza di una deflorazione senza slanci e senza desideri, impoetica quanto basta per distruggere il romanticume diffuso nei romanzi rosa di cui sua madre cura l’editing e che le è stato quasi imposto come prontuario della felicità coniugale. Il suo partner è un teppistello da strapazzo, figlio (sembrerebbe) di un temuto camorrista, avvocato di professione, delinquente per istinto.    

Sullo sfondo c’è di nuovo Napoli, come ne L’amore molesto[2], nella tetralogia[3], ma anche, imprescindibile background sociale, ne I giorni dell’abbandono[4], ne La figlia oscura[5]; si tratta della consueta contrapposizione di due comunità apparentemente incompatibili, ma osservate da una diversa prospettiva. L’ascesa si fa discesa; lo sguardo questa volta cala dall’alto, dall’Olimpo all’Ade. Ed tutt’un’altra storia!

«Mi muovevo con l’indice per San Giacomo dei Capri, arrivavo a piazza Medaglie d’oro, andavo giù per per via Suarez e via Salvator Rosa, giungevo al Museo, facevo tutta via Foria fino a piazza Carlo III, giravo per corso Garibaldi, prendevo via Casanova, raggiungevo piazza Nazionale, imboccavo via Poggioreale, poi via della Stadera e, all’altezza del cimitero del Pianto, scivolavo per via Miraglia, via del Macello, via del Pascone eccetera, col dito che scantonava nella Zona industriale color terra bruciata».

Per chi conosca la città è davvero una discesa agli Inferi. La meta è nota, anzi notissima ai vari Andrea, Roberto, Giuliana, Corrado, Tonino, Margherita, Vittoria, che vi sono nati e/o vi vivono e che, in qualche misura, riproducono i tratti di un’umanità che davvero puoi vedere se ti avventuri fin laggiù, un posto orribile ove non c’è niente di interessante da vedere. Ne sanno qualcosa persino Costanza e Mariano che pure appartengono, per diritto di nascita, alla Napoli dei quartieri alti. 

L’autrice sembra farlo apposta a darci con precisione topografica i nomi dei luoghi e, dove non li riferisce, ce ne dà le coordinate. Non è difficile identificare il liceo Garibaldi (già presente ne “L’amica geniale”) dove insegna Nella, la madre di Giovanna, oppure il Genovesi, ove probabilmente insegna suo padre, o il Sannazzaro, la scuola che la  narratrice frequenta. Ci dice che suo padre la conduce in una friggitoria nei pressi, a pochi passi da piazzetta Fuga dov’è la fermata della funicolare. È noto a molti napoletani il fast food ad angolo tra via Kerbaker e via Cimarosa, vi si servono panzarotti e pastecresciute, il cibo di strada che fa gola non solo ai residenti ma anche ai turisti che vi si sono recentemente convertiti. La Ferrante sembra affermare la sua “napoletanità” come marchio di fabbrica. Non potrebbe essere altrimenti: conosce a menadito la città, la sa leggere e interpretare, ne sa intendere gli splendori e le miserie, ne rievoca gli altalenanti umori, ne rappresenta le insanabili cancrene. Ed è, a mio avviso, di “giù Napoli”, proveniente da una famiglia che non aveva nemmeno gli occhi per piangere. E che dire del dialetto parlato che padroneggia come una popolana incolta, un’eloquio fuori d’ogni convenzione, brutale, violento, aggressivo, enfatizzato da una gestualità esasperante, sbraito come un latrato, visceralmente aderente agli stati d’animo dei locutori, smaccato contraltare allo scilinguagnolo dei quartieri bene? 

Della scrittrice Elena Ferrante possiamo saper poco o nulla, ma non possiamo non riconoscerne l’estrazione. E non s’incazzi, come fa di solito quando, a torto o a ragione, lo si accosta a lei, il suo equivalente maschile, Domenico Starnone, il quale nei suoi romanzi e racconti bazzica gli stessi luoghi, rappresenta identici conflitti, ricalca, tra disgusto e assuefazione, un lessico di eccitante sgradevolezza, ma anche la fonetica sguaiata di una collettività idrofobica. Sarà un caso che i loro più recenti romanzi[6] risultino pubblicati nello stesso mese dello stesso anno, sia pure per editori differenti? Ci sono affinità? Sì, ci sono, come tra altre loro rispettive opere. Non importa chi sia l’una e chi sia l’altro. A me interessa rilevare che, tra la vasta produzione degli scrittori napoletani, loro due siano i meno celebrativi, meno oleografici, meno folcloristici. Rappresentano Napoli senza compiacimento, rifuggono i luoghi comuni, ne denunciano le asperità e il degrado, lo fanno con una prosa che raschia via i belletti e ti mostra il volto di una vecchia bagascia deturpato dagli stravizi. Napoli è questo, checché ne dicano i suoi applauditi cantori; buoni questi allo schiamazzo che allieta i pacchiani banchetti dei camorristi.        

Va bene per i turisti che non sanno, non intendono sapere e non capiscono; va male per chi, suo malgrado, è costretto a viverci senza il conforto della legge che regola la civile convivenza.

Il degrado al quale giunge Giovanna è simbolicamente rappresentato dal suo discendere da San Giacomo dei Capri al Pascone, da “su Napoli” a “giù Napoli”. Eppure osservate bene dove consuma il suo ultimo atto di ribellione: in un pied à terre di Via Manzoni. Siamo a pochi passi dal sontuoso appartamento di Posillipo in cui suo padre è andato a vivere con la nuova compagna. L’abitazione di un distinto professore è contigua al troiaio di un camoristello di mezza tacca che vive all’ombra del padre avvocato allusivamente colluso, quasi a voler mostrare che la prossimità tra i due universi sociali è di fatto concorso. C’è da giurarci che è così! I progettisti dell’edilizia residenziale della collina di Posillipo sono architetti e ingegneri di qualche fama; la speculazione delle “mani sulla città” è opera di legulei al servizio o alleati del pappatore politico. Questa è Napoli, una melma dalla quale o fuggi o ti ci impantani. Non lasciatevi sedurre dallo scilinguagnolo, una trappola nella quale sta per cadere la povera, smarrita e invaghita Giovanna. È seducente lo scilinguagnolo, non c’è alcun dubbio; ma è anche un dolce veleno che ti accoppa furtivamente. È affascinante il venticinquenne Roberto, come lo era il padre della protagonista da bambina. Ma Roberto è l’ultima trappola tesa alla povera Giovanna; vi sfugge per un mero accidente. E progetta di raggiungere Tonino, l’unico personaggio maschile di un qualche spessore nella mediocrità del molteplice e vario “virilume” presente nel romanzo. Tonino sa cosa sono la prepotenza, l’arroganza, la violenza e, volendo, ne sa fare anche uso, come dimostra la scazzottata al cinema Modernissimo. Ma scientemente vi rinunzia a vantaggio dell’impagabile dignità di appartenersi, di abitarsi, lontano dal postribolo cittadino. 

Ce n’è di gente come Tonino a Napoli, benché sia quasi invisibile. Meglio così! Se non puoi fuggire, cerca di non farti notare, parla il meno possibile o taci. Si può essere comparse con grande dignità. Recita pure la tua scena muta nella messinscena della vita bugiarda degli adulti. 

La tua giornata di lavoro è appena terminata. Fai ritorno a casa, chiudi bene porte e finestre, siediti nella tua comoda poltrona consunta dall’usura, accendi il lume, apri il romanzo di Elena Ferrante e perditi per qualche ora. Hai trovato finalmente la tua dimora, il luogo in cui, finalmente!, puoi abitare te stesso. 

 

Timothy Megaride      

 



[1] Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, edizioni e/o 2019

[2] Elena Ferrante, L’amore molesto, edizioni e/o 1992.

[3] Si tratta dei quattro volumi che costituiscono la saga: L’amica geniale, e/o 2011; Storia del nuovo cognome, e/o 2012; Storia di chi fugge e di chi resta, e/o 2013; Storia della bambina perduta, e/o 2014.

[4] Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono, edizioni e/o 2002

[5] Elena Ferrante, La figlia oscura, edizioni e/o 2006

[6] Il romanzo di Domenico Starnone, Confidenza, Einaudi 2019, è apparso pressoché in contemporanea con “La vita bugiarda degli adulti” della Ferrante.


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