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Capitolo 1

di Cristian Sciusco
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Pubblicato il 16/04/2015 19:30:08

Un caffè terribile mi risveglia da una pennichella pomeridiana, anch’essa, tutt’altro che rigenerante. Da quando ero partito per il continente britannico, mantenere le mie abitudini da buon meridionale era diventata un’impresa, tuttavia, era un sacrificio necessario per dare una svolta alla mia carriera da giornalista che da anni si era ormai arenata nella stesura di articoli di cucina e cronaca bianca che le contadinotte del mio paese apprezzavano, in misura uguale al mio disprezzo nello scrivere tali sciocchezze, anche se, col senno di poi, per anni, questi articoli, hanno pagato l’affitto del mio monolocale e, com’era naturale, mi hanno reso consapevole della mia incapacità nel cucinare. Ora vivo in una modesta casa londinese “esposta a nord, in modo che le due finestre del salone siano costantemente irraggiate dal sole”, come se facesse differenza con la nebbia tanto fitta da non lasciar intravedere nemmeno il palmo della mia mano, “due stanze, una camera da letto e un bagno, da condividere con l’inquilino dell’appartamento accanto”, disse l’agente immobiliare che, programmaticamente, accelerò sull’ultima parte, che feci finta di non ascoltare, poiché avevo visto l’inquilino della porta accanto ed ero sicuro che la sua presenza saltuaria nel mio bagno non mi avrebbe dato affatto fastidio, dopotutto era, seppur singolare, un modo come un altro per fare conoscenza: Londra è molto grande ed io un giornalista di un piccolo paesino i cui cittadini, bene o male, sono tutti imparentati tra di loro. È chiaro il dubbio che, a questo punto, aleggia tra le righe: cosa ci fa un giornalista di campagna a Londra? A volte quando caso e determinazione si combinano, la situazione che quest’ultimi generano, diventa alquanto esplosiva. Mi recavo a Roma per recensire l’Angelus del Papa che i miei poveri concittadini, timorati di Dio, non potevano ascoltare in radio a causa delle interferenze generate dall’altitudine. Un ennesimo sforzo retribuito dalla redazione che abbracciava tutti i paesini dell’appennino dauno, ma che non ripagava minimante anni di studio e ammirazione per un ruolo che, agli occhi di uno studentello, risultava eccitante e provocante come una delle più esperte femme fatale. Infatti, quel denaro era una magra consolazione, per un servizio piatto e che non generava alcun interesse. Mi caricai in macchina e giunsi in Città del Vaticano la sera del sabato, sera che da anni, mio malgrado, non era più febbricitante. Ad attendermi era una giovane coppietta, lei un’amabile casalinga, lui un giornalista di cronaca nera. Il giornalista era imparentato con il mio capo redattore, il quale aveva chiesto se potessi pernottare da loro per assistere, l’indomani, a quel sermone biblico. Appena arrivai, dopo aver inscenato i soliti convenevoli, ci sedemmo a tavola per cenare. Consumammo un pasto di fortuna, dato che la donna, evidentemente, non era stata informata del mio arrivo, se non pochi istanti prima e, sebbene potesse sembrare il contrario, probabilmente c’era stato un acceso litigio di cui io ero la causa. Oltre alla cena, la coppietta cercò di intavolare una conversazione, che diventò stranamente interessante quando lui menzionò un viaggio a Londra per una storia, che a detta di lui, sarebbe stato lo scoop della sua vita. Quando cercai di saperne di più, ironicamente mi rispose “non starai cercando di rubarmi il servizio?” ed accennò un sorriso, consapevole del fatto che fossi un giornalista fallito, cosa che evidentemente, il mio capo gli fece notare nella descrizione del mio profilo. Mi diede molto fastidio. Un sorriso forzato come risposta, mi alzai dalla tavola ed andai nella camera degli ospiti, confortevole e con una finestra che dava su S. Pietro, concedendomi l’unica cosa positiva della giornata, una vista meravigliosa. Ormai le ore della notte erano scandite dalle sigarette, che usavo come morfina per il dolore che mi causava il fatto di aver rovinato il mio sogno, con lo squallore della banalità e ripensavo al viaggio che di lì a pochi giorni, il giovane fortunato, avrebbe fatto in quella città permeata di fascino e mistero, ripensavo alle sue parole e morivo dalla voglia di sapere cosa diavolo stesse succedendo, per spingere un giornalista italiano, a trattare avvenimenti d’oltre manica. Dovevo saperlo. Gettai la sigaretta a metà ed uscii dalla stanza, e mi introdussi in camera da letto per trovare qualche indizio, un appunto, qualsiasi cosa. L’ansia mi rendeva cieco. Ma ecco che dinanzi a me, illuminata da un fascio di luce proveniente dal lampione, un’agenda, la cui aurea data “1920” brillava sul comodino di fianco a lui. Avevo realmente intenzione di fare un atto tanto riprovevole con delle persone tanto disponibili? La risposta fu automatica e senza nemmeno pensarci, proseguii in punta di pedi di fianco al letto, con la consapevolezza che se si fosse, anche minimamente girato verso di me, si sarebbe accorto della mia presenza. Repentino agguantai l’agenda e altrettanto velocemente uscii dalla stanza. In preda all’ansia mista ad euforia, sbagliai corridoio e finii in cucina, ma la voglia di scoprire in cosa consistesse lo scoop era troppo forte per indugiare ancora, così rimasi li e finalmente l’aprii. Vi erano bozze di articoli e ritagli di giornale, quando, nello sfogliare, dalla pagina con la data del giorno dopo, domenica 16 aprile 1920, cadde un pezzetto di carta. Sarebbe partito la mattina successiva. Ciò che cadde, era il biglietto di sola andata verso Londra, su di un battello di cui non ricordo il nome. Tutto ciò era strano, perché comprare un biglietto di sola andata? O lo scoop richiedeva la sua presenza sul posto per un periodo di tempo non determinato, oppure la coppietta non navigava in buone acque e il giovane maritino, stava usando il suo lavoro come copertura per delle scappatelle estere. Ci sarebbe da scervellarsi, se solo il giovane fedifrago non si fosse svegliato per un bicchiere d’acqua, arrivando in cucina con passo felpato e cogliendomi con le mani nel sacco. Il torpore del sonno, annebbiava i suoi sensi, purtroppo, non abbastanza da impedirgli di vedermi, anche se la rabbia seppe renderlo ugualmente cieco, tant’è che dalla sedia sulla quale ero seduto, mi gettò contro il bancone e cominciò a colpirmi con pugni e schiaffi. Chiaramente dovetti reagire, nonostante il mio essere nel torto, non potevo sopportare di rimanere inerme durante una colluttazione , sia per la mia incolumità, sia per quel senso d’orgoglio che contraddistingue un po’ tutti gli uomini, in particolar modo quelli del sud. Così presi la prima cosa che mi capitò tra le mani che, per mia fortuna, fu una pentola che la svogliata mogliettina aveva lasciato nel lavandino, con la ripromessa di lavarla il giorno dopo. Lo colpii. Stordito cadde all’indietro, colpendo il tavolo dove ore prima, lui stesso innestò il germe della curiosità, finendo per diventare una curiosa decorazione del pavimento, tappezzato di piastrelle dal gusto discutibile. Ero entrato in quella stanza in cerca dello “scoop della sua vita” e, per ironia della sorte, ora che gli avevo rubato lo scoop, la sua vita aveva cessato di continuare.

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