GUARDARE L’INVISIBILE
Guardare non è vedere, è l’incipit del testo di Donato Di Poce riportato sull’ultimo numero de “La Mosca”, che ho trovato di stimolo per ripercorrere riflessioni sulla poetica dello scatto da lungo tempo maturate e mai sistematizzate. Nell’articolo citato, guardare viene assimilato ad una attività di superficie, diversamente da vedere che invece comporta il possesso della visione e della complessità.
Eppure se ci soffermiamo sullo sguardo, soprattutto quello altrui, quanto spesso questo ci determina una profonda emozione interiore e dentro ci accade l’indescrivibile? Si tratta di uno sguardo penetrante, che attraverso il pertugio della pupilla, arriva ad impressionare il supporto del nostro spirito (per alcuni l’anima), così come accade per l’immagine fotografica che per il tramite del diaframma impressiona il supporto. Rimanendo al tema, si può dire che “non si vede” una fotografia scattata da un fotografo, bensì “la si guarda” (la si osserva) presupponendo dunque l’applicazione di una maggiore attenzione. Ciò che l'uomo "guarda" risponde ad una intenzione attiva della sua intelligenza, ovvero risponde al tocco di una impressione che colpisce il subliminale.
Qualcosa di perturbante accade con l'occhio nell'occhio, un gioco che provoca, che attira e respinge. La sfida è tollerare la tensione, incrociare gli sguardi, fissare le pupille, fino alla misura che opta per reclinare lo sguardo che non riesce più a sostenersi.
Non si può guardare senza vedere, ma si può vedere senza guardare. Ecco che allora il guardare si affranca dalla superficialità e dalla parzialità per entrare nelle sfere del complesso e del composto, diversamente dal vedere enunciato nel testo “Taccuino Fotografico de La Mosca”,che si può invece coniugare con il significato di visione.
Plausibilmente Di Poce fa riferimento a questo termine quando ci avverte della complessità del vedere. Sembra che ci riferisce di uno sguardo più profondo nella visione in quanto tale attività implica un apprendimento che va oltre la vista, il vedere, il guardare ed approda nell’universo dell’invisibile allargato fino a raggiungere le proposte del visionario.
Quanto è assente questo orizzonte dalla nostra capacità sensoriale che implica la vista? Cresce l’analfabetismo visivo, è vero, ma quando mai siamo stati alfabetizzati all’ osservazione? In che luogo e in quale occasione?
Eppure se si riflette sull’estensione e la portata dello strumento di registrazione fotografica, che oltre a vivere di per sé in vari formati, dimensioni e con articolati livelli prestazionali, è oggi associato persino ad altri strumenti come telefoni mobili e tablet, ci rendiamo conto della sconfinata possibilità che abbiamo di riprendere immagini. Chi ha un cellulare ha una digitale, più o meno sofisticata in numero di pixel, che permette la cattura di immagine. La maggior parte di coloro che usano tali mezzi è educata ad utilizzarla solo come strumento con funzione documentale, attribuendogli il solo compito di salvo memoria (immagine), riportandoci a quanto prima riferito sull’analfabetismo visivo. Buona parte di questi utilizzatori soddisfa il bisogno di supplire all’ansia del tempo smarrito; di coltivare l’illusione di immortalarlo per il tempo a venire, salvo disfarsene al momento che occorre sovrascrivere locazioni di memoria digitale in caso di deficit mnemonico. Si rivisitano tutte le immagini conservate e ci si libera di quelle che sembra abbiano perduto di significato. La domanda è: lo hanno mai avuto? Se sì, perché disfarsene? L’effimero imperversa! Ritengo ogni immagine catturata una creazione carica di così tante implicazioni che ne rendono impossibile la cancellazione. Pur non essendo la realtà, ne è un apparente «analogon perfetto» (Barthes). Una fotografia, appunto. Disfarsi dell’immagine digitale è come dover sopprimere una parte di chi l’immagine l’ha fermata. L’impulso alla conservazione è equivalente alla carica che spinge a fermare l’attimo, imbalsamarne la magia che se ne coglie; è una traccia-testimonianza che continua a vivere di un presente. Tale traccia, fattasi memoria, viene proiettata nel futuro incognito che ci attende. Ri-visionare lo scatto a distanza di tempo ripropone uno stato emozionale ed un significato che non sarà mai lo stesso dell’avvenuta cattura, ma si riproporrà in quadri e con connotazioni diverse a seconda della dilatazione temporale alla quale siamo stati sottoposti. Questo è più vero nel caso di un ritratto ad un volto umano o nell’immagine di una persona. Se l’immagine ha invece in sé la sola connotazione paesaggistica o di registro naturalistico, la rimemorazione manterrà più saldi i caratteri emozionali originari che ne hanno determinato la cattura. Lo scatto definito astratto, legato per esempio ad un preminente aspetto grafico dell’immagine o per es. ad un campo di colore, come può essere l’azzurro di un cielo interrotto dal bianco di una nuvola, ovvero quello concettuale, mantiene intatti tutti gli attributi che lo hanno determinato - fotografici, suggestivi, compositivi, emozionali - senza alterazioni temporali, né carichi aggiuntivi derivati.
È questo il significato che prediligo assegnare alla riproduzione di immagine fotografica; è in questa dimensione che trovo stimolante la ricerca visionaria. Un veloce riferimento alla fisica quantistica ed al postulato delle infinite realtà che ci circondano consente di rappresentare con la iconografia fotografica l’esistenza degli altri mondi; catturare le infinite esistenze dell’invisibile che ci permea, che inesorabilmente sfugge in quanto visto-percepito ma non guardato. Perché le immagini fotografiche sono vere e proprie realtà parallele con le quali concettualmente ci rapportiamo come se ci trovassimo nel reale fisico di primo grado, mentre ne sono mediazione frapposta.
Nell'era degli schermi, delle immagini, dei display e delle icone, l'uomo rinnega lo sguardo e con esso la visione. Sopraffatto da troppe tele-visioni, diventa cieco. Eppure l’emozione nasce dall'occhio. Dall'occhio nell' occhio dell'altro. Dallo sguardo che rende visibile l’invisibile.
Le immagini al di là dell'occhio sono quelle che ci trascinano sull'altro e sull'oltre. Attraverso sguardi eccessivi e dirompenti si libera, nell’espressività del guardare, l’intenzione di rendere evidente ciò che normalmente non si percepisce
Oltre il vedere significa andare al di là delle apparenze, oltre la prevedibilità e le stesse intenzioni dell’immagine. Strato su strato, significa costruire parti di noi che ci congiungono a frammenti smarriti in qualche recesso dell’anima o nelle percezioni inconsapevoli della mente. Accade similmente anche per la poesia, certamente non tutta, ma per quella che ferma, attraverso la parola, lo scorrere del tempo, in un processo di cristallizzazione che ne impedisce il decadimento mnemonico, per renderlo meno polveroso ogni qualvolta sul testo si torna.
I componimenti poetici riportano alle motivazioni, agli stati d’animo, alle folgorazioni ispirative che hanno spinto alla scrittura, alla dichiarazione delle emozioni e delle percezioni che ci appartengono.
Attraverso la poesia è come guardare fuori e dentro di sé, il dischiudersi di un orizzonte di insicurezza e insieme di coraggio, di forza e di debolezza, una rappresentazione dell’intimo che si mostra attraverso la mediazione della parola. Proprio dall’intimo, come origliati dietro ad una porta socchiusa, giungono messaggi senza spiegazioni razionali, quasi imperativi a richiamare l’attenzione sul sé, od a spingere lo sguardo al di là della siepe del pensiero stesso, in direzione di un paesaggio esteriore che è racconto e descrizione del luogo, incanto dell’ esistenza che comunica e vuole essere espressa con le possibilità della visione creativa. Che si tratti d’immagine o di versi è l’esposizione visionaria dell’invisibile.
Marzo 2012
S. C.