Pubblicato il 30/04/2010 19:27:00
In una Indonesia sospesa tra passato e futuro, vede la luce Enki: egli, come tutti, sa da subito che la sua vita è segnata dall’appartenenza ad uno dei due gruppi in cui è divisa l’umanità: Vittime e Carnefici. Sino all’età di dodici anni ciascuno è incerto sulla sua appartenenza, ma dopo tale età il segno che indica a quale gruppo si appartiene si palesa sulla pelle rendendo chiaro ed ineluttabile il destino di ciascuno, ad ogni vittima infatti corrisponde un carnefice, uno soltanto, che ha il compito di uccidere prima o poi la vittima ad esso designata. Se una vittima ha da temere solo un carnefice, sa anche che questi può essere chiunque, anche uno dei genitori, un fratello, la moglie o uno sconosciuto, non si sa, ed il segno che lo indica viene tenuto nascosto. La società e le leggi, naturalmente, sono prone a questa situazione tant’è che un carnefice nel momento in cui uccide la propria vittima designata non è considerato un assassino e non è punibile. La consapevolezza di essere una vittima ingenera in chi lo è una paura assai profonda, mista ad una sorta di rassegnazione al fatto che il destino è già segnato, la morte giungerà prematuramente e forse, in fondo in fondo, si è vittime perché un po’ lo si è meritato. La società, ovviamente sempre pronta a cingere il capo a chi è più forte, tiene in gran considerazione chi è carnefice, giungendo a una sorta di razzismo contro le Vittime, ad esempio una vittima cui necessitano cure particolari per una rara malattia se le vede negare proprio per la sua condizione iniziale, le medesime cure saranno invece fornite senza esitazioni ad un carnefice nelle stesse condizioni. Enki però si ribella a questo stato di cose, egli è vittima ma non è remissivo nel carattere, anzi, arriva ad uccidere il padre che lo vessava e che riteneva il proprio carnefice. Questo ribaltamento di posizioni permette ad Enki di avere una visione differente della vita e del destino. Attraverso una sorprendente serie di situazioni e di trovate, non dimentichiamo che siamo in un libro di fantascienza, Enki riuscirà a sopravvivere, e non solo attraverso di lui si arriva a capire come, sebbene il destino sa segnato sin dalla nascita, ad esso ci si può sottrarre con volontà e forza d’animo. La classica dicotomia tra bene e male, bianco e nero, tra chi è considerato diverso e chi no è in questo bel romanzo analizzata e sezionata con estrema arguzia, facendo giungere il lettore alla medesima conclusione di Enki, e cioè che neanche un segno sulla pelle è sufficiente per creare divisioni nel genere umano, che non sempre ciò che appare, e appare assai certo, non può essere cambiato, sebbene con fatica e sforzi, nulla è così fermamente ancorato alla sua apparenza. Come dicevo siamo di fronte ad un romanzo di fantascienza, e a tale mondo molte parti della narrazione appartengono, tuttavia una buona parte del libro racconta di cose reali e concrete, quali le risaie e il lavoro che esse comportano, e non scade mai in facili effetti o trovate per superare facilmente i punti critici. L’autrice crea un tessuto molto realistico sul quale poi costruisce parti di pura fantasia, ma tutto il lavoro appare perfettamente omogeneo, molto ben scritto, alternando parti più tese ad altre in cui si lascia posto alla meditazione o all’introspezione psicologica; soprattutto il personaggio principale appare splendidamente costruito, ed attraverso i suoi occhi e la sua mente il lettore vive tutta la vicenda. Il romanzo è sicuramente una ottima lettura, assai concreta, ma con voli di fantasia che sono assai gradevoli, l’autrice ha fatto un gran bel lavoro, con un linguaggio gradevole e preciso, avvince il lettore, anche il meno avvezzo al genere, alle pagine dense di avvenimenti, belle descrizioni e prive di sbavature o parti ridondanti. Il libro è stato vincitore del premio letterario Odissea 2009, e leggendolo si ha l’impressione che il premio sia stato assai meritato.
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