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Favole e bubbole

Favole

Ignazio Apolloni
Edizioni Arianna

Recensione di Carmen De Stasio
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Pubblicato il 25/05/2010 12:00:00

In VOLO IMMAGINARIO sulla ROTTA di una RICERCA MEDITANTE
per ESSERE FAVOLA
per COGLIERE RESPIRI di VITA

*

“Era, quel pomeriggio senza luogo preciso né tempo, fatto di un sussurro di voci vellutate trasmesse senza sosta perché giungessero a chi volesse sentire la gioia dei bimbi nel guazzare dentro la vasca; così come si potevano notare in quella sorta di crogiolo dei sensi certi brani di asciutto silenzio che dicevano quanto ancora dobbiamo scoprire sui messaggi che fanno la spola da una bocca all’altra”. Da “Fagotto e gli insetti del giardino fatato”. Pag.233

Il viaggio della mente si conclude sovente nell’ultima frase, nell’ultimo attimo in cui il libro definisce la fine di un percorso sviluppato dall’autore. Quasi sempre. A volte, al contrario, si vorrebbe che le storie non finissero mai, perché la mente si ritrova ancora imbrigliata in un’atmosfera di pensamenti e meditazioni suggellate da una lettura simile ad immersione totalizzante. Sostegno e incitamento alla riflessione emergente attimo dopo attimo dalle “Favole e Bubbole” di Ignazio Apolloni, florilegio di suggestioni e cromatiche visioni.

Per tutto il tempo ho fermato il Tempo e mi son lasciata trasportare nelle realtà illimitate di un mondo di odori, di battiti d’ali, di passi, di scoperte. Ho vagato silenziosa in una bolla attraversando ambienti e storie che Ignazio ha composto dedicandole a chiunque desideri annusare la realtà; a chiunque sia ricercatore di nuove dimensioni e piccole verità e ami spiegare le sue ali in un volo di libertà, inoltrandosi in mondi calpestati ma non sempre conosciuti.

Ignazio-Ulisse scrive una storia procedendo in un cammino inverso; segue l’anabasi dello sguardo che si insinua in realtà che esistono invisibili. Dalla costa egli naviga nell’entroterra e intreccia il suo cammino con Penelope. Diviene Penelope: tratteggia la tela e la disfa per cominciare da un nuovo centro. Per iniziare una nuova storia. Ulisse e Penelope. Ulisse-Penelope. Ignazio moltiplica le longitudini e le latitudini e segna il tracciato che conduce inevitabilmente all’interno di uno scrigno in cui si incontrano visioni e immagini proiettate sulla pagina bianca dell’occhio che guarda senza vedere. Scruta i rumori minimi del vento e della mente. Diventa natura silenziosa, passo felpato che stravolge beate certezze.

La macrotrama delle minute storie si sviluppa attraverso l’accumulazione di flussi di pensiero che, sovvertendo l’ordine convenzionale della linearità del racconto condensato nel rettangolo inizio > fine, si ritrovano casualmente là dove una storia è già da tempo cominciata oltre noi e non ha conclusione. Ecco dunque che le favole o bubbole volano alte come i disegni di Roberto Zito che rappresentano integralmente uno story board, nel quale i personaggi si riconoscono come fossero amici ritrovati che ci appaiono in descrizione fisica nell’atmosfera orfica e allegorica delle loro piccole esperienze esistenziali.

La suggestione induce a penetrare l’incavo dei pensieri sollecitando il sovvertimento della comune percezione e dando l’impressione di inoltrarsi in un mondo conosciuto con occhi furtivi per cercare il dettaglio che fa la storia. Ah! Have you eyes? Sollecita Amleto alla regina sua madre. Posso interpretare questo di Ignazio altresì come una pagina di epica realista: una raccolta di episodi per chi non si sofferma al qui ed ora della vista oculare, ma procede secondo una logica che mi induce a pensare ad una anabasi, azione costante di ricerca all’interno del sé prima di volare oltre la costa. Non fuga, né abbandono totale: piuttosto esilio ponderato affinché, forse, la scelta di ritrovarsi nel proprio giardino possa essere la meta finale di un viaggio iniziato in un tempo lontano.

Occorre uscire da sé per ritrovarsi.

Distanziandosi da forzature da lieto fine, l’autore svela le sue favole come tappe di vita espresse in forma non sequenziale, né accademica. Non c’è inizio, né fine, almeno quello inteso con la parola Fine a bloccare processi mentali. Al contrario, la pagina scritta procede oltre e suggella la continuità che incornicia le storie in un’argomentazione che segue una linea sottile lasciata in sospensione perché altri ne diano conclusione. Sono le pagine bianche di “La vita e le opinioni di Tristam Shandy” di Lawrence Sterne. Capovolgimento ed evoluzione costanti. Le parole concorrono a creare l’immagine di insieme perché la riflessione possa avere inizio e si possa scoprire il quadro allegorico che in trasparenza è stato composto.

Di fatto l’allegoria ha effetti squisitamente qualificanti sulla scrittura, della quale Ignazio è sovrano e utilizza la stessa regalità nella efficace e splendida connotazione di una lingua che appare fresca e di assoluta novità. Armonicamente – come sinfonia – e armoniosamente umetta l’atmosfera di suoni cristallini di una natura che esiste e che si sa esistere. Par poco? Ignazio spalanca lo sguardo su un mondo conosciuto ed emerito sconosciuto e lo fa con mano leggera, con il garbo dovuto perché il lettore accorto ne scopra non solo la delicatezza descrittiva, non ne apprezzi solo l’effluvio aromatico e le figurette deliziose (quelle lasciamole alle favole buoniste e moraleggianti!). Viepiù consolida la bellezza di un linguaggio appropriato e puntuale che si dipana con eleganza senza ricorrere ad elucubrazioni cerebralistiche dall’effetto dirompente, esplosivo, evanescente e consueto. Vuoto. Noioso.

C’è un gran mondo da scoprire, strutturato in favole create da una verve immaginativa, scientificamente organizzate, che si apprezzano anche in quanto bubbole, ironica negazione delle favole. Non esistono, dunque? O esistono? L’inizio non è mai uno solo (cito Yeats) e così dunque leggo le storie, i racconti, le novelle in cui i protagonisti movimentano la pagina insieme a tutti gli altri elementi che a quelle piccole storie sono legati. La pagina diviene efficace strategia di lettura e spazio in continuo mutamento in cui agiscono l’azione dei personaggi e l’azione entro la quale i personaggi si muovono. Agisce la scelta semantica e la sintassi; agisce la segnaletica di interpunzione che veicola anche il ritmo di lettura che esalta il momento di elevazione e acquisisce il profumo della quiete nell’acquietamento della azione medesima. Nel montaggio la scrittura veicola personaggi-ambienti-circostanze dentrofuori che emergono con la loro pacata genuinità, senza peana, senza maestose comparizioni improvvise in favore di un linguaggio che mai perde l’equilibrio nel collage tematico che affiora e avviluppa nella totalità spazio-temporale.

Come le dita si muovono leggere sui tasti di un piano ed intonano le soavi meditanti note di Gymnopedies (non a caso la musica che mi accompagna da sempre), vedo Ignazio mentre “cammina sul velluto” (p. 48). Per assumere le verità non occorre urlare: egli é il saggio maestro di favole silenziose che Roberto Zito interpreta in un capitolo all’interno del libro nei colori di un sogno opalescente, illuminato da tonalità prive di addensamenti cromatici, che traducono coralità di un’atmosfera e spazi prospettici e dinamici in sinergico scambio ritmico.

La ricetta di vita è meditare e sognare per annusare, assimilare, accogliere emotions recollected in tranquillity; perché dal senso estetico dell’osservazione si possa cum-prendere che il tempo esiste se valorizzato, altrimenti ci si abitua a non dar valore se non a quello cronologico, apatico, di attesa perenne (pagg. 50-51 non restava che beatamente attendere - senza sussulti – il sorgere del sole o il crepuscolo…..si erano così abituati gli abitanti del paese a questa scansione del tempo da essere rimasti ovviamente turbati allorché si propalò la voce di una bambina dai poteri fuori dall’ordinario. Da “Fantasia”). Ignazio punta il dito contro il dondolio ripetitivo e paralizzante di una comoda poltrona, sulla quale poggiare le membra assopite (“L’angoscia inevitabilmente arriva. L’angoscia paralizza” Da “Nasino alle prese col dolore e col piacere” pag. 201). Il flash di vitalità contrasta un’indolenza che non è malinconia-congiunzione con l’universo e che oppone una non lotta, contrasta l’esistenza e la proiezione con la confortevole coperta dell’ovvio e dell’ordinario, sebbene non sempre la novità o il sogno conducano al successo. Eppure val la pena. Non si può oscillare nel vuoto.

Ignazio sovverte l’ordine convenzionale della scrittura portando su un unico piano suono e segno, immagine e immaginazione in una visione dal valore olistico. In tal senso l’accumulazione degli elementi linguistici si insinua delicatamente con elementi visivi, tattili, sinestetici insomma, che portano alla percezione di una sintesi vera, edificante, genuina ed efficace perché si colga il tutto nell’immediato.
Non è questa la dimensione universale della creazione? Non è proprio dell’uomo-artista saper interpretare segni, suoni e colori?

Il linguaggio apolloniano parla con la voce della natura, dei movimenti interni dei protagonisti. E in costante movimento. (La bella lumaca di adesso lo è diventata crescendo – da “Una coppia di lumache” pag. 43). Il climax si evolve senza alcun bisogno di ricorrere a schemi prefissati e formule linguistiche perché l’azione e l’atmosfera convergano in una significazione totale del pensiero. A ciò si giunge con levità mediante l’uso della parola significativa complessa, dalla cui variazione dimensionale traspare l’immagine. Uno zoom per fotogrammi successivi che, come …l’erba, già rigogliosa, cresceva senza curarsi del paesaggio che così diventava mutevole. La variabilità del momento suggerisce l’amplificazione in campo lungo della prospettiva che si dilata come spazio scenografico in continuo movimento.

Insomma, Ignazio spalanca lo sguardo e nullifica quella cecità con cui si procede nel beata, placida sicura indolenza che apostrofa e disturba quel senso di malinconia romantica che apre scenari sui segni talora inesplicabili della natura. “Niente è inventato perché è scritto nella natura” ebbe a dire Antoni Gaudì. Dunque Ignazio sollecita ad aprire e penetrare l’atro puntando il reale, sconvolgendolo rispetto ai convenzionalismi; poeta floreale che incanta, organizza storie secondo i percorsi naturali senza aggiungere nulla che sia percepibile, senza infingimenti e ghirigori di maniera;. L’artista esplora il piccolo e l’invisibile per scoprirlo infine immenso, simbolico, metacromatico. Segue le sinuosità della natura e ne insegue le voci. Libero da catene, esplora la vita come un eterno bambino senza età, senza numeri a suggerirgli etichette di pensiero e comportamento (pag. 61: crescendo il bambino era diventato un ragazzo. Ora aveva dodici anni. Tra un anno ne avrebbe avuto tredici. Tutti senza storia) Ma l’uomo non è un numero. E’ storia, sua ed altrui. E’ ambiente ed ambienti divisi e condivisi. E’ cavaliere di un’eterna avventura. E’ uomo che dal dormiveglia passa alla sveglia e al sonno e fa in modo che veglia e sogno siano amici, come il dotto gatto e il topo tra le spine del porcospino (cito una favola contenuta nel libro). Curve e anse linguistiche provocano un surreale giro verbale che sposta l’attenzione da un momento all’altro per veicolare un crescendo dell’azione e spiegare il momento precedente ( penso a “C’era una volta una coppia di merli” pag. 64) in un infinito viaggio che, distanziandosi dalla prospettiva lineare di una conclusione esaustiva e soddisfacente solo per il singolo, diviene dilatazione di un momento totalizzante in cui prevale la globalità del “noi”.

Il libro si snoda in quattro momenti fondamentali disgiunti per quanto riguarda la capitolazione e uniti per quanto concerne il mondo che sconvolge le consuete percezioni: l’autore allinea sulla scena esseri viventi dotati di egual densità, egual dignità. Connota di dimensione univoca pur nella determinazione di una coralità di vita, di respiro e di vicende che distinguono ma non dividono, acclamano in una medesima atmosfera il viaggio di continuo pensamento per giungere ad una svolta. Che sia per sé o per altri valida, non è ciò su cui l’autore punta l’attenzione. Ignazio non va a cogliere differenze, ma compone una sinfonia policorale assimilabile ad una sorta di ipertesto informatico, dove è semplice all’occhio indagatore concepire la trama antidiegetica che scuote, sfilaccia, annoda e riannoda fili intrecciati dell’esperienza e delle esperienze raccontate scoprendosi ad un pubblico di bambini. O, meglio, a quell’essere sempre bambini come sinonimo di eterno stupore, continua invenzione, mai sazia ricerca per scoprire “i misteri del moto……” e “inventarne di nuovi” (“Storia dello Zampino di Nasino” pag. 174) e sconfiggere la strisciante paralisi di pensiero. Di vita.

Lo stile apolloniano è riconoscibile per la densità della scrittura, che non concede spazio ad altro se non ad un’immersione totalizzante, anche quando la materia non è l’uomo, o non solo lui, ma l’ambiente in cui le creature protagoniste vivono e si muovono, prospettate secondo un quadro che nulla a che fare con la magia delle fiabe (non c’è nulla di magico, né di estraneo alla realtà delle circostanze). Immagino Ignazio - e lo divento io stessa - divenire ombra di un granello invisibile ad occhio nudo sulla cui schiena è collocata una cameracar che riprende vari momenti di incontro, dialogo, di sbecco e di imbecco gentile. Una cameracar movibile, che saltella qui e là fino a divenire punto di vista su prospettive avulse da intermediazioni fastidiose e irreali.
Questo è Favole e Bubbole. La prima riflessione balzata alla mente nel momento in cui ho concluso il primo racconto – mi preme sostenere si trattasse di L’orso Pappo in L’epopea di Nasino, pag 196 – è coincisa con un volo fino a qualche anno fa, quando acquistai un cartoncino augurale da allegare ad un regalo. Il cartoncino era bianco all’esterno, scarno, anonimo, ma all’interno permetteva l’ingresso in un paesaggio naturale. Aprendolo si svolgeva una visione tridimensionale composta di lussureggianti alberi da frutto, cespugli di roselline violacee, un prospettico prato su cui volavano farfalle ed api si posavano sui teneri fiori dal lungo stelo. Il regalo fu molto apprezzato, ma il cartoncino regale rimase abbandonato su un tavolo. I racconti di Ignazio suscitano in me le stesse provvidenziali emozioni e dico provvidenziali perché permettono di allungare lo sguardo lì dove gli occhi non sempre possono giungere. Il ritmo veloce e quieto permette una sosta nella lettura ed una ferma decisione a recuperare la riflessione su visioni che intercettano l’ambiente nella sua integrità, coinvolgendo gli spazi e trascurando tempi ininfluenti. La contemporaneità delle valenze viene così a coincidere con le immagini che accompagnano i racconti come installazioni artistiche in cui l’elemento portante è il tutto nel medesimo spazio e nel medesimo tempo come spazi e tempi di meditazioni.
Giunti all’ultima pagina, all’ultima parola dell’ultima favola, resta l’ebbrezza di un viaggio che si è percorso intrecciando percezione, meditazione, lucida meraviglia. Penso ad una vita impilata su vita (“Ulysses” di Alfred Tennyson); penso ad un valore di vita che si scopre in un momento e che si illumina nel momento successivo, divenendo per accumulazione un’onda gigantesca che invade la costa-mente e che trascina la mente nei suoi spazi intimi, la fa spumeggiare in quegli orizzonti che lo sguardo veicola superando la cecità dell’oblio. Penso ad una sinfonia in cui gli strumenti imbastiscono una tela di suoni, segni, colori intonati all’unisono secondo una musicalità che è inno di pensiero. Inno di libertà.

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Sebbene la linea narrativa permetta una lettura per capitoli favolistici, nel procedere in senso contrario o dall’inizio, si avverte la continuità e l’evoluzione che ogni storia racchiude in sé: piccoli episodi emblematici di una crescita, di una progressione anche introspettiva, procedimento questo che viene suggerito da chiose sempre più frequenti man mano che i racconti balzano evidenti con metafore ed allusioni e creano un circuito in cui il lettore si sente per gradi avvolto in una cortina di curiosità per tentare di svelare quel velo (uso un termine dilogico, come è uso compiere l’autore) che è parte del mistero della vita. Non importa la conclusione, ma il processo e la trama dell’esistere stesso: la conoscenza ha esattamente il ruolo di recuperare quel desiderio di procedere per svelare non come fine ultimo, ma come inizio di novità incessante. Un’eterna epifania.
A livello linguistico la tecnica cui l’autore ricorre merita un plauso per la capacità di gestire l’intenzione e l’espressione vivacemente intersecanti (blended) allo scopo di formulare una intonazione gioiosa, ironica, triste, immediata in accordo musicale con frasi che appaiono veri e propri scrigni di stupore, di stupefacente significazione, atti meditanti e meditazione essi stessi. In tal senso anche i nomi svolgono una funzione sintetizzante poiché, lungi dall’apparire vezzeggiativi o birignao da adulti, incidono con energia il ruolo del protagonista cui in un preciso momento è ceduta la conchiglia-scettro del pensiero-parola (Mi vengono alla mente Pappo, nel cui nome si “legge” l’atteggiamento e le abitudini dell’orso; ai due ping-uini, l’uno piccino – Ping - tenero e indifeso, indeciso e l’altro solenne, altero. E infatti è un Pong-uino. Penso a Nasino, bimbo curioso e dal fiuto solenne).

Nei nomi insiste il fatto, l’azione, la personalità. E funzionale è altresì l’elemento di interpunzione, che ho definito segnaletica giacché agisce sull’interpretazione sinestetica che offre l’opportunità di seguire una ritmicità secondo l’intenzione. L’autore mette in atto tutte le strategie per enfatizzare gli aspetti identificativi entro cui muoversi, che si tratti di descrizioni ambientali che caratteriali, intenzionali, meramente fisiche. Ecco dunque che per incanto intellettuale si aprono sulla scena le splendide potenzialità possedute dall’uomo colto, che coglie (mi si consenta la diafora, figura ricorrente nel testo) la visione offrendola nella sua integrale completezza e lasciando emergere la complessità come condizione di contemporanea condizione metafisica, poesia o quadro allusivo, come ben evidenziano le traslazioni semantiche e l’uso di dilogia frequente (pag. 29: “… gli servisse. Cosa gli servisse esattamente non si sa; tante tavole per tetto per quanto è lungo il tetto”) che danno ritmicità alla lettura nell’intonazione a volute, a spirale, in movimenti palindromici o sequenziali, lineari o zigzaganti. La metalogica sovverte in tal senso l’ordine sintattico classico mescolando secondo una personalissima organizzazione la sintassi stessa, il respiro e la pausa nella determinazione di nuovi paragrafi argomentativi che suggellano la continuità e lasciano pertugi aperti alla curiosità, senza picchi di euforia argomentativa. Prevale l’intelletto, la meditazione che riunisce infine la realizzazione del percorso e dà valore all’azione stessa.

Non è la conclusione che conta., ma il disvelamento delle rotondità di eventi che calamitano in sé l’ambiente, gli odori, gli umori, i soggetti e gli spazi. Il tempo è assente. E’ sempre tempo di ricerca. D’altronde l’operazione di Ignazio è caricare esattamente una nerboruta zappa sulle spalle ed avviarsi silenziosamente ma con passo deciso a scavare nel sottobosco di ogni circostanza, di ogni oggetto, di ogni fiaba o favola che sia. Egli cerca i significati e li formula come bolle che vagano nel cielo sospinte dal vento. Che permettono di vedere in trasparenza un qualcosa che è ma non è descrivibile e che esplode nell’impatto con la riflessione.

Splendido esempio di epurazione da ogni forma di metonimia, gli scritti di Ignazio consentono la vivacità della narrazione attraverso l’intonazione di un bambino, il quale utilizza i suoni di una natura che appare contaminata solo da circostanze che acquistano sensibilità per spiegare a se stesse l’azione e la trama. Non riscontro alcuna messaggeria umanizzante e di maniera, né baroccheggianti forzature per apparire ciò che non é. La favola in tal senso si illumina di una energia che invade la scena, conservando gli umori e i cicalecci di una parola che elabora nella mente un concerto di voci infracorali ad imprimere un segno di circolarità molto più edificante che la mielosa esplicazione di una parabola istruttiva. Non è questo il luogo della voce deflagrante, che fa rumore e scalpita per acquisire il suo pubblico: è piuttosto segno distintivo di una percezione realista e simbolica, allusiva e complessa. L’autore dispiega, svela, rivela, elabora, riflette, osserva e medita all’unisono sapientemente utilizzando quella drammatizzazione cinematografica che permette un montaggio di contemporaneità azione – pensieri – visioni in immagini esaustive, in cui ogni elemento si intreccia con l’altro vivificandone la ricorrenza meditativa in situazioni che catalizzano l’attenzione per ricchezza e dignità linguistica senza ricorrere a pavoneggiamenti, voli funambolici e proiezioni ben oltre l’azione in indagine.

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