Il Male non si manifesta soltanto con le guerre e le stragi efferate che segnano la storia dell’Uomo, ma nel materialismo opulento, nel disprezzo della vita, che portano alla droga, all’uso aberrante della scienza, e in particolare della scienza medica. Tuttavia pure nella più assoluta solitudine nascono nuovi affetti, una nuova vita, il pensiero, il sospetto che un Dio esista e guidi i nostri passi, che il Libero Arbitrio si sposi con la Predestinazione in un incomprensibile, inestricabile intreccio.
Sui miei cristalli si specchiano i voli
arditi delle rondini, le nuvole
gli aeroplani, i fuochi dei tramonti
le migrazioni degli astri, degli uccelli
le cascate di perle profumate
rosati marmi, i tavoli imbanditi
dove insaziabili gole bramose 470
rospi, trichechi lucidi di grasso
consumano leccornie zuccherate.
Non più alla fonte placida l’immagine
m’attira d’invincibile malia
nella calura del meriggio estivo
o al raggio puro del bianco plenilunio.
Qui sirene vetrine splendidi ori
restituiscono immagini superbe
fasti ingordi di re sardanapali
Pure il danaro ha i suoi sacrati templi 480
in vette irraggiungibili in segrete
cave di bianca luce e ferree grate.
Le sue vittime in carcere sospirano
la libertà carissima perduta
camminano dementi ebbri di droga
nei viali sfilacciati della sera
giacciono arresi fiori calpestati
nella notte sull’erba profumata
Are novelle erette al sacrificio
sotto gli occhi vibranti delle lampade 490
tra asettiche mura e freddi acciai
nella mia scienza imbecilli fidenti
sacerdoti d’azzurro paludati
traggono esangui povere vittime
da gravidi uteri mentre io assaporo
il dolce strazio della carne tenera
non ancora formata, quella vita
prepotente recisa e buia gioia
m’invade di perfidia in questa notte.
Beffardo destino che m’esiliasti 500
in questo niente in me stesso riverso
in ira e strazio di memorie atroci
a riandare per sempre morte lusinghe
a creare spazi accesi di ricordi
a pullulare di volti che il tempo
ha reso vuoti specchi minacciosi.
Mi chino piano sulle antenne irsute
spiaccico il ventre freddo la cintura
da bulloni ben fissa lo sportello
dove una ruggine inerte e rasposa 510
escara acre d’antiche ossidazioni
ha scavato profondi precipizi
scopro nascoste grigioline spore
dormienti placide nel fondo, tremo
al ricordo commosso del piacere
se fossi umano scioccamente un pianto
righerebbe sommesso i miei cristalli.
Strofino coi sensori le lamiere
così riscaldo il rugginoso letto
quasi una culla soffice di grano 520
una nuvola azzurra di vapore
dai corpicini addormentati esala
avvolgendoli di soave tepore.
Oh meraviglia vivono si muovono
s’ergono nei primi passi insicuri
sotto la volta celeste dei vagiti
dei trilli, dei gioiosi vocalizzi.
Mi sembrano felici i loro giochi:
si rincorrono allegri si nascondono
si trovano, s’abbracciano festosi 530
distesi dormono al fondo dei pori
buie caverne. Nel sonno dolcemente
li accarezzo sfiorandoli piano
loro sotto le palpebre sorridono.
Li osservo a volte abbarbicati quando
risuonano le stanze di sospiri.
Erano il mio gioco, la mia compagnia
quasi scordavo il silenzio profondo
che m’assediava orribile reietto
la follia del rabbioso vaneggiare 540
quando spenta oramai ogni speranza
la nera nube della solitudine
m'avvolgeva di tenebra tremenda.
Misuravo la crescita dei corpi
il sano rapido moltiplicare
e quale più bello, quale più forte
quale d’animo più buono e gentile.
Per certi segni intuivo che da alcuni
la mia presenza a volte era sentita
quando sazi dei giochi spensierati 550
in cima ad un dirupo pensierosi
l’orizzonte ricurvo interrogavano
o se alcuno vegliando nel silenzio
il sonno greve dei compagni udiva
dei transistori il tremulo fruscio
come foglie di lamine sottili
mosse dal vento e par di udire un dio
nelle profonde cavità del cuore.
Come potevo mai comunicare
mi divorava una cocente voglia 560
d’esprimere il dolore, la dolcezza
a questa mia insperata compagnia
i ricordi premevano impazienti
come sbiaditi affreschi ridonati
ai vividi colori del passato.
Era un ermo desolato colle
non meta ambita di scalate ardite
tornito e franoso arido di sassi.
Alla sua cima si spingeva un piccolo
forse di tutti il più debole e mite 570
schivo dai giochi frivoli, pensoso
si soffermava a lungo e negli aperti
spazi effondeva sospirosi accenti.
A lui che l’Universo interminato
cantava con dolcissimi lamenti
confidavo la mia malinconia.
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