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Giotto 5

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 19/03/2015 20:57:19

Il Male non si manifesta soltanto con le guerre e le stragi efferate che segnano la storia dell’Uomo, ma nel materialismo opulento, nel disprezzo della vita, che portano alla droga, all’uso aberrante della scienza, e in particolare della scienza medica. Tuttavia pure nella più assoluta solitudine nascono nuovi affetti, una nuova vita, il pensiero, il sospetto che un Dio esista e guidi i nostri passi, che il Libero Arbitrio si sposi con la Predestinazione in un incomprensibile, inestricabile intreccio.

 

 

Sui miei cristalli si specchiano i voli

arditi delle rondini, le nuvole

gli aeroplani, i fuochi dei tramonti

le migrazioni degli astri, degli uccelli

le cascate di perle profumate

rosati marmi, i tavoli imbanditi

dove insaziabili gole bramose                                    470

rospi, trichechi lucidi di grasso                         

consumano leccornie zuccherate.

Non più alla fonte placida l’immagine

m’attira d’invincibile malia

nella calura del meriggio estivo

o al raggio puro del bianco plenilunio.

Qui sirene vetrine splendidi ori

restituiscono immagini superbe

fasti ingordi di re sardanapali

Pure il danaro ha i suoi sacrati templi                       480

in vette irraggiungibili in segrete                               

cave di bianca luce e ferree grate.

Le sue vittime in carcere sospirano

la libertà carissima perduta

camminano dementi ebbri di droga

nei viali sfilacciati della sera

giacciono arresi fiori calpestati

nella notte sull’erba  profumata

Are novelle erette al sacrificio

sotto gli occhi vibranti delle lampade                        490

tra asettiche mura e freddi acciai

nella mia scienza imbecilli fidenti

sacerdoti d’azzurro paludati

traggono esangui povere vittime

da gravidi uteri mentre io assaporo

il dolce strazio della carne tenera

non ancora formata, quella vita

prepotente recisa e buia gioia

m’invade di perfidia in questa notte.

Beffardo destino che m’esiliasti                                  500

in questo niente in me stesso riverso                       

in ira e strazio di memorie atroci

a riandare per sempre morte lusinghe

a creare spazi  accesi di ricordi

a pullulare di volti che il tempo

ha reso vuoti specchi minacciosi.

Mi chino piano sulle antenne irsute

spiaccico il ventre freddo la cintura

da bulloni ben fissa lo sportello

dove una ruggine  inerte e rasposa                               510

escara acre d’antiche ossidazioni                              

ha scavato profondi precipizi

scopro nascoste grigioline spore

dormienti placide nel fondo, tremo

al ricordo commosso del piacere

se fossi umano scioccamente un pianto

righerebbe sommesso i miei cristalli.

Strofino coi sensori le lamiere

così riscaldo il rugginoso letto

quasi una culla soffice di grano                                             520

una nuvola azzurra di vapore

dai corpicini addormentati esala

avvolgendoli di soave tepore.

Oh meraviglia vivono si muovono

s’ergono nei primi passi insicuri

sotto la volta celeste dei vagiti

dei trilli, dei gioiosi vocalizzi.

Mi sembrano felici i loro giochi:

si rincorrono allegri si nascondono

si trovano, s’abbracciano festosi                                530

distesi dormono al fondo dei pori

buie caverne. Nel sonno dolcemente

li accarezzo sfiorandoli piano

loro sotto le palpebre sorridono.

Li osservo a volte abbarbicati quando

risuonano le stanze di sospiri.

Erano il mio gioco, la mia compagnia

quasi scordavo il silenzio profondo

che m’assediava orribile reietto

la follia del rabbioso vaneggiare                                540

quando spenta oramai ogni speranza

la nera nube della solitudine

m'avvolgeva di tenebra tremenda.

Misuravo la crescita dei corpi

il sano rapido moltiplicare

e quale più bello, quale più forte

quale d’animo più buono e gentile.

Per certi segni intuivo che da alcuni

la mia presenza a volte era sentita

quando sazi dei giochi spensierati                             550

in cima ad un dirupo pensierosi

l’orizzonte ricurvo interrogavano

o se alcuno vegliando nel  silenzio

il sonno greve dei compagni  udiva

dei transistori il tremulo fruscio

come foglie di lamine sottili

mosse dal vento e par di udire un dio

nelle profonde cavità del cuore.

Come potevo mai comunicare

mi divorava una cocente voglia                                 560

d’esprimere il dolore, la dolcezza

a questa mia insperata compagnia

i ricordi premevano impazienti

come sbiaditi affreschi ridonati

ai vividi colori del passato.

Era un ermo desolato colle

non meta ambita di scalate ardite

tornito e franoso arido di sassi.

Alla sua cima si spingeva un piccolo

forse di tutti il più debole e mite                                 570

schivo dai giochi frivoli, pensoso

si soffermava a lungo e negli aperti

spazi effondeva sospirosi accenti.

A lui che l’Universo interminato

cantava con dolcissimi lamenti

confidavo la mia malinconia.

 

 

                                  


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