Dentro di me fuori di me una voce
l’abissale silenzio ricolmando
“Giotto,tu sei,bisbigliava,orribile
e poi un coro di voci ripeteva 580
“Giotto ascolta orribile,sei orribile!”
Poi di nuovo silenzio poi la lama
mi rigirava nella piaga ancora
con quella voce e m’inseguiva il coro
ed io fuggivo a nascondermi e niente
m’era riparo “Orribile orribile
tutto lo spazio è pieno del tuo orrore
Giotto,Giotto!” S’affacciava ai miei vetri
nel vano desolato del mio cuore
ed il terrore che non conosce meta 590
né fonte si tramutava in follia.
Ardevo ora come corpo stellare
ora mi percorreva come ghiaccio
di brividi una mandria galoppante
“Basta!” gridavo”Lasciatemi in pace!”
Ma rimbombava la mia voce appena
per un istante nel silenzio nero
dove sottile,irridente quella voce
orrida idra si gonfiava e immane
con terribili fauci digrignanti 600
mi sputava sul viso il suo veleno.
Ormai prostrato l’ultima energia
consumavo in singhiozzi disperati
ma la voce tacque,si dileguò...
il pianto nella culla inconsolabile
nel silenzio oceanico il lamento
si spensero in lunghissimi marosi,
la memoria fu breve a cancellare
i momenti angosciosi,come piana
distesa del mare dove s’estinguono 610
le ultime scaglie dorate del giorno
e l’azzurro si tinge di tristezza
e alla deserta spiaggia fa ritorno
silenziosa la barca d’ombra gravida
e si posa l’ansia di reti stese
di ripiegate vele e a tutti il sonno
è abile a sanare le ferite
nell'ospedale provido del sogno.
Ma purtroppo fu breve la bonaccia
come una penna a sfera misteriose 620
nel vuoto spazio sillabe tracciando
un’asta aguzza d’improvviso apparve
contro di me puntando il suo monocolo.
L’angoscia dentro si vetrificava
nel mio cervello di ramate spire,
una macabra danza scatenata
mi volteggiava attorno e poi di nuovo
il selvaggio puntava la sua freccia
al condannato al palo di tortura .
Un gelido sudore m’imperlava 630
la grigia scorza ruvida d’amianto.
Con accecanti bagliori roteando
quello stile sottile mi sfiorava
solleticando la rabbrividente
lamiera,l’occhio scaltro mi scrutava
con la sua nera pupilla impietosa
a cogliere il momento più indifeso
della mia tremebonda guardia insonne.
Fu ai piedi del bianco muro dove
più s’addensa l’ora dell’alba rorida 640
al pianto delle croci estenuate
caddi riverso sulla terra grassa
impallidita nello spasmo arresa
i neri corvi inquieti del terrore
fuggirono dallo squarcio del petto
con assordante suono di campane.
La Speranza che fugge il marmo chiuso
penetrò con il piombo nella fronte
devastando la rima di canzoni 650
mai espresse da chitarra andalusa.
Fu dolce piano cedere la vita
col sangue ad altra linfa più profonda.
Potei sentire il canto di cortei
snodarsi alto nella luce diffusa
che non aveva sorgente né ombra
e un volo d’ali sul corpo disteso
strappandomi alla terra mi rapiva
in alto verso l’azzurro mantello.
La volta impenetrabile del cielo 660
squillava come immenso campanello
ad una porta invisibile chiusa
lunghissima l’attesa che uno squarcio
mostrasse oltre la densa cortina
il volto vero profondo del creato.
Ritornavo alla luce della mente
da un lunghissimo buio silenzio
nel cuore il magma fuso della terra
bruciava urlando nello spazio muto
eruttavo con sibili e frastuono 670
lavica bava d’amara saliva
roteavo astro folle di dolore
portandomi nel ventre il dolce frutto
concepito d’amore nei segreti
malcelati sospiri vanamente.
Lentamente cresceva il globo lucido
cristallo della vita prorompente
In quale scuro anfratto andrò a celare
la vergogna della mia debolezza!
l’ombra del bosco l'umida caverna 680
non celeranno a lungo il mio rossore
presto un vagito romperà il silenzio
del guscio fragile errando per l’aria
di fiore in fiore bianca cavolaia
gaia del mio pudore incurante.
Quel vago lepidottero volava
nella luce del sole lussurioso
ed io inseguito dalla cruda voce
correvo ansante nella verde piana
pungolato da vespe inferocite. 690
Ora mi cresce dentro con affanno
un lento rantolo di moribondo
occupa tutto lo spazio dei miei cavi
polmoni,le fessure,i più bui anfratti
gommosa fetida spugna mi riempie
soffocando ogni gemito spietata.
Non sfugge alcun lamento che non sia
gorgoglio sommesso come stagno
dove affoga la quercia coi suoi nidi.
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