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I programmi della notte (parte 2)

di Stefano Previtali
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Pubblicato il 06/05/2009 11:18:29

I PRGRAMMI DELLA NOTTE (PARTE 2)
Stava seguendo un programma in cui il presentatore baffuto faceva da arbitro a due squadre di ragazze avvenenti che si sfidavano in varie discipline; quando una delle contendenti perdeva la sua sfida, si doveva sfilare il reggiseno lasciando ballonzolare i suoi seni al silicone, mentre la telecamera si avvicinava per un primo piano malizioso.
Un sorriso gli affiorò sulle labbra e ingollò un altro sorso di birra.
Ora alla ragazza seminuda venivano fatte lacune domande di rito, del tipo: “Cosa ti piacerebbe fare nella vita?” o “ hai degli interessi particolari?” o ancora “ ce l’hai il fidanzato?” ; e le risposte erano sempre le stesse per ognuna delle ragazze del programma: “la ballerina di qualche grossa rete televisiva”, “adoro danzare”, “sì, ma non è geloso di quello che faccio”.
“E cosa ne pensa tua madre del fatto che mostri i capezzoli a tutto il mondo?” disse Gianni emettendo una risata roca.
“E cosa dicono i tuoi genitori del fatto che ti spogli in diretta?” chiese il presentatore con un sorriso languido.
Gianni fece un gesto con la mano, unendo pollice e indice e tirando un’immaginaria linea orizzontale, che significava “come volevasi dimostrare…”.
“Oh no, i miei genitori non si intromettono nel mio lavoro…” disse la ragazza con voce civettuola.
“Lavoro?! Cazzo ragazzi, oggi le ho sentite proprio tutte” disse Gianni sbuffando aria doppio malto.
Si alzò dal soffice divano lasciando l’impronta del suo sedere nel cuscino e andò a prendersi un’altra birra dal frigorifero. Già che c’era prese anche alcuni cubetti di formaggio e due fette di salame; giusto per non bere a stomaco vuoto, pensò. In fondo non aveva cenato e , anche se ne avesse avuto la possibilità, dubitava che qualcosa di solido sarebbe riuscito a superare la bocca del suo esofago. Ora, invece, sentiva di avere un certo appetito.
Mangiò tutto appoggiandosi al piano lucido della cucina, lubrificando ogni tanto il canale di scolo con sorsi di birra. Poi estrasse una sigaretta dal pacchetto sgualcito che teneva nel taschino della camicia e si diresse verso la portafinestra che dava sul piccolo balcone.
Era una notte buia, senza stelle. Il cielo era ancora coperto da nuvoloni di pece, ma per il momento la pioggia aveva allentato il suo costante ticchettio. Mentre la sigaretta si consumava nel vento gelido, provò a tirare le somme della sua breve esistenza, valutando le cose che aveva portato a termine con un certo successo e quelle che aveva mancato. Pensò anche che, in passato, avrebbe dovuto fermarsi più spesso a tenere la “contabilità” della sua vita, ma lui si riduceva sempre all’ultimo in tutte le cose; glielo diceva sempre anche Linda.
Tra le cose portate a termine con un discreto successo svettava in prima fila l’affermazione personale come uomo e come capofamiglia. Non che avesse raggiunto chissà quale livello nella società, ma era un modesto impiegato con una buona paga, ben valutato dai superiori, aveva un discreto appartamento vicino alla città, due auto, un conto in banca che dava una certa sicurezza per il futuro e pagava regolarmente le tasse. Una vita ineccepibile sotto quell’aspetto. Vestiva Ralph Laurent e girava con una ventiquattrore, cenava spesso in ristoranti di classe e si poteva affermare con certezza che la sua famiglia (composta solamente da lui e Linda naturalmente) avesse goduto, almeno fino a quel momento, di un tenore di vita più che dignitoso, medio borghese. Era fiero di avercela fatta, nonostante i periodi bui e i suoi “momenti”.
Un altro fattore di cui non avrebbe avuto a pentirsene quando sarebbe giunta la sua ora era il decorso stesso della sua esistenza, in particolare nei suoi primi trent’anni. Era cresciuto amato e coccolato dai suoi genitori, aveva passato un’infanzia spensierata e fragrante come le estati che aveva trascorso a casa dei nonni, in campagna, aveva studiato e si era laureato in informatica, non che fosse un genio e nemmeno uno studente modello, ma alla fine ce l’aveva fatta, a piccoli passi. Il giorno del suo venticinquesimo compleanno suo padre, solitamente burbero e avaro di complimenti, gli aveva dato una pacca sulla spalla e aveva detto: “ Oggi sei diventato un uomo e non ho più nulla da insegnarti…sono fiero di te…” e gli occhi gli erano inspiegabilmente divenuti acquosi. Aveva avuto un certo successo con le donne, si era innamorato, si era sposato, aveva amato Linda con passione e aveva ricevuto amore a sufficienza per tirare avanti in quell’angusto buco di culo che era la vita. Aveva superato la morte dei genitori e il giorno che sua madre se ne andò sentì di essere stato un buon figlio e di non avere rimpianti nei suoi confronti.
Non sentiva di poter dire lo stesso nei confronti di sua moglie.
Nella lista delle mancanze, alla prima voce in grassetto, c’era la storia del bambino. Avrebbe voluto darglielo quel bambino, con tutto il cuore, ma non ci era riuscito e, anche se dagli esami non risultava, era sicuro di essere lui la causa di tutto. Dopo l’aborto spontaneo e la crisi depressiva che aveva investito Linda come una mandria di bisonti, questa certezza aveva iniziato ad insinuarsi nella sua testa; non ne aveva le prove, ma se lo sentiva e questo lo aveva messo in discussione nella sua funzione di uomo provocandogli un’insicurezza a livello sessuale che si sarebbe portato dietro fino all’ultimo. Lui e Linda facevano l’amore almeno una volta la settimana, il che non era niente male per una coppia sopra i quaranta e sposata da vent’anni, ma dal giorno in cui avevano perso il bambino aveva vissuto i loro momenti intimi con una certa irrequietezza. Ora che il tumore gli cresceva dentro, come un figlio che però, questa volta, non avrebbe perduto, desiderava aver fatto l’amore con sua moglie molto più spesso e con maggiore intensità, per farle capire quanto la desiderasse.
Si trovò a pensare di non essere preparato a tutto questo.
Non che non ci avesse mai pensato, anzi, Gianni riteneva da tempo di essere uno di quegli uomini sfortunati a cui era stata data la facoltà di rimestare troppo nei propri pensieri. A qualcuno era stato dato il dono della musica, a qualcuno quello dell’arte, a qualcuno quello di avere un pene al di sopra della media e invece a lui era stato fornito un cervello difettoso, capace solo di secernere pensieri tossici dalla propria neo corteccia.
Quei pensieri tossici, quegli impulsi negativi lanciati all’impazzata dai suoi neuroni lo avevano condizionato per buona parte della sua vita, impedendogli di viverla serenamente come gli altri.
Dai trent’anni in poi aveva vissuto con l’angoscia del tempo che passava, la paura dell’inesorabile decadimento fisico, il terrore ancestrale di trovarsi un giorno a guardare la morte da vicino. Spesso durante le serate invernali, con Linda che dormiva accanto a lui sul divano, veniva colto da una tristezza cosmica per la sorte del genere umano, per quel continuo e apparentemente inutile ricircolo di vite, per la vacuità dell’esistenza stessa (se non intesa prettamente in senso fisico di vivere, cibarsi e riprodursi) e pensava che se un Dio esisteva, allora doveva essere un sadico bambino che si diverte a staccare code alle lucertole.
Pensieri tossici che gli avvelenavano il sangue e l’anima.
Stretti cugini dei ricordi tossici, quelli che gli provocavano una stretta al cuore, come i ricordi d’infanzia, la nostalgia delle persone che lo avevano aiutato a crescere e di cui non rimanevano altro che fotografie sbiadite nelle cornici d’ottone sulle lapidi del piccolo cimitero del paese dov’era nato.

A questo pensava anche quella sera (pensieri tossici), sul balcone del proprio appartamento al quinto piano, con il viso imperlato da microscopiche gocce di pioggia che turbinavano all’impazzata nell’aria notturna di Dicembre.
E non solo…
Pensava anche a tutto ciò che avrebbe dovuto lasciare su questa terra insana ed infelice, ma a cui in fondo si era affezionato. Non riusciva a credere che non avrebbe più potuto sentire la voce rasposa di John Fogherty intonare “Fortunate Son”, o che non avrebbe più udito un attacco di Jimi Hendrix (dubitava fortemente che una volta passato al di là avrebbe incontrato il caro vecchio Jimi di persona). Provava già nostalgia per il calore dell’acqua calda nella doccia al Sabato mattina, mentre Linda si truccava davanti allo specchio, pronti per una giornata serena liberi da lavoro e impegni, o per il gusto del Big Mac, o per la scorbutica vibrazione che gli saliva dalle gambe al cuore quando cavalcava la sua Kawasaki nelle giornate estive e l’aria gli si infilava sotto il casco a rinfrescargli la fronte imperlata di sudore. E poi per il Tg delle otto di sera mentre pranzavano, per l’arrivo della bella stagione, per un giorno di vacanza, per un bel film preso a noleggio, per le fusa del gatto che si acciambella sul cuscino della poltrona, per il sesso, per la poesia stessa di vivere e soffrire e qualche volta, magari, essere felici.
E infine per Linda, la donna della sua vita, che lo volesse o no.

La sigaretta era finita già da un po’ ed ora il cerchietto incandescente si stava divorando il filtro.
Gianni sentì il calore tra le dita, segno che era ancora vivo, e la gettò nella notte.
Aveva un groviglio in gola, come i cavi dietro il mobile della tv.
Rientrò nel soggiorno e il calore lo investì pizzicandogli le guance. La tv era ancora accesa sullo stesso canale, ma i programmi di prima avevano ceduto il posto ad una noiosa televendita di tappeti persiani. Emise un sospiro profondo, quasi a voler cacciar fuori tutta la negatività accumulata durante le sue elucubrazioni.
Guardò l’orologio con i numeri romani affisso sopra la porta che dava in soggiorno: le due e un quarto.
Notte profonda. Notte buia come la morte.
“Già, la morte…e non ho ancora avuto tempo di finire la mia birra” pensò e si scoprì a sorridere. Per una volta il suo cervello aveva sfornato un pensiero sano che innalzò di una tacca il suo umore, anche se rimaneva sempre nella zona rossa, quella sotto lo zero.
Tornò al lavello e recuperò la lattina che spiccava sul piano zigrinato.
Raggiunse il tavolo del soggiorno e una fitta nel petto lo irrigidì mentre si piegava per sedersi.
Era già cominciata? Probabilmente sì. O forse, più che cominciare, stava per finire.

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