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La pazzia di Emily

di Giampaolo Giampaoli
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Pubblicato il 28/07/2017 22:02:29

Il condominio non era cambiato rispetto a come se lo ricordava, con dietro le montagne che d’estate donano refrigerio, ma d’inverno sbarrano la strada all’aria calda proveniente dal mare. Si rivedeva bambina giocare nel piccolo prato mal curato, con sassi e ciuffi d’erba talmente alti e spessi da far male agli stinchi, indifesi con i pantaloncini. Lei che gridava «Vi rincorro, nascondetevi», ma non c’era nessun bambino che potesse giocare, neanche al gioco più banale. Oltre a Lorenzo, un suo coetaneo dal carattere introverso, era l’unica piccola in quel condominio semi disabitato, che si erge nelle notti di luna piena come un gigante malato pronto a piegarsi da un momento all’altro alle montagne che lo incalzano, ma poi non cade mai.

«Pensavo fosse caduto, tanto erano pessime le sue condizioni già trent’anni fa, quando ci abitavo con i miei genitori.», disse Emily allo zio che le venne incontro al cancello ormai completamente rugginoso, senza curarsi per distrazione, forse per debolezza emotiva, se quella frase spontanea potesse offendere il povero vecchio.

«Ti abbiamo aspettata a lungo Emily, specialmente tua madre, che dopo la morte del babbo non riusciva a darsi pace di aver perso anche la sua unica figlia.»

A quelle parole la donna avrebbe voluto rispondere per le rime, dando sfogo a tutto il risentimento che le se era bloccato da tanti anni nel cuore, ma non era quello il momento. Era appena tornata nel luogo che aveva tanto odiato, ma adesso era l’unico bene rimastole, insieme a quell’ultimo parente, il suo unico affetto. Non era quello il momento di sfogarsi.

 «Quando mi è stato riferito dal notaio di aver ereditato l’appartamento in via delle Rose, avevo già letto il messaggio su Facebook della morte di mia madre. Se mi avessi avvertito della sua malattia, sarei tornata per esserle di conforto.»

«Tutto è avvenuto così velocemente. Ha avuto un infarto molto forte, dalle conseguenze talmente devastanti da ucciderla nel giro di pochi mesi. Tu non avevi più avuto rapporti con lei e io non sapevo come comportarmi. Ti garantisco che avevo già il mio bel da fare ad assisterla, ma lo facevo volentieri perché era la mia cara sorella.»

«Capisco, non voglio certo biasimarti.»

«Nei momenti di lucidità mi chiedeva di chiamarti, ma ti ripeto che non sapevo cosa fare. Dopo la sua scomparsa sono riuscito a farti scrivere quel messaggio su Internet, a cui è seguita la telefonata del notaio incaricato di avvertirmi del tuo ritorno e ho temuto che questo incontro potesse essere conflittuale.»

«Non devi pensarlo assolutamente.»

Dopo tanti anni Emily tornò ad abbracciare lo zio, che era già su di età quando lei era bambina e adesso superava i novanta. Lo abbracciò stretto, piegando le ginocchia per compensare la differenza di altezza, per ritrovare quel senso di protezione che avvertiva quando abbracciava il padre e si fidava ancora dei suoi insegnamenti.

Il vecchio la condusse nell’appartamento che aveva ereditato. Osservandolo salire lentamente le scale dai gradini alti, si ricordò quando la madre le diceva di non correre sugli stessi gradini per non rischiare di inciampare e cadere. Adesso lei con le sue belle gambe lunghe, velate dalle calze scure e rifinite da una minigonna di velluto, le poteva scavalcare senza sforzo, ma anche lo zio, malgrado il lento incedere, procedeva con un’energia inusuale per la sua tarda età, un vigore quasi giovanile. Nella periferia della città non era facile trovare uomini anziani che avevano conservato la loro salute intatta come aveva fatto lo zio Giorgio. Rovinati dai lavori pesanti nelle vecchie fabbriche ormai chiuse, soffocati dallo smog della tangenziale e amareggiati dai giovani che non vogliono impegnarsi per costruirsi un futuro, gli anziani spesso dimostravano almeno dieci anni di più della loro età.

«Come vedi non è cambiato niente. Ogni cosa è rimasta al suo posto come quando c’eri tu. Tua madre ci teneva perché non ha mai smesso di sperare nel tuo ritorno. Tuo padre ...»

«Sì, lo so. Lui aveva capito tutto e non  mi avrebbe mai perdonata.»

«Non dire così, lui ti voleva bene, solo non riusciva a condividere le tue scelte.»

Ancora una volta Emily non volle andare oltre per evitare di esprimere il suo risentimento.  

«Emily, Emily ... ripeteva spesso il tuo nome e si incolpava di avertelo dato perché troppo moderno e originale, secondo lui aveva determinato il tuo carattere ribelle.»

Il vecchio fece una breve pausa e poi riprese a parlare, cercando di dosare le parole.

«Lo so, siamo persone troppo legate ai valori del passato e la periferia è un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato a quando c’erano ancora le industrie e le persone pensavano solo a lavorare, per risparmiare il necessario ad assicurarsi un futuro migliore. Chi avrebbe immaginato che sarebbe finita così male. Ma tu potevi anche cercare di comprenderci.»

A questo punto Emily non volle più tacere, doveva esprimere in qualche modo il turbine di sentimenti che si animava nelle sue viscere, Giorgio non poteva pensare di sfogarsi senza colpire la nipote nell’orgoglio.

 «Comprendere in quel momento sarebbe equivalso a rinunciare a quanto la vita mi stava offrendo. Chimere, ormai lo so, sogni irrealizzabili, anch’io ero destinata a fare la fine della gente di periferia, che dalle fabbriche ha avuto solo fatica e delusione, ma era giusto che seguissi le miei aspirazioni. I miei genitori non lo hanno mai capito, lo sai bene.»

Stavolta fu l’anziano operaio a tacere, evitando di sfogare altri rimpianti ancora latenti.

Si sedettero l’uno di fronte all’altra. Guardavano quella umida cucina, piccola e dai pensili cadenti, che come il condominio alla fine non cadevano mai. In quella stanza Emily aveva trascorso l’infanzia, girando tra le gonne della madre e rincorrendo il padre se si spostava in salotto o nella camera da letto. Sembravano essere trascorsi soli pochi giorni, e invece si erano ritrovati dopo trent’anni.

«Cosa farai adesso?», chiese Giorgio per rompere un silenzio che si preannunciava troppo lungo.

«Non lo so. Mi spetta ancora per diversi mesi il sussidio di disoccupazione, l’agenzia teatrale mi faceva contratti a tempo determinato, ma in piena regola. Ne approfitterò per riposarmi un po’ e riordinare le idee, poi vedrò di trovarmi una nuova occupazione. Qualsiasi cosa va bene per una donna sola che deve sbarcare il lunario.»

«Potresti dare delle lezioni, sei pur sempre una maestra.»  

 

Trent’anni fa Emily era fuggita dalla periferia per andare incontro ai suoi sogni e al bisogno di un amore sincero. Le prospettive che le famiglie operaie offrivano ai loro figli, specialmente se femmine, erano assai limitate. Malgrado ormai ci fosse il diritto allo studio, in un Paese dove tutti si diplomano, ma poi si impiega solo chi può godere delle adeguate presentazioni, i ragazzi di umili origini sono inevitabilmente penalizzati anche se volenterosi. 

A scuola Emily aveva appreso il valore della libertà e della democrazia, aveva compreso l’importanza della cultura e le potenzialità della creatività, ma tutto questo serve a ben poco se poi non si ha la possibilità di mettere in pratica le conoscenze acquisite per la mancanza di raccomandazioni.

«Non ti disperare bambina, quello che hai imparato resta un patrimonio personale prezioso.»

Suo padre continuava a chiamarla bambina anche a diciotto anni, convinto che la ragazza fosse debole come le donne del suo tempo, pronta a seguire i consigli dei genitori e a lasciarsi proteggere.

«La cosa migliore adesso che ti sei diplomata è cercare un buon partito, di una famiglia che possa assicurarti un futuro stabile. Poi farai il concorso e se andrà bene ti daranno un posto nella scuola.»

E invece Emily non era come le donne che aveva conosciuto suo padre. Mentre le amiche erano impegnate a cercarsi un marito ricco, lei pensava ogni giorno a quanto le andassero stretti un lavoro ripetitivo nella scuola e una famiglia fatta per la propria sicurezza economica.

Aveva sempre desiderato recitare, ma non ne aveva mai avuto l’opportunità. Al tempo le scuole erano molto tradizionali nella gestione della didattica e raramente si proponevano laboratori creativi, ma tutti gli insegnanti di lettere e di musica che avevano messo alla prova l’aspirante attrice facendole recitare qualche battuta, avevano notato il suo talento.

Nei suoi sogni all’improvviso giungeva un attore di una bellezza inebriante, che la invitava ad andare con lui. Alla fine l’improbabile divenne realtà.

Emily conobbe Franco, un agente teatrale in quel momento al culmine della carriera, all’esame di maturità. Lui era stato chiamato a far parte della commissione, perché in passato aveva preso l’abilitazione all’insegnamento ed era ancora iscritto nelle graduatorie. Anche se non aveva bisogno di quell’incarico, infatti i contatti con le compagnie teatrali gli fruttavano abbastanza da permettersi un tenore di vita più che dignitoso, aveva accettato per avere una volta nella vita la soddisfazione di fare il professore e, a suo insaputa, quella decisone avrebbe segnato il suo futuro. L’orale dell’aspirante attrice lo colpì, ma ancora di più lo attrasse il suo bel volto, occhi scuri come la notte e labbra carnose, incorniciati su una chioma fluida di capelli neri.

Fu un colpo di fulmine. I restanti trent’anni volarono via come se fossero pochi giorni, tra gratificazione e risentimento. Sponsorizzata dal suo amante, Emily si rivelò pronta ad accettare ogni parte che le veniva proposta e a viaggiare in lungo e in largo la Penisola. Viveva un sogno talmente bello da avere il timore di svegliarsi, convinta che quell’escalation di opportunità non sarebbe mai finita, anzi le avrebbe permesso di mettersi in luce e di diventare un’attrice nota, impegnata a dare il meglio di sé nelle parti principali delle commedie che avevano fatto la storia del teatro: Pirandello, Molière, Svevo, Goldoni, nelle versioni messe in scena dalle compagnie maggiori, che avrebbero gareggiato per averla. Ma gli anni passavano senza che nemmeno lei se ne accorgesse e il suo sogno tardava a compiersi. Intanto Franco la sfruttava per i propri interessi e aveva piacere delle assenze dell’amante perché gli davano l’occasione di tradirla.

Il sogno finì per divenire un incubo quando Emily comprese che sarebbe rimasta tutta la vita un’attrice minore, legata a ruoli marginali. Allora quella professione che aveva tanto desiderato si tramutò in un impegno sempre più difficile da sostenere: non c’era gratificazione nel sapersi l’ultima, nel sentirsi mettere da parte dagli attori più affermati di lei e dai registi sempre più pretensiosi. Fu proprio Franco a darle la certezza di non essere destinata alla gloria.

«Cosa devo fare per te, ti ho dato quanto ho potuto. Non tutti possono aspirare al successo. Sei brava, ma forse non abbastanza.»

«Non mi parlavi così venticinque anni fa, quando ci siamo conosciuti. Allora ero la tua stella.»

«Emily, il tempo è passato. Forse hai puntato troppo in alto e non ti sei accorta che gli anni migliori ti stavano sfuggendo di mano, senza che potessi completare la tua carriera.»

«Allora perché non mi hai avvertita dell’errore che stavo facendo?»

«Te l’ho già detto, non ho colpa. Smettila!»

«Magari avresti potuto darmi una famiglia, cosa che una volta avevo. Potresti darmela ora.»

«Forse non lo hai mai notato, ma io per queste cose ero già troppo avanti con gli anni quando ci siamo conosciuti, figuriamoci adesso che sono ormai vecchio. Non sono adatto ai legami e ...»

«…. e non rinunceresti mai alle tue avventure, come hai sempre fatto.»

«Non me le hai mai fatte pesare, mi sembra impossibile che solo ultimamente te ne sia accorta!»

«Mi sono accorta di averti regalato la mia vita e di questo mi pento.»

Emily sbatté la porta e non rivide mai più Franco. Venticinque anni di “amore” gettati in una sola e conclusiva discussione.

La donna continuò per necessità economiche a lavorare senza entusiasmo nel teatro, fino a che le arrivò la notizia della morte della madre. Fu Lorenzo, quello strano bambino con cui non giocava mai da piccola e che crescendo si era appassionato agli strumenti della tecnologia elettronica, ad avvertirla tramite Facebook della perdita che aveva subito. Nel messaggio sosteneva che era stato lo zio Giorgio a chiedergli di contattarla. Di sua spontanea volontà non lo avrebbe mai fatto, perché al di là dei social network, dove le persone stringono amicizie solo per avere il numero più alto possibile di contatti, non aveva mai perdonato a Emily di aver abbandonato la periferia e, di conseguenza, anche lui, che da giovanissimo l’aveva amata tanto senza mai essere corrisposto.

Contemporaneamente l’attrice aveva ricevuto la telefonata del notaio ed era stato allora che aveva deciso di farla finita con il teatro.

 

Il giorno che seguì il suo ritorno, Emily volle ringraziare Lorenzo per averla avvertita di ciò che era accaduto a sua madre. Ormai aveva deciso di dire sì alla sua vecchia vita, che aveva cercato di non vivere, forse desolante e priva di prospettive, ma sicura e senza illusioni.

«Sarò sincero, è stato tuo zio, che non aveva la benché minima idea di come contattarti, a chiedermi di mandarti quel messaggio.»

Era chiaro che nel cuore dell’uomo albergava ancora il rancore. Da quel tipetto un po’ basso, ma magro magro che era da ragazzo, si era trasformato in una sorta di dirigibile gonfio di grasso, che non avrebbe mai potuto prendere il volo.

«Mi sono lasciato troppo andare, te ne sei accorta?»

La frase suonava come un aspro rimprovero, come se Lorenzo volesse attribuire a Emily la responsabilità del suo degrado fisico.

«Non ho mai avuto la possibilità di costruirmi un futuro, dopo che te ne sei andata, e con la morte di mia madre il mio peso è andato fuori controllo.»

«Potresti cercare di dimagrire.»

«Il medico mi ha detto che dovrei farmi operare di bypass gastrico, mi aiuterebbe, ma dovrei andare in una grande città. Ho l’auto per spostarmi, il computer e il cellulare per prendere contatti, se mi andasse bene forse troverei il modo di farmi pagare l’operazione dal sistema sanitario, ma sai come siamo noi della periferia ….»

«… se le novità non arrivano sotto casa nostra non siamo abituati a spostarci, ciò che si fa lontano da qui è solo un’immagine sul monitor, come una sorta di storia che ci viene raccontata.», Emily concluse d’istinto la frase di Lorenzo.

«In realtà tu non sei così, lo hai dimostrato fin troppo bene.»

«Erano altri tempi. Era questa realtà chiusa che volevo superare, ma ero più giovane e non sapevo ancora che se si nasce in periferia, si resta per tutta la vita una di periferia. Lo studio e la buona volontà non sono sufficienti a cambiare il destino.»

 

Benché Emily e Lorenzo fossero cresciuti nello stesso palazzo, raramente si erano anche solo rivolti la parola. Lei troppo abituata a stare da sola per cercare degli amici in carne ossa. Lui sempre costretto dalla madre a studiare per costruirsi un futuro diverso dalla vita dei suoi genitori operai, un’opportunità che però non era mai arrivata. La povera donna fino all’ultimo aveva attributo le mancanze del figlio al suo poco impegno, senza capire che quel mondo meraviglioso e importante che raccontano i libri di scuola, resta un sogno se qualcuno non insegna a un giovane come impiegare le conoscenze acquisite nella società reale.

Lorenzo si era innamorato di Emily sui banchi di scuola, alle medie e poi alle Magistrali, frequentate da ambedue perché erano l’unico istituto superiore abbastanza vicino alla periferia, da raggiungere anche passeggiando la mattina presto d’autunno e di primavera. Lui si era finalmente dichiarato dopo l’esame di maturità, quando ormai la ragazza aveva già pianificato la sua fuga contro il dissenso dei genitori e, nella foga del momento, dimenticò di rifiutare l’ormai ex compagno di classe con la doverosa gentilezza.

«Mi dispiace, ma non posso accettare il tuo amore. Tu fai parte di questo posto e di questa vita che adesso io odio e da cui voglio fuggire. Scusami e vivi bene, se puoi.»

Adesso lo guardava la sera dal cortile, quando lui teneva la finestra del salotto aperta. L’uomo si abbandonava sulla sua grossa poltrona a mangiare senza sosta, mentre i giornalisti alla televisione conducevano i loro programmi sportivi. Emily provava per Lorenzo una pietà infinita.

 

La prima volta che la donna ebbe paura di vivere nel suo vecchio appartamento era tornata da pochi giorni e, malgrado il suo passato deludente e i pesi sulla coscienza, aveva davvero tutta l’intenzione di godersi ancora per un bel po’ il suo meritato sussidio di disoccupazione. Era ormai tramontato il sole delle prime settimane di  primavera, quando gli orologi vengono reimpostati sull’ora legale e il buio inizia a tardare. Le ombre della notte, che minuto dopo minuto avanzava inesorabile, si stendevano sul muro di recensione del campo da calcio posto di fronte al condominio, abbandonato da anni e seppellito sotto l’erba che aveva raggiunto oltre un metro di altezza. Alberi e lampioni davano l’illusione ottica di allungarsi, sembravano giganti che spiavano gli abitanti della periferia, pronti ad avanzare sul condominio per abbatterlo.     

Emily pensò a quanto il paesaggio fosse inquietante visto dalla finestra della sua cucina; quel luogo se lo ricordava povero e desolato, ma non così tetro. Poi il suo appartamento iniziò a sussultare, non a causa di un terremoto, ma come se fosse sospinto dalle fondamenta del condominio. Nel sussulto i muri le davano l’impressione di piegarsi su se stessi, come se volessero inghiottirla.

Fu assalita da un terrore cieco e incontrollabile. D’istinto uscì, corse a perdifiato lungo due rampe di scale e iniziò a bussare e a gridare con tutte le sue energie alla porta dello zio.

«Apri presto, il mio appartamento mi sta inghiottendo. Apri, apri!!!»

Giorgio corse più veloce che poteva per far entrare la nipote.

«Cosa è successo? Perché sei così spaventata?»

Emily attraversò il corridoio e andò ad appoggiarsi alla mensola della finestra di cucina; si dimenava come se non sapesse se abbandonarsi a un sostegno sicuro o cercare un’uscita per continuare a fuggire. Poi tremò con forti convulsioni per alcuni secondi, infine si calmò.

«La mia casa sobbalzava e a un certo punto sembrava che volesse inghiottirmi. Non so bene come spiegare, tutto è avvenuto nel giro di pochi minuti e io ero troppo spaventata per capire cosa stava accadendo.»

«Sei ancora molto stanca. Negli ultimi tempi hai vissuto troppe emozioni e hai dovuto affrontare vari cambiamenti.»

«Sono sicura di quello che dico. Sembra strano, anzi impossibile, ma è tutto vero.»

«Emily, lo stress può veramente fare brutti scherzi e tu sei di sicuro in una condizione psicologica molto precaria.»

«Ho paura di essere diventata pazza.»

«Cosa dici, devi solo riposare e poi vedrai che riuscirai ad adattarti di nuovo a questo luogo. Lo so che non è bello vivere qui, ma devi accettare una volta per tutte che è l’unico posto che ci è concesso.»

Giorgio riaccompagnò la nipote nel suo appartamento.

«Non voglio che ti abitui a dormire in casa mia – le confessò – se faccio questo errore cosa ti accadrà quando non ci sarò più. Non mi rimane molto da vivere, non puoi affidarti a me.»

La notte per Emily fu lunga. Non riusciva a prendere sonno e sussultava a ogni piccolo rumore o a ogni barlume di luce improvvisa, ma alla fine la stanchezza prese il sopravvento.

 

Per alcuni giorni volle rimanere in casa. Al di là di qualche breve visita dallo zio, non uscì mai per dimostrare a se stessa che era ancora abbastanza coraggiosa da vivere dentro quell’appartamento, che continuava a legare a ricordi discordanti, piacevoli e tristi.

A volte intravedeva Lorenzo che tornava da lavoro o partiva per fare delle compere. Ormai lo salutava con un timore misto a un chiaro senso di repulsione nei confronti del suo aspetto fisico, così sgradevole. Non provava alcun interesse verso di lui e l’uomo se ne rendeva conto, nei suoi occhi si leggeva un rancore represso verso quella donna a cui aveva voluto tanto bene, ma che adesso lo stava tradendo per la seconda volta.

Emily lo vide anche il giorno che si decise ad andare in città per fare la spesa. Ormai aveva urgente bisogno di provviste. Mentre stava attraversando con le buste la via del centro, Lorenzo apparve al suo fianco all’improvviso.

«Vuoi una mano.», le chiese cercando goffamente di essere gentile.

«Mio Dio, che fai: mi hai fatto venire un colpo!»

«Scusa, non era mia intenzione spaventarti.»

Nella voce dello spasimante c’era tutta l’amarezza di scoprirsi ancora una volta bistrattato.

«Non ti preoccupare faccio da sola, le buste sono abbastanza leggere.»

«Dai che ti stanchi.»

Quell’insistenza infastidiva Emily a tal punto, da spingerla a diventare maleducata.

«Non ho bisogno del tuo aiuto. Ho trascorso alcuni giorni d’inferno e, non ti offendere, vorrei stare tranquilla. Ciao.»

Mentre allungava il passo, Emily si voltò per un attimo a guardare Lorenzo e le fu sufficiente per leggere tutto il risentimento e la delusione dipinti sul suo volto, che si perdeva nella lontananza. Poi a un tratto l’uomo scomparve e dalla folla emerse una figura inquietante che avanzava veloce. La stava inseguendo.

Era robusto, ma non sembrava grasso, almeno per quanto si poteva notare, perché non era possibile capire la corporatura dell’inseguitore avvolto in un impermeabile invernale, ma era talmente veloce che nel giro di pochi minuti fu prossimo a raggiungere la sua vittima. Emily si sentì persa. Le persone dimostravano di non rendersi conto della sua situazione di pericolo, come se quel tipo dall’aria palesemente minacciosa potesse vederlo solo lei. La donna pensò che se quel mostro avesse estratto dalla sua larga manica un pugnale per ucciderla, nessuno sarebbe corso in suo soccorso.

La fuga durò solo pochi terribili attimi, poi l’immagine della stazione dei carabinieri e la svolta repentina per entrare e salvarsi.

Il maresciallo Golia si parò davanti a Emily con i suoi centottantasette centimetri, lei alta solo centosettanta centimetri sull’istante non capì se era andata a sbattere contro un muro o un salvatore. Per fortuna era un salvatore.

«Cosa posso fare per lei.»

La voce di Golia tradiva il suo stupore per l’inusuale modo di entrare della donna, che riusciva a farfugliare solo frasi sconnesse.

«Sono spaventata …. là fuori ho visto un uomo …. mi insegue …. ho paura.»

Il maresciallo si precipitò di istinto nella strada del centro, ma non vide nessuna persona sospetta.

«Signora venga pure, qua non c’è alcun pericolo.»

Emily aveva ormai ritrovato la calma ed ebbe il coraggio di uscire dalla caserma.

«Le assicuro che un uomo con l’impermeabile mi stava inseguendo, non posso essermi sbagliata. L’altra sera forse ho avuto un’allucinazione, ma ora sono sicura di quello che ho visto.»

«Venga nel mio ufficio e mi racconti cosa le è successo.»

La donna riportò le sue disavventure, aprendosi con tutta la sincerità di cui è capace chi si trova in difficoltà e non sa come comportarsi. Era chiaro che si aspettava da Golia qualcosa di più della semplice comprensione, ma ricevette solo un appoggio morale.

«Signora cerchi di essere razionale, come è possibile che una casa voglia inghiottirla e per strada, in mezzo alla folla, la insegua un uomo con un’aria estremamente losca senza che nessuno se ne renda conto. È chiaro che sta attraversando un momento di forte tensione e deve cercare di calmarsi.»

Allora la sventurata raccontò al suo angelo salvatore in breve la propria esistenza, decisione dopo decisione, delusione dopo delusione, e da quanto disse il maresciallo ebbe ulteriore conferma che aveva bisogno di riposo.

«Veda di rilassarsi, magari facendo qualche gita in campagna, e passi dal suo medico curante per farsi dare una piccola cura. A lui dica quanto ha raccontato a me, vedrà che le farà bene sfogarsi ancora.»

Le ultime parole di Golia colpirono Emily come una pugnalata, ma  la donna cercò di non manifestare la sua disperazione. Quante volte nella vita si era sentita dire che aveva bisogno dell’aiuto dei dottori: da ragazzina dai suoi genitori, da adulta da Franco e da attori e registi con cui aveva lavorato. Ma non era pazza, ne era certa.

Cercò di tagliare corto per uscire da quella situazione che era diventata insostenibile.

«Ha ragione maresciallo, le darò retta.»

«Brava. Vedo il suo indirizzo sul monitor del computer, le verrò a fare visita tra qualche giorno.»

 

«Non sei pazza», le ribadì lo zio Giorgio. Non avevano sbagliato i genitori a sottovalutare i suoi atteggiamenti aggressivi, quando pretendeva di andarsene dalla periferia, per correre dietro a Franco e a un futuro migliore. E non avevano sbagliato nemmeno alcuni anni prima a ritenere il suo autolesionismo preadolescenziale solo una reazione verso uno stile di vita che detestava. La psiche dell’uomo è complessa, se si andasse a dare importanza a ogni atteggiamento anomalo delle persone, specialmente dei giovani, si finirebbe per ritenere tutti pazzi.

Ma adesso Emily era sopraffatta da una paura che non la abbandonava un solo attimo, nemmeno la notte quando non riusciva a prendere sonno. Una serie di angosciosi presagi angustiavano la sua anima e consumavano la sua mente. Il sospetto di essere pazza, il timore di essere vittima di uno squilibrato che voleva ucciderla, la sempre più inquietante figura di Lorenzo, che adesso non osava più rivolgerle la parola, ma continuava a guardarla con i suoi occhi accusatori, come se lei fosse la causa di ogni male.

E quel che era peggio non sapeva a chi chiedere protezione. Lo zio Giorgio, anche se non era disposto a credere a tutte le sue stranezze, la comprendeva, ma era troppo vecchio per aiutarla; il maresciallo Golia, invece, le aveva già fatto intuire di ritenerla oltremodo disturbata e adesso temeva la sua visita, che sarebbe giunta da un giorno all’altro. E non aveva certo il coraggio di confessare cosa le stava accadendo a qualcun altro. Era sola.

Quando la donna vide scendere dal muro del suo bagno, mentre si stava lavando il viso, lunghi rivoli di sangue, come se la parate sudasse quel liquido orribile dai pori dell’intonaco, gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Il male si era impadronito di lei e del suo appartamento, un’essenza maligna che la detestava per qualche incomprensibile ragione e voleva torturarla. Emily ebbe appena il tempo di vedere ancora una volta il volto corrucciato di Lorenzo, che guardava dal piazzale la finestra del suo bagno, poi perse i sensi.

 

«Finalmente si sta riprendendo. Grazie a Dio.»

Intorno al letto di ospedale di Emily c’erano lo zio Giorgio, che si era abbandonato a un sospiro di sollievo quando le aveva visto riaprire gli occhi, e il maresciallo Golia, che era stato chiamato dai paramedici.

«Ha perso conoscenza per molte ore. Suo zio l’ha vegliata tutta la notte. Come si sente?»

«Non so, sono così confusa.»

«Nipote, non ti affaticare. Cerca di riposarti e non mi far prendere più questi spaventi, se non vuoi vedermi sotto due metri di terra.»

«Il muro del mio bagno sudava sangue, ora ricordo.»

«Ma cosa dice, è ancora scioccata, cerchi di calmarsi.»

Il tono della voce del maresciallo continuava a tradire la sua disapprovazione per l’insistente farneticare della donna, lo zio invece sembrava ancora disposto a comprenderla.

«Emily devi capire che sono solo allucinazioni, partorite dallo stress e dall’alterazione della tua psiche, come quando ti tagliavi da ragazzina perché non volevi che tuo padre ti dicesse che una donna può fare solo la casalinga o l’operaia.»

A quel punto Golia dovette ricordare alla paziente il suo passato. «Emily, ho analizzato la sua cartella clinica al centro di salute mentale, c’è la documentazione fino all’anno della sua partenza dalla periferia. Gli psichiatri sospettavano che soffrisse di schizofrenia. Il suo caso non era grave, ma ha dovuto curarsi negli anni delle Magistrali, malgrado i suoi genitori non fossero pienamente d’accordo con i medici.»      

«Però quando ho iniziato a recitare non ho avuto più problemi, infatti un dottore che mi ebbe in cura per un po’ di tempo a Roma mi aveva tolto le medicine.»

«E poi lei non le ha mai più riprese.»

Il dottor Sarti era solito entrare all’improvviso e immettersi nelle discussioni tra malati e parenti per non apparire, a suo dire, troppo professionale e rischiare di spaventare le persone turbate. Tecnica insolita. Era basso, grasso e pelato, forse il suo aspetto fisico tanto buffo lo spingeva a voler apparire meno dottore e più bontempone. Ma era convinto che il caso di Emily non andasse sottovalutato.

«Signora lei soffre di allucinazioni, non ho alcun dubbio. A livello fisiologico non ha nessuna disfunzione che possa giustificare uno svenimento improvviso. È inevitabile che la malattia risieda nella sua psiche.»

«Ma come fa a esserne così certo.»

«Nipote  ascolta il medico, per carità, che sa quello che dice. Anche se non sembra, è un ottimo psichiatra.»

Dopo aver fatto la gaffe, il povero vecchio si nascose la faccia tra le mani per la vergogna, ma Sarti non sembrò curarsi minimamente dell’offesa subita.

«Adesso le farò un’iniezione di valium che la farà dormire. Quando si sveglierà le faremo tutte le analisi indispensabili per capire se si tratta di schizofrenia.»   

«Emily, se non lo vuole fare per se stessa, si lasci curare almeno per dare un po’ di serenità a suo zio, che sta soffrendo molto per lei.»

Le ultime parole di Golia toccarono il cuore della donna, che si lasciò fare l’iniezione dallo psichiatra. Ancora una volta dopo pochi secondi cadde in un sonno profondo, senza incubi, senza tormenti, persa in un buio assoluto.

 

Quando Emily si svegliò non era più all’ospedale. La sua vista era appannata, ma lentamente iniziò a mettere a fuoco le immagini. La stanza in cui si trovava l’aveva già vista, molti anni fa, quando era ancora ragazzina, ma non riusciva a ricordarsi dove si trovasse, era inutile che sforzasse la memoria. Poi vide davanti a sé il volto dello zio come non lo aveva mai visto. Aveva uno sguardo duro, risentito, accusatorio.

«A noi della periferia non spetta nemmeno un ospedale decente. Che medico stupido quel Sarti, chissà come ha fatto a prendere la laurea! E anche i controlli sono inefficienti nel suo reparto. Ieri sera mi sono accorto che dopo le ventitré resta solo un infermiere di vigilanza, i dottori e gli altri paramedici se ne vanno tutti a dormire negli ambulatori e se non ci sono urgenze, chi si è visto si è visto. È facile aggirare l’infermiere di guardia se si passa dall’uscita antincendio, anche portando un malato addormentato su una carrozzella.»

«Cosa sta succedendo zio, perché mi hai portato qui?»

«Qui? Certo, non ricordi questa stanza, l’hai rimossa dalla memoria perché riguarda un episodio della tua vita che non hai mai voluto ricordare, una persona con cui non hai mai voluto avere a che fare.»

«Cosa dici, non capisco.»

Gli occhi di Giorgio adesso la guardavano con odio, dentro c’era un fuoco che ardeva senza sosta, pronto a schizzare fuori e a bruciare la carne della nipote.

«Sono certo che non ricordi, allora vedrò di rinfrescarti la memoria. Siamo in casa mia, nella stanza dove era costretta a vivere Gina.»

«Non so chi fosse.»

«Certo che lo sai Emily, smettila di fuggire dalla realtà. Gina era mia figlia, tua cugina, era malata, gravemente malata. Aveva una patologia degenerativa dell’apparato linfatico e non poteva mai uscire da qui. I medici la curavano con i mezzi antiquati del tempo, ma inutilmente;  lei, povera figlia mia, è morta putrefacendosi nel suo letto, mentre tu eri in giro per il Paese a fare la puttana.

I tuoi genitori non volevano che tu la conoscessi, ti volevano proteggere dal male anche se sapevano di umiliarmi. Poi a tredici anni ti portarono per la prima volta in questa stanza e la guardasti con orrore, i tuoi occhi mi trasmisero tutta la repulsione che senza alcuna pietà provavi per la mia povera bambina. Gina aveva venticinque anni e soffrì così tanto per il comportamento della cugina, che da tempo voleva conoscere.

Ti ho odiato Emily e quell’odio, che non è mai uscito dal mio cuore, in passato come in questi giorni mi ha dato la forza per corrompere la tua mente.»

«No, non posso crederci, ora ricordo. Lei era nel letto e aveva un pessimo odore, ero una ragazzina e non potevo capire, ma non volevo farvi del male.»

«Però lo hai fatto e mi sono vendicato. Io ho fatto emergere dal tuo inconscio le brutte immagini che vedevi quando i medici ti ritenevano schizofrenica, sempre io sono tornato ad angosciarti in questi giorni. L’odio ha dato al mio cervello la forza, che è sempre mancata ai muscoli per andare da tuo padre e spaccargli il muso per quello che sua figlia mi aveva fatto.»

Adesso Emily ricordava ogni cosa, la sua mente si era liberata da ogni blocco. La sua agitazione continuò a manifestarsi in un respiro affannoso, ma la voce assunse un tono regolare.

«La vista di tua figlia che si stava decomponendo nel suo letto mi inorridì a tal punto, che mio padre mi portò subito fuori da qui. La notte non riuscivo ad addormentarmi, poi caddi in un sonno profondo; la mattina la mia psiche aveva rimosso quella terribile esperienza, che fino a oggi non avevo mai ricordato.

Perdonami zio per il male che ti ho fatto, ma non pensi di avermi già fatto soffrire abbastanza?»

«No Emily, la mia vendetta non è ancora compiuta. Guarda il letto, Gina è tornata e adesso vuole che tu paghi tutte le tue colpe.»

Il vecchio aprì la finestra per far entrare la luce del giorno. Gli occhi della donna si spalancarono e la sua bocca si contrasse in una terribile smorfia di terrore. Nel letto c’era una ragazza malata; Emily la riconobbe, era Gina. Il pessimo odore che adesso invadeva le sue narici, il corpo consumato dalla malattia che si abbandonava nelle lenzuola sporche di sangue, la maschera per l’ossigeno. Gina era tornata. Giorgio impugnò deciso il suo pugnale, pronto a lacerare la carne della nipote, che gridava di un terrore assoluto.

Poi il vecchio cadde a terra ed Emily soffocò il suo grido in gola, riprendendo a respirare in modo affannoso.

 

Quando la portarono via con l’ambulanza, prima che i paramedici chiudessero il portellone vide per pochi secondi il volto di Lorenzo, che per la prima volta le parve il viso di un angelo. Il dolce ragazzo le sorrise con tutto l’amore che non aveva mai smesso di provare per lei.

«Quando Giorgio ha aperto la finestra ho visto che stava impugnando un coltello da macellaio, così sono corso in casa sua. Probabilmente era talmente preso dalla foga di uccidere, da non sentire il gran rumore che ho fatto per sfondare la porta. Raggiunta la camera ho visto che stava per  colpire Emily e d’istinto gli ho conficcato nella schiena un piede di porco che avevo preso nel giardino per armarmi. Lo usiamo per sollevare il tombino della fognatura.»

Il maresciallo Golia ascoltava il racconto di Lorenzo con una faccia che non nascondeva la sua delusione. Era impossibile dai fatti accaduti capire il progetto omicida di Giorgio, tuttavia aver sottovalutato la richiesta di aiuto di Emily adesso gli pesava.

«Chi è quella poveretta che vive con Giorgio?» chiese a Lorenzo.

«È sua nipote. Gina fu orrendamente violentata dall’infermiere del distretto sanitario, che ogni mattina veniva a fasciarle le ferite. In periferia tutti sapevano che anche sua figlia era nata malata, ma nessuno sospettava che fosse talmente grave da avere la stessa patologia della madre. Giorgio la faceva curare senza raccontare niente a nessuno. Tutti credevano che l’avesse portata in un istituto sovvenzionato dal sistema sanitario.»

«Pover’uomo, non c’è da stupirsi che abbia perso il lume della ragione con tutte le tragedie che ha vissuto. Mi ricordo ancora che mio padre mi raccontò di quando perse la moglie in un incidente d’auto, la figlia era sempre neonata. Poi la malattia di Gina e infine anche la nipote.

Resta un mistero da svelare. Come ha fatto a condizionare la mente di Emily fino a farle avere delle allucinazioni, perché a questo punto sono certo che fosse lui a torturare la psiche della nipote.»

Lorenzo si sorresse il mento con la mano nel gesto di riflettere.

«Forse non lo sapremo mai – concluse Golia – la mente dell’uomo nel dolore si fa più forte per superare le avversità e acquisire doti, che chi non ha sperimentato l’inferno sulla terra non può conoscere.» 

 

                                                                            


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