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Qui : poemetto di Marco Ribani

di Marco Ribani
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Pubblicato il 04/04/2016 06:10:39



Qui

Prologo

dove se ne sono andati tutti
che non posso nemmeno gridare
che dalla bocca escono farfalle e libellule
che annunciano la mia morte in forma di totale assenza
che esplodono le guerre e le tempeste che lacerano la pelle delle madri
dal velluto della prima rosea pelle al marcire nauseabondo del fluido che fluisce
alle radici delle rose
Vedi
Mi dice
C’è una rosa per ogni ora del giorno



Il nero involucro della notte. Ripiega.
Nei cieli l’aurora incendia l’attimo del’ultimo sogno.
Appare lo scheletro bellissimo dell’ inesorabile giorno.
La luce stana infine i corpi degli invasi dalla follia del sangue
Viene un silenzio inciso nella pietra che annuncia il varcare di una soglia
Cieli di nubi e polveri e sterpi. Spettri di imprese a lungo tentate.



Ma il giorno quando sorge è il dio supremo
e generoso dona il suo vigore ai vecchi e stanchi rami
alle radici esauste
ai vasi costretti alle cortecce malate e decomposte
Come le amo
Come profumano per me di deliziosa ambra
Come è possibile che tu non pianga quando respiri?
Non ti fa male il cuore quando fa giorno?
E poi
non è forse il mattino di ogni giorno
che ci restituisce e ci rinnova
incoscienti e sani e innocenti?
E poi
Come le foglie
un grande bisogno di luce
che ci alimenti e trasformi
Oh! Metamorfosi attese e quotidiane
Quali simbiosi o simiglianze e osmosi
come non essere sposi fra tante radici e foglie e fiori?



e ogni mattina aprire la finestra e sentire il densissimo canto degli uccelli,
per poi accorgersi un giorno che anche gli alberi cantano e ridono
e sorridi perchè comprendi che lo sapevi da sempre
e ascoltavi la tua tristissima gioia salire dalle tue periferie
come una linfa abitare i luoghi delle tue perfette inesistenze
Ora sai che è solo a loro che puoi dire di quel comune fremere
di pelle e foglie di quel cangiante canto che ci ostiniamo a chiamare vento



Qui le albe sono azzurre bianche e umide
Alle cinque gli uccelli tutti vanno e tornano
la civetta rientra dal turno di notte
e saluta con il suo sibilo perfetto
Nell’acqua c’è una luce simile a quella di una stella
perfino quando è già mattina
perché i pozzi confondono il giorno con la notte
sommersi nell’umida penombra.
come noi attendono un scintillio soltanto
che ci mantenga vivi anche per sbaglio



Viene ogni notte l’uccello nerissmo con il suo volo
soffice e silente entra nei vapori metamorfici del fiume
e ne esce sotto forma di cespuglio bianco e fiorito
Canta la storia delle sue radici scandita dai cori
delle raganelle secondo il ritmo del ballo del richiamo.
Certe notti le acque si gonfiano fin su su al limite delle strade
come se il fiume insonne si rigirasse nel suo letto.
Manca una stella
e gli arcani invecchiati vagano cianciando
di un universo che non é più quello di una volta.



Si avvicina un giorno di foschie azzurrissime
e il tuo occhio chiaro è la cosa più bella
Medito sui nomi
entro in una pozzanghera di visi senza solchi
Qualcuno insiste nello stringermi la mano
Dimmi solo quello che mi disorienta gli dico
Dammi una cantilena nella mente per dormire all’aperto
Fa che ci sia acqua per tutti quelli che come noi vanno per deserti
per tutti quelli che sono morti come sono vissuti
senza domanda alcuna



gli uomini dovrebbero abitare con la discrezione dei fiori e allora sarebbe bellezza
e le anime certamente somiglierebbero a gocce d’acqua colorata sui petali tutti.
Saprebbero, uomini e animali, qual’ era il turno del canto e quello del silenzio
quindi non dire nulla, cerca solo di ascoltare ed essere



alla fine il vento vinse la sua battaglia serale
e la foglia cadde. Con la tremenda e irripetibile
lievità di foglia. Ma quella sera ella fu un viso
con le piccole rughe sulla fronte, gli zigomi ben alti;
La cicatrice lievissima dalla guancia all’orecchio
rieccheggiava la fatica lunga per essere ascoltati.
Il padre che era li seduto all’improvviso
disse guardando verso l’infinito:
Vedi solo la magnolia é una sposa perenne
resiste al tempo e al vento e non è nuda mai
T’incanta con il miracolo dei fiori
che hanno pelle da accarezzare
e profumo per inebriare



La civetta bianca torna dai suoi voli proficui e silenziosi
con un’ala tumefatta
si sistema le piume delle vesti perchè vuole volare
oltre la pagina
Un grande cammello azzurro riposa
sulla cenere pallida
Nella famiglia dei lupi si contano le assenze



il sangue ?

Che ne faremo di questo sangue uscito da un grido
cosi’ acuto da incrinare il ghiaccio sottile come vetro
Le fontane e le rose sono secche
come le vecchie donne nelle case
I vermi si sfregano le mani nelle pance dei caimani



mio dolce amore
non sono forse bianche piume di tutti gli icari sperduti
quei fiocchi di neve che vengono a tarda primavera
sui prati dei veggenti innamorati?



E’ inverno ora
E’ un inverno di nebbia e di ignoranza di dio
di che cos’è l’esperienza interiore dell’essenza
Quale è la mia



Nebbia fitta
contiene rumori
cancelli cardini uccelli
strumenti a corda e martelli
colpi che si rispondono
colpi e tonfi ma forse è bestiame
qualcuno canta come a bocca chiusa
o forse è il brontolio rassegnato di una mandria
sento le bocche mangiare a dozzine o forse centinaia
il respiro i respiri il ritmo di milioni di migliaia di mandibole e mascelle.
Quindi sono vivo



Indosso una nuvola ogni notte e parto.
Solo io mi dico addio solo io mi do il benvenuto.
Volo per sentirmi libera non perché ho paura.
Ritorno dal desiderio non dal fallimento
Prima di nascere pensavo di essere una massa liquida
Magica e abbondante.
Di avere dormito a lungo. Di avere vissuto a lungo
La mia costanza è il mare e la mia bussola è la tempesta
Che non indugia nè rallenta, semplicemente accade
e non mi abbandona



L’inverno poteva nevicarmi per tutta l’ estensione delle vene
la pazienza era in me come una cenere ancor tiepida
in tavola il pane era come se sapesse che era festa
e i miei occhi attendevano un refolo di vento
che sollevasse ancora la gonna di mia zia
Con la mano sinistra sapevo girare il miele della mia tasca
e avevo negli occhi un ambiguo filo d’ambra
Una lingua di garbino delle nostre paludi portava
una non detta voglia di partire



Camminavamo insieme sulla fantasia
di un isola risvegliata
e il primo sole col suo amorevole calore
veniva ad asciugare
i nostri umidissimi e ripetuti
amori vagabondi
sempre nasceva una rosa là dove
avevamo goduto
e io con le mani buie insisto
ancora a cercarla
ma quando la vedo vicina ecco che lei s’impallidisce
sfuma e poi svanisce



dove sono gli occhi degli anni?
stamattina mi sono svegliato e ho pensato per un istante che la stanza fosse in fiore
poi una cellula in fiamme poi una cosa che muta vestito con grandi abiti trasparenti
il soffitto è parte del collo ma dov’è ho pensato
la testa dell’anno in questo anno?
Dove sono gli occhi degli anni?
Resteremo umani?
Rallenteremo?
E di quanto?



Ma queste vite che aspirano solo a essere vissute
non sono forse più sacre?
Non sono forse i sensi i segni di un’ incrollabile fede?
invece ti rimane lo spazio per un insensato acutissimo grido
in questa città dove nessun ramo d’albero ti bussa alla finestra



Ho colpa se mi abbandono a questi momenti di pace?
In quanti ritagli marginali di città ci sono anime
e corpi abbandonati sotto il cielo
e tu possiedi una viva e preziosa solitudine
Ah! come è dolce navigare in questo cielo in questa serai
dove nei voli non c’è paura alcuna
poichè si ha diritto d’approdare nelle arie calme
quando si migra verso un altro tempo in cui non siamo esclusi
in cui esistiamo con la dolcezza ed il sapore del sentirsi vivi



Epilogo

Oggi celebro il mio matrimonio col silenzio e il mondo tutto si tace
Fibrilla il ronzio del contatore dei nati e dei morti.
Libero un grido che conservavo cucito nella gola
e mi lascio fare come un vecchio cucciolo animale

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