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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Essere e Anima

di Raffaele Sergi
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Pubblicato il 04/03/2018 03:01:40

Essere e Anima

 

I.

Imporsi un’annotazione giornaliera, un libro da leggere ogni giorno.

Lui è completamente privo di viso, possiede solo una smorfia. Se lo insulto posso comunque rendermi conto che ride.

In questa annotazione giornaliera ho cercato di provocargli dolore, di farlo sanguinare, di farlo morire.

Si aggrappa al mio corpo e mi graffia con le sue unghie affilate. Non è esatto dire che si difende o che cerca qualcosa in particolare. Se si comporta così è solo per farmi capire il suo modo di percepire la sofferenza. Io amo questo suo modo anche se non lo comprendo.

Tutto è cominciato quando gli dissi apertamente che non riuscivo a vedere il suo viso. Lui non lo sapeva. Era convinto di possederne uno tutto particolare. Bello addirittura. Ma ha cominciato a soffrire in quel modo con disinvoltura. Mi cercava continuamente, in qualunque situazione. Credo mi cerchi tuttora.

Ha reagito una volta sola: ha cercato di cavarmi gli occhi. Poi mi ha spiegato che lo ha fatto perché non voleva ch’io vedessi il nulla. Quel giorno gli spezzai due dita della mano destra. Da allora non sono mai più passato davanti a uno specchio e sono sempre uscito di casa senza guardare in quali condizioni fosse il mio aspetto esteriore.

L’imposizione di leggere un libro ogni giorno non è da considerarsi personale. È dovuta al fatto che Lui sa tutto. Ha memoria di tutto. Cerco sempre di essere superiore a Lui. Altrimenti non potrei fargli del male. Solo che io uso un metodo esclusivo di sapere, nel senso che parto da una formulazione esistenziale religiosa tutta mia. Gli causo sofferenza per devozione a Dio. Lui lo sa e mi perdona per questo. Io odio il suo perdono. È una ragione in più per fargli del male. Lui ride della mia presunzione e crede che io non me ne accorga.

Esigo da lui prestazioni sessuali ogni giorno. Non perché ne abbia voglia ma solo per il gusto di umiliarlo. Qualche volta gli accarezzo il pene per consolarlo. Ho paura che mi lasci solo. Eppure è una paura irrazionale: non potrebbe mai andare via. Sarebbe finito. Non sarebbe più niente.

Attorno a noi non c’è nessuno. Fuori dalla nostra casa è il deserto. Abbiamo voluto così entrambi.

Ritengo comunque di essere molto più efficace facendogli del male con le mie annotazioni giornaliere che con gesti o parole. Le parole vanno e vengono, ma gli scritti restano. Inoltre Lui legge sempre più volte quello che gli scrivo e ogni volta soffre in modo diverso.

Fino a poco tempo fa lo tenevo rinchiuso in una stanza vuota, con i muri imbottiti perché non si facesse del male. La stanza era tutta bianca. Da sotto la porta gli passavo i miei scritti. Oh quanto scrivevo! Per molto tempo andai avanti in questo modo. Lo spiavo senza che se ne accorgesse, mentre leggeva, poi fingevo di essere appena arrivato e gli parlavo pacatamente da dietro la porta.

Sotto un certo aspetto desideravo in quel modo che morisse, ciò nonostante prendevo tutte le precauzioni possibili perché questo non accadesse.

Sono cose passate. Lui si adatta sempre immediatamente. Io non comprendo mai il suo dolore, non ho un viso da guardare, delle espressioni che manifestino chiaramente questo dolore. Che soffre me ne accorgo da come si muove. Specie le gambe e il culo. 

 

II.

A un giudizio esterno è innegabile pensare che il mio fine è quello di ucciderlo. È la pura verità, ma tengo a freno questa intenzione. Ho paura al tempo stesso. Sarebbe come suicidarsi. Sono tentato dal suicidio.

Colpirlo con un gesto o uno scritto è come gettare un sasso dentro un abisso. O un fiore.

Dolore.

Non ho mai parlato a nessuno di Lui, come non ho mai parlato del mio dolore. Il mio dolore lo contiene Lui, completamente. Per questo non so chi sono. Penso di essere nient’altro che una forma esteriore, sebbene un essere razionale. È il motivo per cui rifiuto gli specchi. Del resto credo che lo specchio rifiuterebbe me. Lui è la mia immagine. Può esserlo soltanto Lui. Quando ho voglia di vedermi o di portarmi al dito ho solo da guardarlo. Quando voglio sentirmi vivo devo solo fargli del male.

L’unica cosa che mi angoscia è il fatto di non vedere chiaramente le sue sofferenze. Da parte sua la cosa è differente. A Lui non resta che sforzarsi di farsi comprendere.

Mi ferisce amaramente. Mi rendo conto che non mi appartiene. Che non mi appartengo. È indifferente la mia superiorità su Lui perché non ne comprendo il silenzio. Tutto si risolve con ciò che sta in superficie che è in continuo contrasto col mio mondo interiore. Col nostro mondo interiore.

Se lo insulto posso accorgermi che ride, anche se non ha viso. È questa la cosa che meno sopporto.

Ride. Sa perfettamente che alla superficie rimane immobile. A me non è possibile conciliare questa superficie col mio Essere, né col mondo esterno. In questo caso, o in tutti i casi, il mondo esterno è lui. Entrambi cerchiamo una chiave adatta per appropriarcene. Ride. Diventa la parodia della morte, il negativo contrapposto al positivo. È il giogo a cui sono legato dal principio alla fine e non vuole essere mistero né evidenza né una questione intima. Lui può colpire l’aria, ribellandosi e scalciando senza sosta, oppure amare la superficie. Il mio Essere subisce questo o tutt’al più ne ricava una falsa vittoria.

Però sotto questo aspetto Lui è inferiore a me. Io posso sempre trovare una via d’uscita. Posso salire sulla mia bella automobile e recarmi in città. Anche questo può essere sufficiente per fargli assaporare quel frammento di esistenza e dolore che ci tiene vincolati.

Adesso cammina nella mia casa come un fantasma.

A volte lo sorprendo frugare nei miei cassetti. Cerca le sue fotografie. In casa feci sparire tutti gli specchi il giorno stesso della sua reazione. Non può dimostrare di possedere un volto. Le fotografie le ho bruciate, sia le mie che le sue. E senza di esse è finito, non ha più niente da dimostrare. Spesso devo sottostare alla sua rabbia, mi tocca parlare per delle ore per calmarlo e farlo smettere di piangere. Sono momenti fatali. Sono momenti in cui il suo comportamento muta in modo notevole. Non si sottomette.

Finisco col ricacciarlo nella stanza. La stanza è una punizione terribile per Lui, probabilmente per il fatto che viene privato dei libri. In questo modo io non sono più costretto a leggere. Teme la stanza anche a causa del ricordo della sua lunga permanenza al suo interno. A volte è sufficiente nominarla per vederlo strisciare ai miei piedi. D’altra parte durante le sue crisi sono costretto a rinchiuderlo. Altrimenti, credo, si ucciderebbe. 

 

III. 

Accade l’incomprensibile. Entro nella stanza e scopro che è scomparso. Lo cerco, percorro in lungo e in largo la casa. Mi domando come ha fatto a uscire. È impossibile: la stanza era chiusa a chiave, la chiave è nella mia mano. E dove ha trovato uno specchio da mettere al suo posto? Salgo sulla mia bella automobile e vado in città. Lo cerco nella folla. Cerco il suo viso. 

 

IV. 

Non ho idea di dove io sia. Mi sono svegliato, attorno a me è tutto buio. Non un suono, non un rumore. Non oso emettere un solo suono io stesso. Temo di non intendere neanche la mia voce. Non ho idea di dove io sia. Non distinguo oggetti. Se penso per un momento alla giornata di ieri, soltanto e unicamente alla giornata di ieri, mi convinco che niente di anormale mi ha influenzato e sono certo, inoltre, di aver trascorso il mio tempo come di consueto, quindi non comprendo perché adesso mi debba trovare qui. Forse mi sono solo svegliato nella notte. Eppure non sono nella mia stanza. Non sono nel mio giaciglio e la temperatura non è quella che sono abituato a sentire. Fa freddo. Fa tremendamente freddo. Inoltre, nella mia stanza, ogni volta che mi sveglio nella notte, vedo sempre qualche luce, un chiarore dalla finestra, i fari della sua bella automobile, la luce riflessa della luna, o qualcos’altro. Ora non intravedo nessuna di queste luci, non sento i rumori che sono abituato a sentire. Né l’abbaiare dei cani né il canto degli uccelli né i rumori di Lui. E la finestra non esiste. Non distinguo le pareti della stanza. È buio. Cerco un interruttore della luce, qualcosa che mi riporti alla realtà. Sento di non essere nella stanza. Non sono nel letto. Sono sdraiato sul suolo. Il suolo è freddo. Non è un pavimento. È una pietra dura, ruvida. Non sento alcun rumore. Un silenzio assoluto. Provo a parlare. La mia voce si perde nel vuoto. Si fa lontana. Rinuncio. Vorrei gridare, ma non ci riesco. Sono sdraiato sul suolo e non sento l’esigenza di muovermi. Sicuramente tutto finirà. Lui aprirà la porta e dirà: “Ben svegliato!” Io mi accorgerò di aver avuto un incubo. Non so quanto tempo è passato. Se un’ora o un giorno. Tutto questo non ha le caratteristiche del sogno. Non ho mai sognato in questo modo. I miei sogni sono sempre stati brevi e precisi. Anche un incubo ha sempre avuto una forma precisa e nel momento stesso che lo vivevo capivo cosa in particolare mi spaventava. Un incubo non ha mai avuto un tempo inteso in questo modo. Tocco il mio corpo. Mi tasto il braccio. Non sono vestito. Devo essere nudo, ma non sento il contatto della mia pelle. I miei organi sono atrofizzati. Sento un formicolio in tutto il corpo. Non riesco a muovermi come vorrei. Sento il desiderio di gridare ma sentire la mia voce che si perde nel vuoto, nel nulla assoluto, mi sgomenta. Non ho mai sentito così la mia voce. L’ho sempre sentita dall’interno. Ora la sento come potrebbe sentirla un altro, forse. La intendo diversa. E m’impressiona. Mi sono alzato. È come essersi slanciati in alto, in equilibrio su un filo. Come se sotto me ci fosse un abisso. Cammino. Sfioro con la mano qualcosa di solido. Un muro. Quindi sono chiuso da qualche parte, sono prigioniero di qualcuno o di qualcosa. Sono fra delle pareti. Seguo il muro con la mano per capire le dimensioni del luogo. Il muro sembra infinito. Cammino. Non ci sono angoli. Sono dentro un cerchio. Non ne sono sicuro. Forse la parete è molto lunga, estesa. Non so dire se mi muovo a cerchio o percorro una retta. Devo essermi allontanato molto dal punto in cui mi trovavo. Guardo in alto. Vedo solo buio. Forse è notte. Forse basta attendere il giorno e vedrò la luce comparire da un punto impreciso e il mio luogo sarà rischiarato. Potrò distinguere le cose. Sono esausto.

 

V.

Per quale motivo sono qui? Qualcuno mi tiene prigioniero? Verranno a liberarmi, sicuramente. Devo solo aspettare. Sento il bisogno di fumare, il bisogno di sentire qualcosa scendere nella gola. Può darsi ch’io sia rinchiuso in un sotterraneo. Forse un pozzo. O forse una torre. Non riesco a capire. Tutto tornerà normale. Potrò rivivere. Penso di essere ancora vivo. Mi sembra di aver sentito un rumore. Acqua. Forse sotto di me c’è acqua. Un rumore. O una voce. Quanto tempo è passato? Devo comprendere. Ieri ero in casa come ogni giorno. Sono entrato nella stanza e mi sono coricato. Vestito. Non ho letto nulla. Ero stanco. È notte, devo pensare che è notte. Mi addormenterò di nuovo e mi sveglierò normalmente. Certo: devo pensare che mi sveglierò come sempre. Del resto domattina ho molte cose da fare, molti impegni. Devo sbrigare le mie faccende. Dovrò essere riposato. Non posso restare qui in eterno. Non riesco a pensare. Avevo un orologio al polso. Non ho più niente. E se questa fosse la morte? Sarebbe orribile! Verranno a liberarmi. Qualcuno o qualcosa mi libererà. Voglio dormire e non pensare. Essere luce. Eterna luce!


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