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Contro la spesa a Chilometri zero

Argomento: Alimentazione

Articolo di Dario Bressanini 

Proposta di Giuliano Brenna »

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Pubblicato il 11/05/2008


Nel corso degli anni è notevolmente cambiato il modo di produrre e di distribuire il cibo, dal campo o allevamento fino alla nostra tavola. I fenomeni più vistosi sono stati la globalizzazione dell’industria alimentare, l’incremento dell’import/export di alimenti e materie prime, la concentrazione di grandi produttori a scapito dei piccoli, l’aumento di grandi punti vendita centralizzati e la diminuzione del numero dei piccoli negozi con il conseguente aumento di grandi autoveicoli per il trasporto di generi alimentari. Se 60 anni fa i cibi percorrevano solo pochi chilometri, dalla produzione alla padella, ora possono viaggiare per centinaia o migliaia di chilometri prima di finire in pancia. E’ indubbio che questi cambiamenti abbiano un impatto ambientale: sul traffico, sulle emissioni di CO2 e di smog, sul consumo energetico e così via. Appare tuttavia molto più difficile trovare un modo semplice per valutare quantitativamente questo impatto.
Recentemente ha cominciato a diffondersi l’uso dei “chilometri percorsi” dal cibo (i food miles nel mondo anglosassone, che potremmo anche tradurre com chilometri alimentari) come indice per misurare l’impatto ambientale. La semplice logica dietro questo concetto è che più un alimento ha viaggiato, più energia ha consumato, più combustibili fossili ha bruciato, più gas serra ha emesso (ricordo che i gas serra includono l’anidride carbonica, il metano e altri gas) e quindi più alto è l’impatto ambientale e meno il cibo è ecologicamente sostenibile.
Studi recenti però mostrano che le cose non sono così semplici e che i chilometri percorsi non sono un indicatore sensato dell’impatto ambientale e della sua sostenibilità.
Recentemente il DEFRA, il ministero dell’ambiente e dell’agricoltura britannico, ha commissionato uno studio per verificare l’utilità del food mile come indice di sostenibilità ambientale, arrivando alla conclusione che un indicatore basato solo sullo spazio percorso non può essere una misura attendibile dell’impatto ambientale totale, per molteplici motivi. Una delle difficoltà risiede nel fatto che circa la metà del chilometraggio percorso, il 48%, è attribuibile al compratore. Da questo punto di vista è ecologicamente preferibile acquistare i prodotti in un supermercato centralizzato che non effettuare vari viaggi in negozi più piccoli. In più la grande distribuzione, continua il rapporto britannico, trasporta in modo più efficiente le merci, utilizzando meno autoveicoli pesanti al posto di un numero più elevato di veicoli più piccoli meno efficienti che verrebbero utilizzati da un sistema distributivo non centralizzato.
Mele e agnelli dal nuovo mondo
Helman Schlich e Ulla Fleissner, dell’Università di Giessen, si sono invece occupati di ecologia di scala, analizzando il costo energetico totale per produrre e portare della carne d’agnello nella cucina di una casa tedesca, confrontando agnelli allevati in Nuova Zelanda, macellati e spediti surgelati in germania, con agnelli allevati vicino a casa. Circa il 60% della carne di agnello consumata in germania proviene dalla Nuova Zelanda, mentre il restante è prodotto localmente. L’ipotesi che un cibo locale richieda sempre meno energia totale di un cibo importato è risultata falsa. E’ stata invece trovata una correlazione tra le dimensioni dell’azienda e il consumo energetico: aziende piccole sono meno efficienti dal punto di vista energetico, e questo si riflette sul prodotto finale. Nonostante gli oceani di mezzo per il trasporto via nave, serve meno energia per produrre carne d’agnello in una grande fattoria neozelandese e portarla via nave ad Amburgo, che produrla in una piccola fattoria in Germania. Oltre alle ecologie di scala si deve anche considerare il diverso ambiente: in germania gli agnelli devono essere tenuto al coperto, riscaldati e nutriti con mangimi per almeno cinque mesi, con un costo energetico che invece è molto ridotto in Nuova Zelanda per il diverso clima e territorio.
Nel caso delle mele consumate a marzo invece, sostiene un studio di Michael Blanke e Bernhard Burdick, quelle locali tedesche battono, ecologicamente parlando, quelle importate dalla Nuova Zelanda, ma molto meno di quanto ci si aspetti considerando semplicemente i chilometri percorsi, visto che le mele tedesche devono comunque sostare cinque mesi in depositi ad atmosfera controllata e a 1 °C. Se invece confrontiamo mele importate da paesi diversi, a seconda del mese dell’anno considerato, può essere energeticamente meno costoso, per un tedesco, acquistare mele dalla Nuova Zelanda che non mele da altri paesi europei, per via del trasporto su strada.
Discorso simile per le cipolle: se siete in Inghilterra in alcuni mesi dell’anno farle arrivare dalla Nuova Zelanda è un comportamento CO2 friendly, rispetto all’acquisto di cipolle britanniche.
La stagionalità è importante, ma questo non è certo una novità, anche se ormai, abituati a trovare nei supermercati fragole e pomodori 12 mesi l’anno, non ricordiamo più qual è il mese dei porri e quello del radicchio. Se comperate pomodori a febbraio (e non mi dite che non lo fate) anche se sono prodotti a due passi da casa e li acquistate in un Farmer’s market, sono cresciuti in serre riscaldate e illuminate artificialmente, e quindi hanno richiesto più energia di analoghi pomodori coltivati in sud Africa.
Intendiamoci, non voglio minimamente suggerire che è sempre meglio la spesa a 10.000 km, sarebbe altrettanto assurdo. Se avrete voglia di leggervi la bibliografia ovviamente troverete molti casi in cui la fragola local “consuma meno” di quella global. Il punto importante però è che questo non è necessariamente vero, e che comunque conteggiare semplicemente i chilometri non fornisce un’idea dell’impatto ambientale reale. Il calcolo completo, dal “forcone alla forchetta” è spesso molto complicato perché si tratta di stimare metodi di produzione molto diversi, calcolare le spese energetiche per l’aratura, per la semina, per il raccolto, la quantità e il tipo di pesticidi utilizzati, il trasporto, lo stoccaggio e così via.
I Farmer’s Market
I cosiddetti “Farmer’s market” (ma non potevano chiamarli all’italiana???) sono mercati dove l’agricoltore incontra direttamente il consumatore. Anche in Italia cominciano a prendere piede. Ci andate perché la spesa costa meno? Benissimo. Ci andate perché trovate che la qualità sia migliore che al supermercato? Perfetto. Ma se ci andate perché pensate che sia ecologicamente più sostenibile che comperare frutta e verdura Egiziana o Cilena, ricordatevi dell’Ecologia di Scala: un piccolo produttore è spesso più inefficiente dal punto di vista energetico. In più pensate che uno studio del 2007 ha calcolato che se fate 10 km in macchina per andare a comperare solamente 1 kg di verdura, generate più CO2 che non facendola arrivare direttamente dal Kenya. Ancora una volta, i consumi energetici individuali, o la produzione di CO2, possono essere superiori a quelli per portare i prodotti sino ai mercati.
Se vogliamo estremizzare il concetto, giusto per mostrare quanto sia poco sensato porre l’efficienza energetica sopra ogni altra considerazione, considerando il percorso di un alimento “dal forcone alla forchetta”, non possiamo certo escludere il modo con cui viene cucinato (è un blog di cucina scientifica questo, no? ). Questi calcoli sono stati fatti da dei ricercatori svedesi che hanno calcolato le richieste energetiche di una serie di ortaggi: produrre un 1kg di pomodori in Svezia (in serra ovviamente) costa 66 MJ/Kg mentre importarli dalla spagna “solo” 5.4 Mj/Kg. Far arrivare Fragole via aerea dal Medio Oriente 29 MJ/Kg, esattamente come cucinare al forno delle patate svedesi a Km 0. Se invece le patate vi rassegnate a bollirle e vi scordate il profumino delle patate arrosto allora consumate totalmente solo 4.7 MJ/kg.
Insomma, per l’ambiente è meglio mangiare fragole fresche arrivate via aerea che patate locali fatte arrosto.
Se il confronto vi sembra ridicolo avete perfettamente ragione, ma perché è assurdo il punto di partenza.
Ma perché le biciclette no?
Fin qui gli studi. Permettetemi ora qualche considerazione personale: ma perché c’è tutto questo parlare di “chilometri zero” per il cibo e non per, chennesò, l’acquisto di una bicicletta, o di un vestito, di un paio di scarpe o di un detersivo, o un mazzo di rose? Si dirà che mangiamo ogni giorno, ma non acquistiamo una bicicletta tutti i giorni. Vero. Ma è anche vero che acquistiamo beni di consumo tutti i giorni. Se davvero uno crede (perché di ‘fede’ si sta parlando, stante i rapporti che vi ho illustrato) nel “km 0” mi aspetto che applichi questa ricetta a tutti gli acquisti, non solo a quelli più comodi. Ho qualche dubbio che questo succeda realmente. Ho invece il sospetto che il km 0 vada bene sino a quando si tratta semplicemente di cambiare bancone da cui prendere la stessa tipologia di prodotto. Tutto sommato costa poca fatica…
Quando però a parlare di chilometri percorsi sono organizzazioni come la Coldiretti, o Slow Food, che, giustamente, promuovono i prodotti DOP e tutto quello che di buono l’Italia agroalimentare produce, ecco, mi sembra una contraddizione. Forse che il Lardo di Colonnata posso mangiarlo solo a Colonnata? La Cipolla di Tropea solo a Tropea? Non contano questi come chilometri? Che senso ha tuonare contro il vino (per altro ottimo) importato dall’Australia e poi compiacersi per le vendite di vino Italiano negli USA? Ci vanno a nuoto le bottiglie a New York? Per non parlare di frutta e verdura: l’Italia è un paese esportatore, e una mela Italiana acquistata a Londra non è certo a “miglia zero”. Slow Food esalta il “formaggio a km 0” ma allo stesso tempo promuove, giustamente, il pecorino siciliano D.O.P.
La O di D.O.P. sta per Origine, e se io, in quel di Como, acquisto questo pecorino (per altro una delizia, con sopra un poco di gelatina al malvasia! ) lo mangio in spregio al chilometraggio percorso. E, no! non ho il minimo senso di colpa
Insomma, un po’ di coerenza! Mi dispiace, ma sento puzza di protezionismo, da un lato, e “ideologia spicciola” dall’altro (e certi argomenti andrebbero esclusi da un dibattito che è, alla radice, di natura scientifica ed economica)
Think Global Eat Global?
Tra l’altro, vedendo le cose da un punto di vista globale, la cosa ha ancora meno senso. Ad esempio, consideriamo la UE e il consumo di frutta e verdura fresca: attualmente solamente i cittadini Italiani e Greci consumano, a testa, più della quantità minima prescritta dall’organizzazione mondiale della sanità (WHO) di frutta e verdura (400 grammi al giorno).
Tutti gli altri paesi dell’UE sono sotto il minimo suggerito dalla WHO per una dieta sana (l’Irlanda è il fanalino di coda). Se i consumi di frutta e verdura aumenteranno, come spera la WHO, necessariamente aumenteranno le importazioni di frutta da paesi extra-UE perché la produzione interna non è in grado di soddisfare le eventuali richieste. E quindi aumenteranno le importazioni dai paesi in via di sviluppo, principalmente dall’Africa e dal Sud America.
Ad esempio, se la Gran Bretagna dovesse raggiungere il minimo richiesto dall’organizzazione mondiale della sanità, le sue importazioni di frutta e verdura fresca dall’Africa aumenteranno a 985.000 milioni di tonnellate, con un aumento delle emissioni di 960.000 tonnellate di CO2 emessa. L’alternativa, coltivare tutto in Gran Bretagna, semplicemente non è possibile. E se lo fosse, nelle serre ovviamente, porterebbe ad emissioni e consumi energetici ancora ancora maggiori. Capite come non abbia senso parlare solamente di emissioni di CO2 ed energia ? Come minimo in questo caso dovremmo anche considerare la diminuzione di malattie dovute ad una migliore dieta. Un sano approccio costi/benefici. Lo stesso che in Italia NON si utilizza per discutere di OGM, di energia nucleare, di pannelli solari, di agricoltura biologica, di inceneritori e così via…
L’obbligo morale di mangiare fragole africane a Natale
Un altro argomento contro la “spesa a km 0” a tutti i costi è quello che, oltre a essere poco veritiera dal punto di vista energetico, trascura completamente gli aspetti socioeconomici e le implicazioni sul commercio estero per i paesi in via di sviluppo e sulla vita dei loro cittadini. Negli ultimi anni infatti molti di questi paesi, specialmente africani, sono diventati esportatori di frutta e verdura fresca, spesso spedita per via aerea in Europa. E non sto parlando del mercato di nicchia “equo e solidale”, ma di una vera e propria industria. Secondo un recente rapporto della Lincoln University il sostentamento di almeno un milione di Africani dipende dalle esportazioni di frutta fresca verso la sola Gran Bretagna. Come si può predicare il consumo di prodotti locali e allo stesso tempo, un bancone del supermercato più in là, trovare i prodotti “Equi e Solidali” o facendo arrivare i fagiolini in aereo dal Burkina Faso? C’è la CO2 buona e quella cattiva?
Non a caso l’organizzazione internazionale Oxfam che combatte la povertà nei paesi poveri e in via di sviluppo, in un comunicato stampa dice
Oxfam oggi richiama i consumatori a non cadere nell’illusione dei food miles, che promettono di salvare il pianeta ma minacciano di peggiorare la vita di migliaia di poveri agricoltori in tutto il mondo
La mia personale impressione è che in realtà lo slogan della spesa a km 0, nonostante abbia poco senso economico e scientifico, sia destinato a rimanere tra noi ancora per un po’, per il semplice fatto che viene utilizzato come strumento di marketing e di promozione commerciale. Detto brutalmente, si vuole vendere non solo un pomodoro prodotto localmente, ma anche l’idea che in questo modo state “salvando il mondo” (indipendentemente dal fatto che sia vero o meno), approfittando del fatto che su una fascia di consumatori “attenti” questi messaggi fanno presa.
Insomma, se comperate cibo prodotto vicino a voi (e io lo faccio: ottimi ad esempio i distributori di latte crudo), fatelo perché è di buona qualità ed ha un buon prezzo, poiché i benefici per l’ambiente sono tutt’altro che dimostrati e, anzi, potrebbero anche essere inferiori a quelli ottenibili acquistando cibi prodotti a migliaia di chilometri di distanza. in mancanza di altre informazioni, privilegiate il giusto rapporto qualità/prezzo.
Dario Bressanini

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