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Forza

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 30/11/2018 13:35:01



FORZA

Una porzione di casa, i muri scrostati, tagliati ai piedi dalla lana di vetro. La chioma d’un tiglio che sbatte contro la finestra al primo piano. Di fianco, il capannone con gli attrezzi che si guardano dalla porta a vetri.
L’ha messa in vendita la casa dei suoi genitori. Non possono più abitarvi: le loro stanche membra hanno bisogno di essere accudite per tante ore al giorno.
Lei lavora ancora. Agli sportelli. Dice che i giovani non sanno compilare una raccomandata. Forse fanno apposta a chiedere, da sfrontati. Lei è ancora bella: ha gli occhi verdi e i capelli neri e una pelle così liscia che quando dice l’età pensi che ti prenda in giro.
Lei evita di usare il computer quando non è al lavoro. Le fa male alla vista. Ma non desidera parlarne. Sa quanto vale l’importanza del sorriso. Non vuole adombrare la faccia.
È una donna tenace che non si arrende. Conosce la compagnia del silenzio. Sa tacere e aspettare.
Le sue vicissitudini dicono quanto sia forte.
Ha chiesto all’amica di accompagnarla lungo il portico a scalinate che prende avvio da porta Saragozza. Una giornata qualunque.
All’amica sarebbe piaciuto imbattersi nei gruppi di suore o di preti o di laici diretti al santuario. Immaginava un viavai continuo. Invece venivano loro incontro il silenzio e l’assenza. Che significavano meditazione personale ma anche sperdimento.
Rievocare la storia dell’edificio, scambiare impressioni sul senso del vivere, rinsaldare un’amicizia non era poco. Ma allora aspettavano di più, non riuscivano a dare importanza alle cose, come nell’età matura quando il tempo stringe con le sue urgenze.
Erano e si sentivano due esserini minuscoli sotto le volte in cotto, dirette a un luogo di devozione per adempiere una promessa, ricavare sollievo.
Dentro l’edificio si tolsero le scarpe appoggiando sotto il banco i piedi nudi al pavimento. Ognuna pregò.
Poi, guardarono dal belvedere le colline immerse nella foschia calda di luglio.
La funivia non c’era più. Invece si faceva sentire il solito traffico convulso di pullman e macchine che salivano e irrompevano nel parcheggio.
Per l’amica, quell’atto di devozione si accompagnò al senso della solitudine. La stessa percepita in chiesa quando vedeva i visi delle persone che tornavano dalla comunione mentre il coro cantava “Io t’amo, io t’amo, t’amo Gesù”.
La stessa che connota il lavoro di lei tra le quattro mura dell’ufficio. Lei cerca di non prestarvi ascolto potenziando il suono delle parole per gli utenti allo sportello.
Lei insegna perché riempie le sue ore di forza e dinamismo: l’amica ha capito che il suo agire non potrà sgonfiarsi facilmente e che non vorrà mai farsi tentare dal sonno.



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