Pubblicato il 17/07/2015 17:34:42
“LA SCATOLA DEI SOGNI” – parte seconda
DAL ‘WEST END’ LONDINESE A ‘BROADWAY’ NEWYORKESE SULLA SCENA DEL GRANDE MUSICAL. Sebbene il ‘successo’ altro non sia che un effimero legato alla genialità di pochi individui capaci di mettere a frutto la propria creatività ed il personale impegno, allora quel ‘pizzico di follia’ che talvolta ci coglie, va necessariamente attribuito a quel che pure alimenta la nostra gioia di vivere e che ci concede quell’affermazione che, in un campo o in un altro, abbiamo fortemente desiderato o, quantomeno, elargendoci un dono inaspettato della cieca fortuna. Che ben venga dunque parlare di ‘successo’ come di un’emozione procurata da un sentimento come l’amore per ciò che si fa. Allora l’amore che cos’è? Null’altro che la moneta di scambio che permette a ognuno di “poter fermare la pioggia o di cambiare il flusso della marea”, o forse nulla di tutto questo e, al tempo stesso, la migliore dimensione possibile di noi medesimi, la cui ricerca è di per sé già un clamoroso ‘successo’. È in questa dimensione, allo stesso modo anticonformista e rivoluzionaria di qualsiasi schema si voglia qui attribuirgli, che vedremo orientarsi le attuali produzioni teatrali dal West End londinese ai palcoscenici della newyorkese Broadway, qui volutamente non distinguibili l’una dall’altra. Bensì accomunate dalla stessa grande qualità organizzativa, produttiva e registica che vede inoltre un numero esorbitante di maestranze altamente qualificate, tra cui sceneggiatori, musicisti, coreografi, scenografi, tecnici di scena, maestri di trucco e parrucco, in alcuni casi prestati dal cinema e viceversa, che hanno raggiunto fama internazionale. Una gara interessante dunque tra due centri di produzione dello show-business (buz) che hanno fatto del Musical un ‘mestiere’ qualificato e qualificante di dimensioni stratosferiche, che ogni anno offre lavoro a migliaia di nuovi e giovani talenti, fra attori, ballerini,secondi e terzi ruoli, tutti animati dal desiderio di raggiungere quel ‘successo’ sul quale hanno ampiamente fantasticato. Tuttavia, credetemi, non è affatto una coincidenza se, per così dire ‘a fare il teatro’ siano invece loro, i grandi finanziatori, magnati del dollaro e della sterlina che, investendo su questo o su quello ‘spettacolo’ in un gioco vorticoso di interessi, decretano il ‘successo’ di certe mega-produzioni, contrassegnate fin dall’inizio, dalla ricerca affannosa di nuovi e capaci talenti, le maestranze migliori, i nomi più prestigiosi fra compositori e arrangiatori musicali, produttori e registi, art-director e casting-review, scenografi e sceneggiatori, tecnici e architetti delle luci, visagisti e parrucchieri che operano nell’ombra dello show-business e che curano l’intera produzione della ‘grande macchina’ del Musical. Per quanto il ‘successo’ non sia poi sempre così scontato, molto dipende dal divertimento offerto al pubblico, dagli attori più o meno bravi che vi prendono parte, dal nome del coreografo che cura i numeri di ballo, dal maestro concertista e dal direttore d’orchestra. Ciò nonostante va detto che una siffatta forma di spettacolo non scaturisce dal nulla. È infatti noto che la forma più composita ed eterogenea del Musical ha nel tempo adattato alle proprie necessità produttive, le bizzarrie delle mode che, a loro volta, si sono susseguite nelle società industrializzate e meccanizzate. Utilizzando a sua volta la letteratura popolare e quella aulica, la musica classica e quella tradizionale, l’operetta a lieto fine e la ‘light-opera’. Giungendo fino a scandagliare nelle pagine del jazz fino al rock e oltre, con la pretesa che tutto quanto fa spettacolo potesse entrare a far parte dello show-business sempre alla ricerca affannosa del ‘successo per il successo’. E che successo!, se solo si pensa ai costi e ai ricavi che comunque consta di milioni di dollari di investimento. Il Musical quindi come quint’essenza di una vita attiva che, in ognuna delle due città citate, contrassegna un costante fermento di idee, di maestranze, di corpi e di volti in cui l’illusione dorata di entrare in una ‘scatola dei sogni’ che si apre al mondo finisce per essere realizzata in pieno. E non senza quel ‘pizzico di follia’ che per la durata di due ore o poco più, trova la sua più grande affermazione nel meraviglioso ‘abbraccio’ con la gente, giovani e vecchi d’ogni età. Scenografie sfarzose dai colori squillanti, giochi di luci sfavillanti, musiche e canzoni accattivanti che fanno a gara con l’eleganza della moda e le qualità interpretative di attori/attrici di un certo richiamo, sono la cornice edulcorata di quel ‘successo’ che da sempre arride a uno stuolo di musicisti virtuosi, presentatori, showman e showgirl, cantanti e ballerini, circensi e donne favolose che ogni sera attendono l’applauso del pubblico. È così che il West End nel cuore di Londra e la favolosa Broadway a New York aprono il sipario dello ‘show-business’, con le sue scenografie da favola, le coreografie scintillanti, le musiche effervescenti, le scritte luminose multicolori che si rincorrono sui cartelloni pubblicitari, il carosello dei taxi che scaricano il folto pubblico davanti alle entrate dei teatri per assistere al più grande spettacolo di sempre, il più sensazionale degli spettacoli, il così detto ‘Musical!’. Cambiano i tempi e i luoghi, i costumi e le mode, i personaggi, le musiche e i ritmi che di volta in volta accompagnano le emozioni e le passioni umane; ora trasformati in canzoni di successo, in numeri coreografici di particolare pregio; ora in esibizioni di un qualche virtuosismo strumentale che hanno il solo scopo di sottolineare, esaltandoli, quelli che sono i momenti ‘clou’ di ogni rappresentazione. Nonché dare forma a quei leit-motiv dai risvolti sentimentali, per questo straordinari, che insieme compongono l’anima del Musical. È qui che si rappresentano i ‘drammi’ e le ‘favole belle’ del tempo, con gli amori, gli affetti, le passioni, le pulsioni sessuali in cui si disciolgono i sentimenti, con il fine ultimo dello svago, dell’intrattenimento, dello ‘spettacolo per lo spettacolo’, onde per cui citare solo alcuni e trascurarne altri può sembrare anacronistico, come pure non è opportuno tirare in ballo statistiche di alcun genere. Purtroppo una scelta andava comunque fatta, se non altro per un problema di ‘pagine’ possibili da occupare ma a un’arida elencazione ho preferito citare solo alcuni titoli rappresentativi di altrettanti Musical di successo. Qualcuno di voi lettori si starà chiedendo se per il piacere di un romantico revival o semplicemente per senile nostalgia? Nulla di tutto ciò. Immagino basterà qui ricordare alcune delle musiche e delle canzoni famose che di volta in volta hanno fatto il giro del mondo per rendervi conto del ‘successo’ che il Musical (vero e proprio) ormai da qualche anno sta ottenendo anche in Italia. Successo che è mia intenzione argomentare in altro luogo da questo, con articoli mirati sulla ‘Rivista’ e sullo spettacolo musicale più in generale che anche da noi si compone di tanti nomi prestigiosi, una lista traboccante di stelle, più brillanti di quelle del firmamento che s’accendono ogni sera sui palcoscenici del mondo. Fra i numerosi musical andati in scena nel West End londinese dall’inizio del ‘900, solo pochissimi sono quelli ripresi all’epoca dal cinematografo nascente e sopravvissuti alla dimenticanza del tempo. Tra questi va qui citato l’ormai celeberrimo “No, no Nanette” (1925) il musical di Youmans - Harbac - Caesar che segnò il passaggio dall’Operetta propriamente detta al Musical, il cui successo mi permette qui di ripercorrere alcune importanti tappe della sua storia. “Tea for two”, (“Tè per due”) è indubbiamente il brano più conosciuto, ma non il solo. Molte altre sono però le canzoni rimaste di quegli spettacoli che pure hanno conservata intatta tutta la verve e la freschezza che le animava, nonché lo charm del tempo, e forse per qualcuno anche una certa superficialità che nell’allegrezza generale alludeva a una qualche forma di felicità. Sempre da “No, no Nanette” ricordiamo “I want to be happy with you” la cui interpretazione di (Irving Caesar e Otto Harbach) rimarrà per sempre nella storia del ‘grande’ Musical di quei tempi, ahimè assai lontani. Ma nulla è lecito rimpiangere se lasciamo libera la fantasia e, facendo un passo indietro, apriamo le orecchie all’ascolto di “Alice Blue Gown” tratta da “Irene” (1919), una felice commedia brillante di Joseph McCarthy e musiche di Harry Tierney, cantata da Edith Day interprete della ‘prima’ messa in scena. O di quel “La canzone del deserto” (1926) dal musical omonimo di Otto Harbac e Oscar Hammerstein sulla musica di Sigmund Romberg. Né deve meravigliare se nello stesso anno “Show Boat” (1927) un ‘kolossal’ del Musical americano andato in scema a Broadway sbarca nel West End sulle rive del Tamigi e ottiene uno successo strepitoso da mandare in visibilio critici e pubblico per il suo allestimento scenografico e coreutico, con le straordinarie musiche di Kern e le canzoni di Hammerstein II°, basato sul romanzo di Edna Feber. Così il critico Alfred Swan si espresse dopo la prima: “Il musical presenta personaggi assolutamente credibili e appassionanti in una vicenda seria e commovente, ambientata in luoghi pittoreschi, e tutto trova nell’andamento e nei versi e della musica una risonanza melodica perfetta”. “Old man river” è solo una delle canzoni che va qui ricordata per la sublime interpretazione di Paul Robeson. La ‘storia’ (in breve) narra di un giocatore d’azzardo che unitosi a una compagnia teatrale in viaggio su un battello in navigazione lungo il Mississippi, s’innamora della primadonna e dopo alcune peripezie, infine la sposa, dando così una svolta onorevole alla sua vita. Ripreso una prima volta per il cinema dallo stesso Ziegfeld nel 1929, venne in seguito filmato nel 1951 e diretto da George Sidney per la MGM, con la partecipazione di splendidi attori quali Howard Keel, Kathrin Greyson e Ava Gardner, mentre le coreografie erano dell’ormai già noto Robert Alton. Innovativo e unico nel suo genere “Pal Joey” (1940) di Rodgers & Hart, con la famosa canzone di successo “Zip”, si pone a capostipite del cambiamento portando in scena aspetti della vita privata di una società decisamente rinnovata, la cui formula stravolge gli schemi tradizionali del Musical. A seguire “South Pacific” (1949) di Rodgers e Hammerstein, da cui la popolare “Bloody Mary”, che ottenne il Premio Pulitzer per la sua componente drammatica. E finalmente “Guys and Dolls” (1950), di Frank Loeser e Joe Scorling che, per la prima volta portò in scena aspetti della malavita newyorchese, vista attraverso l’ottica del reportage di cronaca. Qualcuno immagino ricorderà più facilmente la versione cinematografica titolata “Bulli e Pupe” interpretato da Frank Sinatra, Marlon Brando e l’allora giovane ma già bellissima Jean Simmons. Ancora di quegli anni sono i ‘capolavori’ del genere musicale legati ad altrettanti successi di critica e di pubblico che hanno riempito le sale dei teatri e quelle dei cinema di tutto il mondo: “The Carousel Valzer” da “Carousel” (1945) di A. Newman “Shall we dance” da “The King and I” (1951) di Rodgers e Hammerstein II°. “Strangers in paradise” da “Kismet” (1953) di Edward Knoblock e musica di André Previn, composta sulle “ Danze Polovesiane” di Borodin. “The boy friend” (1954) di Sally Wilson improntato sulla scia della ‘nostalgia’. “I could have a danced all night” dallo strepitoso “My fair Lady” (1956) di Frederick Loewe e Alan Jay Lerner. “Edelweis” da “The sound of music” (1959) ancora una volta firmato dalla fortunata coppia Rodgers e Hammerstein II° poi divenuto, come tanti altri qui citati, un film di successo dal titolo “Tutti insieme appassionatamente” e con il quale si chiude un’epoca ‘sentimentale’ che pure è considerata ‘d’oro’ del Musical delle origini. Come è possibile rilevare dalla lista sopra riportata, sono passati alcuni anni e la guerra ha fatto i guasti che tutti conosciamo. Molto si deve alla buona volontà di impresari e registi, attori e attrici, nonché di prestigiosi musicisti (superstiti) che hanno svolto in ambito teatrale, ma anche in ambito cinematografico, un vero e proprio recupero di moltissimo materiale musicale e di allestimenti precedenti con i quali si è riusciti a ricreare la ‘magica’ atmosfera di certe produzioni del passato, capaci ancora di regalarci in modo strabiliante, vuoi nello stile, nel suono, nella ricerca dei costumi, che nelle coreografie, molta della creatività di cui il mondo del Musical era ed è ancora oggi capace. Così anche il Musical inevitabilmente, si è adeguato alle nuove tendenze, alle artificiosità delle mode, alle tecnologie che avanzano e che hanno permesso al Musical la sua evoluzione. Negli anni ’60 e ’70 il Musical-Show abbandona l’illuministica visione di un mondo di favola per affrontare nuove e inusitate tematiche. Nulla è lasciato al caso, dalla tensione causata dai problemi razziali, alle ostilità di una possibile guerra futura, dallo scandalo procurato dalle prime nudità, alle ‘accuse’ di alcuni accadimenti sociali e di cronaca. Ai nomi di Herbert, Loewe, Gershwin, Kern, Berlin, Porter, Rodgers, Hart, Coward, Simon tra americani e inglesi dei primordi, si sostituiscono Robert E. Griffith, Harold S. Prince, Leonard Bernstein, Stephen Sondeim, Galt MacDermott, Jerome Ragni, James Rado, Jerome Robbins, Bob Fosse, Tim Rice, Andrew Lloyd Webber, Stephen Schwartz, Shapiro, Miller e numerosi altri. Ma è con “Fidler on the roof” (1964) di Jerry Bock e Sheldon Harnick con le coreografie di Jerome Robbins che, con le sue 3.442 repliche filate, riesce a battere ogni record d’incassi e, in ragione del quale si apre la nuova grande stagione del Musical moderno. Tuttavia l’ondata ‘sentimentale’ dei primordi non si arresta e, come è ovvio che accada, la sua eco risale fino agli anni ’60 e i primi anni ’70. Sulla stessa scia per così dire ‘del cuore’ troviamo “Mame” (1966) di Jerry Hermann e Jerome Lawrence in cui si narra di una anziana ‘Zia’ che riesce a portare lo sbandato nipote protagonista della storia, sulla retta via. Per arrivare infine ad “Annie” (1977) da cui la splendida “Tomorrow”, una favola per bambini di Charles Strouse e Martin Charmin che non dispiace affatto ai grandi che gli decretano un discreto successo, ripetuto negli anni a seguire come ‘classico’ da riproporre nel periodo natalizio. Ma come sappiamo i periodi storici si intersecano. La stessa ‘modernità’ non arriva da una fonte che sgorga improvvisa. Prima accade o è sempre accaduto qualcosa e il genio si sprigiona all’interno della società in cui vive e della quale riesce a trovare la sintesi, quando finanche arrivi a confutarne l’essenza. È il caso strabiliante di “West Side Story” (1957) di Robert E. Griffith e Harold S. Prince, con le musiche del grande compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, le canzoni di Stephen Sondheim e le coreografie dell’allora coreografo di successo Jerome Robbins. La storia è un rifacimento della tragedia di William Shakespeare ‘Romeo e Giulietta’. Il tema tragico, la musica sofisticata e le istanze sociali rappresentate, segnarono il linguaggio musicale del teatro anglofono che in precedenza si era dedicato, tranne rare eccezioni, a temi più leggeri. Il conflitto tra bande rivali fa da sfondo a questi ‘Romeo e Giulietta’ in panni moderni, trasferito per l’occasione nella periferia di New York. La vicenda acquisisce veridicità soprattutto per l’ambientazione scenografica e le magistrali coreografie di Robbins, focalizzate nell’ambiente che circonda i protagonisti, tuttavia senza sacrificare la drammaticità del testo. Il finale della vittoria da parte della banda dei ‘leali’ sulla banda ‘scorretta’ e per questo nemica è scontato, ma ciò che rimane è in fondo lo specchio di una società che sta cambiando, della quale si avvertono i sintomi di una ribellione che non avrà più fine. Le musiche, scritte da Bernstein, rappresentano un ‘cult’ della scena musicale mondiale. Tra le canzoni si ricordano "Something's Coming", "Maria", "America", "Somewhere", "Tonight", "Gee, Officer Krupke", "I Feel Pretty", "One Hand, One Heart" e "Cool". Nel 1961 la United Artists ne realizzò una versione cinematografica per la regia di Jerome Robbins e Robert Wise che debuttò nelle sale il 18 Ottobre. Il film vinse dieci Academy Awards cinematografici, tra i quali quello per il miglior film. Mai un film musicale aveva ricevuto così tanti riconoscimenti. Nel 1981 va in scena allo Sferisterio di Macerata per la coreografia dello stesso Robbins con Josie de Guzman, Ken Marshall, Debbie Allen, Sammy Smith, Jake Turner ed Arch Johnson per il Broadway theatre. Nel 1984 Bernstein decise di ri-registrare il musical, dirigendo una sua composizione in prima persona per la prima volta. Nota come una "versione operistica" di West Side Story, vide la partecipazione di Kiri Te Kanawa nel ruolo di Maria, José Carreras in quello di Tony, Tatiana Troyanos come Anita, Kurt Ollman come Riff mentre Marilyn Horne canta "Somewhere" nel ruolo di un personaggio secondario ("Anybody"). Questa versione ha vinto un Grammy Award nel 1985. Prima ancora che qualcuno si ponga la domanda sulla possibilità di una ‘moralità’ latente, esplode “Hair” (1968) di Rado, Ragni, MacDermot. La data è quella della contestazione giovanile che subitanea trova sbocco nel mondo contemporaneo con la forza rivoluzionaria e tuttavia innovatrice della protesta giovanile. Ma “Hair” non è semplicemente un Musical di successo che porta in scena gli enzimi rivoltosi di una gestione dell’opinione pubblica che rimette in discussione le scelte politiche della democrazia nel mondo, “Hair” scuote la gioventù di allora fino alle fondamenta verso nuove e inusitate esperienze, fino a diventare, successivamente, il manifesto della ‘new-generation’ nel riscatto della propria libertà d’espressione. Il brano “Ain’t got no” segna la rivolta di quanti verranno in seguito appellati come ‘figli dei fiori’ per il loro estroverso e popolare modo di vestire che interrompeva la grigia austerità delle classi sociali ‘superiori’ e della elite economica ai governi dell’epoca. Eppure “Hair”, per quanti hanno avuto modo di vederlo a teatro, (ricordo che esiste una versione cinematografica di grande impatto emozionale), conteneva ed affermava un messaggio di pace e di fraternità universali. Sicuramente in negazione di quella guerra ‘non necessaria’ che il popolo americano era chiamato (non si sa bene da chi) a combattere per risolvere la problematica stabilità della democrazia nel mondo e ristabilire la necessaria pace. Non spetta a me polemizzare sulla validità di certi stereotipi o di riscrivere la storia, tuttavia “Hair” confermò la sua controtendenza allo ‘status quo’ con almeno due brani di forte impatto musicale: “Acquarius” e “Let’s the sunshine” divenute in breve l’inno dei giovani di tutto il mondo che decretarono negli anni a venire e con successo un’autentica svolta sociale. Il successivo “Godspell” (1971) di Stephen Schwartz e John L. Tabelak, con la suggestiva “Day by day”, non può che confermare l’esito della nuova stagione del Musical, ormai avviato alla ricerca di altri territori incontaminati di esplorazione. Non è un caso che vengano approfonditi aspetti insoliti della religiosità in crisi al momento e la Bibbia e i Vangeli ne fanno in parte le spese in chiave critica, filtrati attraverso le esigenze della musica e le contraddizioni del rock. Uno stratosferico successo arrise a “Jesus Christ Superstar” (1971) l’opera rock di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice che affronta l'ultima settimana della vita di Cristo mescolando diversi episodi ripresi dal Nuovo Testamento prima di morire crocifisso. Gesù vi è rappresentato come una figura che ha molto di umano e poco o nulla di divino e manifesta di fronte alla morte i dubbi e la paura tipicamente umani, mentre Giuda Iscariota, figura cardine della narrazione, diventa il vero protagonista del film, razionale e coerente, non traditore, ma vittima suo malgrado, come il suo maestro, di un disegno del destino più grande di lui. Dal Musical sarà presto tratto un film (1973) con lo stesso titolo che si sposta ‘in esterni’ utilizzando mezzi e tecnologie di ultima generazione e di sorprendenti effetti di ripresa. Oltre alla memorabile “Ouverture” orchestrata da André Previn, e l’accattivante “Superstar” che fa da leit-motiv all’intera opera, vanno ricordate almeno altre due canzoni di sicuro impatto emozionale: “Strange Thing Mystifying” (Qualcosa che non mi convince), e “Everything's Alright” (Va tutto bene), “Hosanna” e l’accorata “I Don't Know How To Love Him” (Non so come amarlo), nonché la strepitosa ‘J. C. Superstar’. Con “A chorus line” (1975) di Michael Bennet e Edward Kleban su musiche di Marvin Hamlisch, il mondo ‘dietro le quinte’ del Musical vince la sua battaglia sul cinema. Il brano “One” che fa da accompagnamento all’intero spettacolo fornisce qui l’occasione per salutare il folto pubblico del film-musicale senza rancore di sorta, accreditandosi un ulteriore Premio Pulitzer per il ‘dramma’. Altri ne erano stati già assegnati ai Musical: nel 1931 a “Off the I sing”, nel 1949 a “South Pacific”, nel 1959 a “Fiorello” e ancora all’esilarante “How to succed in business without really trying” nel 1961. Indirizzato alle giovani schiere di quanti tra ballerini e cantanti si presentano al ‘casting’ di un teatro ogni qual volta viene annunciato un nuovo spettacolo o la ripresa di uno già consolidato nel tempo. “Lascia ch’io balli per te …”, è infatti la canzone chiave che i ragazzi del ‘coro’ cantano al loro debutto sul palcoscenico di “A chorus line”. Per quanto il suo copione affronti temi ripresi dalla realtà, lo spettacolo entra di forza nelle aspettative e nei desideri di quelle giovani generazioni che hanno formalizzato il cambiamento sociale e culturale della scena teatrale e musicale degli anni a venire. Numerose sono anche le novità in sede scenografica che risulta svuotata per lasciare spazio alle persone fisiche assurte al ruolo soggettivo/oggettivo dei personaggi dello spettacolo che stanno realizzando. Diverso risulta infatti l’approccio psicologico improntato sulla messa in scena del loro dialogare sulle rispettive esigenze e proprie aspirazioni a confronto con le disillusioni che lo show-business non risparmia loro e che, spesso, sfociano in amarezza e abbandono. Ma cos’è “A Chorus Line”? È la cosiddetta “linea del coro” invisibile all’occhio dello spettatore in cui si pone frontalmente sulla scena la schiera dei ballerini. Entrarvi a far parte è il primo passo verso la carriera, il raggiungimento agognato dai molti del ‘successo’, che potrebbe segnare per ognuno una svolta nel lavoro e nella vita. Come ha scritto E. Kleban autore delle canzoni – “In ‘A Chorus Line’ ho voluto dare alle parole uno spazio misurato all’interno del testo e della costruzione musicale senza badare al fine ultimo dell’intrattenimento. Tale che a volte è difficile stabilire dove un motivo ha inizio o termina l’altro, da “I hope I get it”, “At the Ballet”, “Nothing”, e la bellissima “What I did for love”, nonché la ‘parade’ di “One” e “Let me dance for you”, appunto “Lascia ch’io balli per te..”. “Fin dall’inizio di questa produzione – ha detto M. Hamlish – in occasione di una intervista, ho capito che la musica doveva essere in parte caratterizzata sugli interventi dei singoli attori-ballerini, che avrebbe dovuto sottolineare le loro diverse aspirazioni e, al tempo stesso, catturare il momento ‘clou’ dell’insieme del ballo finale. È quanto ho cercato di fare con la musica usando una tecnica di lavoro diversa da quella che più spesso mi sono trovato ad usare ad esempio per la colonna sonora di un film. C’è molta più musica in uno show che in una pellicola. La musica occupa qui un posto preponderante insieme alla coreografia e in nessun caso si distacca da questa.” Il 1978 è l’anno di “Evita” portato in scena ancora una volta dalla coppia Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. La storia è un esempio, forse il primo in assoluto, di Musical anticonformista sulla vita reale di un personaggio famoso salito alla ribalta delle cronache mondiali: Evita Duarte Perón, moglie del presidente argentino Juan Domingo Perón. Successivamente trasferito in film con il titolo di “Evita” (1996) diretto da Alan Parker, con Antonio Banderas e Madonna, non verrà accolto con la stessa emozionale infatuazione che molto toglie alla bellezza e alla forza scenica che aveva contraddistinto l’opera teatrale. Tuttavia lo spettacolo è assicurato, vi sono momenti in cui la scena è invasa di una tale potenza emotiva da fondersi tutt’uno con gli spettatori partecipi della platea. Tra le canzoni più famose “Don't Cry for Me, Argentina” (Non piangere per me, Argentina) cantata da Evita dal balcone della Casa Rosada il giorno della proclamazione dell'elezione a presidente (17 ottobre del 1945) del marito, e rivolta al suo paese e alla sua gente è senza dubbio uno dei brani più acclamati che si ricordino nella storia del Musical. “Oh What a Circus” e “High Flying Adored”, nelle quali il famoso Che racconta con toni caustici la carriera di Eva; “Santa Evita”, “Another Suitcase in Another Hall”, “On This Night Of a Thousand Stars”, allo stesso modo offrono momenti musicali e coreutici di una ‘bellezza’ straordinaria mentre accompagnano l’apparire in scena di Evita in mezzo alla folla dei ‘descamiciados’ e, ancora, quando si affaccia al balcone della Casa Rosada per placare la folla preoccupata per la sua prossima fine. Ma se finora ho volutamente trascurato il rapporto che da sempre lega il musical-show con il film musicale cinematografico e viceversa, e sebbene l’interesse e il successo che il pubblico riserva a entrambe le espressioni siano fonti inesauribili di grande portata culturale che economica, va qui detto che il Musical ha acquisito nel tempo una propria identità strutturale che va riconosciuta di altissimo livello. Vuoi linguistica che musicale, vuoi coreutica che scenografica spettacolari, che oggi non possiamo fare a meno di denominare come ‘autentica forma artistica’ a sé stante, in quanto arte di ‘vero e proprio’ intrattenimento spettacolare, e per questo straordinariamente impegnativa per chiunque voglia trovarvi accesso, che non trascura nessun aspetto produttivo. Altri Musical oltre a quelli citati che sono ancora in scena frequentemente nei teatri di West End e Broadway dalla loro ‘prima’ apparizione con qualche saltuaria interruzione sono: “Mame” (1966) – “Sweet Charity” (1966) – “Cabaret” (1966) – “Joseph and the amazing Technicolor dreamcoat” (1968) – “Rocky Horror Show” (1973) – “Lenny” (1974) – “Chicago” (1975) – “All that Jazz” (film 1979) – “Cats” (1981) – “Little Shop of Horrors” (1982) – “Starlight Express” (1984) – “Les Miserables” (1985) – “The Phantom of the Opera” (1986). C’è però un altro filone spesso trascurato di cui necessita parlare che è quello afro-americano del ‘Gospel’, del ‘Blues’ e del ‘Jazz’ che si apre con “Cabin in the Sky” (1940) di Vincente Minnelli e Busby Berkeley, musicato da Harold Arlen. Successivamente, in un periodo in cui molto raramente attori afro-americani riuscivano ad avere una parte di una qualche importanza nelle produzioni hollywoodiane, la MGM produsse un importante film con un cast tutto di neri. “Stormy Weather” (1943) dal titolo di una canzone omonima del 1933. Il film diretto da Andrew L. Stone raccoglie una ventina di numeri musicali con la bellissima “Stormy Weather” cantata da Hethel Merman e ‘Aint Misbehavin’ cavallo di battaglia di Fats Waller. Ma è con il già citato “Porgy and Bess” (1959) di G. Gershwin (vedi la ‘prima parte’ apparsa su ‘LaRivista n.1’ e l’articolo dedicato a questo autore in larecherche.it), che a partire dall’Opera lirica e quindi dalla successiva pellicola cinematografica che si spalancheranno le porte a tutta una serie di spettacoli teatrali e film-musicali interpretati da afro-americani per lo più improntati sulla vita di personaggi autentici della scena del Blues e del Jazz. Successivo è un altro film che prende il titolo da una canzone di successo: “Lady sings the blues” (1972) diretto da Sidney J. Furie, un film sulla drammatica esistenza della cantante ‘blues’ per eccellenza, la straordinaria Billie Holiday, interpretato inoltre che da Diana Ross, da Billy Dee Williams e Richard Pryor. “Sophisticated Ladies” (1981) titolo ripreso da una canzone famosa, diventa un Musical-Show di tutto rispetto. Andato in scena a Broadway al Lunt-Fontanne Theatre aprì nel mese di Marzo dello stesso anno e si chiuse nel Gennaio del 1983, dopo ben 767 performance. Il Musical concepito da Donald McKayle fu diretto da Michael Smuin, con le coreografie di McKayle, Smuin, Henry LeTang, Bruce Heath e Mercedes Ellington. Scenografie di Tony Walton, costumi disegnati da Willa Kim e le luci di scena di Jennifer Tipton. Nel cast figuravano: Gregory Hines, Judith Jamison, Phyllis Hyman, Hinton Battle, Gregg Burge, and Mercer Ellington. La ‘colonna sonora’ includeva: "Mood Indigo," "Take the "A" Train", "I'm Beginning to See the Light", "Hit Me With a Hot Note and Watch Me Bounce", "Perdido", "It Don't Mean a Thing (If It Ain't Got That Swing)", "I Let a Song Go Out of My Heart", "Old Man Blues", "In a Sentimental Mood", "Sophisticated Lady", "Don't Get Around Much Anymore", "Satin Doll", and "I Got It Bad and That Ain't Good", che rappresentano il ‘meglio’ della produzione artistic di Duke Ellington. In quanto brano strumentale “Sophisticated Lady” non è solo uno standard jazz, composto nel lontano 1932 da Duke Ellington; il testo fu aggiunto in seguito da Irving Mills e Mitchell Parish, è il ‘pezzo’ che in qualche modo segna la storia del Jazz, per essere stato suonato e cantato dai più grandi interpreti che si conoscono, da Billie Holiday ad Ella Fitzgerald a Frank Sinatra e un’infinità di altri. Ellington stesso ebbe a dichiarare che il testo era "meraviglioso ma non del tutto aderente alla mia idea originale." Si tratta di uno dei brani più famosi ed eseguiti di Ellington. Registrata per la prima volta su vinile nel 1933 con a-soli di Toby Hardwick (sax contralto), Barney Bigard (clarinetto), Lawrence Brown (trombone), e lo stesso Ellington al pianoforte, “Sophisticated Lady” entrò in classifica il 25 maggio e vi rimase 16 settimane, arrivando alla terza posizione, cosa questa che segnò un record per quei tempi. Hardwick e Brown dichiararono in seguito di avere contribuito alla composizione della melodia, una rivendicazione che molti biografi hanno giudicato credibile. Nessuno dei due però fu mai accreditato come coautore e di conseguenza nessuno dei due ricevette royalties. Nel 1944, il regista Otto Preminger avrebbe voluto "Sophisticated Lady” come tema conduttore del suo film “Laura” (in italiano “Vertigine”), ma il direttore musicale Raksin, pensava che non fosse adatta e scrisse un tema alternativo, che sarebbe anch'esso diventato un successo e un famosissimo standard. Nel 1956 Rosemary Clooney ne registrò una sua versione per così dire ‘sofisticata’ con lo stesso Ellington, entrata poi nell'album “Blue Rose”. In un suo articolo per il Time di New York, Frank Rich scrisse, che "..la pulsione musicale e nuova al Lunt-Fontanne, è una celebrazione di Ellington che non finirà finché ha presa sul pubblico con la sua capacità dinamica. Non è un divertimento perfetto - salviamo per più tardi i difetti - ma sostiene con abilità la resa del pubblico e, chiaramente, la musica ne approfitta, fino a viziare il divertimento. Quello che c’è di più di altri musical è che opera su una scala veramente grande.” “Round Midnight” (1986) è un film diretto da Bertrand Tavernier ispirato alla vita dei jazzisti Lester Young e Bud Powell ed ha come unico protagonista la musica jazz. Il film a suo tempo vinse un discreto numero di premi, tra cui l'Oscar alla migliore colonna sonora nell'edizione del 1987, grazie anche all’ottimo lavoro di Herbie Hancock. Il film ebbe un discreto successo per lo più tra gli addetti ai lavori. Comunque vi si ascolta della buona musica. Il successivo “Dreamgirls” (1981) è il celebre musical di Michael Bennett insieme produttore, regista e coreografo, all’epoca uno dei più acclamati ma anche il più giovane sulla scena artistica statunitense. Vi si narra la storia della frenetica corsa verso il successo delle Dreamettes, un trio di cantanti afroamericane, ispirate alle vere Supremes, gruppo che vedeva come voce solista Diana Ross, che decretarono il trionfo della ‘black music’ nel panorama USA degli anni ‘60/’70. Considerato dalla critica il ‘miglior musical show’, vinse ben sei Tony Awards per la sua originalità nel pur vasto panorama della scena teatrale di quell’anno. Andato in scena prima a Broadway si pose subito all’attenzione internazionale per la capacità di penetrazione sul pubblico più giovane. L’accattivante musica di Henry Krieger creata su testi di Tom Eyen scalò le vette delle classifiche internazionali. Si può ben dire che in “Dreamgirls” ogni ‘momento’ era già creato con il preciso scopo di farne un successo. Tant’è che appena in scena si pensò subito di farne un film. Quando si dice la forza dello show-business! Tuttavia il film arriverà parecchi anni dopo per la regia di Bill Condon: “Dreamgirls” (2009) ma i tempi erano ormai cambiati, la musica era cambiata, e il successo non arrise allo stesso modo come per il Musical del 1981. Comunque resta il fatto acclarato che “Dreamgirls” continua a mietere successi e ricevere premi a non finire anche a distanza di molti anni dalla sua andata in scena. Sulla stessa linea di fuoco si muove l’altro prestigioso coreografo Bob Fosse facendo un passo oltre il più giovane collega, cioè più in là dell’aspirazione al successo per tuffarsi, non senza amare considerazioni nella professionalità raggiunta. Due capitoli diversi, dunque, della storia del Musical moderno che si fondono all’insegna del rinnovamento della scena teatrale-musicale internazionale. Ma se “Dreamgirls” di Bennett rappresenta il ‘sogno’ insperato di alcune ragazze che vedono nel ‘successo’ la sospirata realizzazione nella vita, “All that Jazz” di Fosse, ne è la sua conclusione amara. E poiché nel Musical “..nulla avviene per un semplice giro di fortuna – dice Bennett sembrando che ha ben appreso la lezione di Fosse – occorre impegno nella professione che si svolge, impegno che significa sacrificio, a volte sofferenza, privazione, e il successo se vi sarà, è quanto meno frutto di quello show business che produce stelle dal buio e trae oro dalla plastica”. Comprensibile se non altro, per il fatto che il ‘pubblico’ vero e unico signore (perché pagante) continua ad avere voglia di ‘divertimento’ superando i problemi e le crisi economiche, le beghe politiche, la noia e l’ozio dei periodi peggiori, e s’accalca entusiasta ad acclamare gli spettacoli che più di altri offrono della buona musica. Un successo questo del Musical che sembra non avere mai fine, al quale la critica ha messo la sua bella targhetta: “Show business it’s just a show business”. Si può essere d’accordo oppure no, tutto sempre dipende da ciò che si vuole diventare nella vita, dal traguardo che ci si pone davanti, e qualche volta bisogna anche saper rinunciare. Come dire che tutto e tutti hanno la possibilità di entrare nel Musical in un modo o nell’altro: come autore, cantante, coreografo o ballerino di fila, l’importante è volerlo … In fondo “That’s All Musical!”
Nota d’autore: altri Musical importanti qui trascurati saranno trattati direttamente sulle pagine della rivista larecherche.it con articoli singolarmente appropriati durante i mesi successivi all’uscita del n.2 de LaRivista.
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