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Dio ama la pietra e il legno, estratto dal romanzo Triora di

di alessandro venuto
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Pubblicato il 18/10/2021 18:23:34

Se si voleva immaginare il borgo di Triora come un vascello adagiato tra le onde della Valle Argentina, il campanile della Collegiata ne era l’albero maestro. In qualsiasi foto del paese si ergeva dritta ed evocativa come una torre, svettante sulle case basse come il collo di un cigno tra i germani reali. Affacciata su un sagrato di pietra stretto tra le case e costruita in origine su quello che restava di un tempio pagano, la Collegiata aveva la facciata intervallata da quattro colonne tra le quali si intravedevano tre tabernacoli chiusi e un portale in legno massiccio. L’esterno della chiesa era in pietra come il resto del paese, evocativo e medioevale, mentre il suo interno era stato modificato nei secoli mantenendo ben poco, come la maggior parte delle chiese, del progetto e della fede originari che ne avevano posato le fondamenta. Aurelio faticava a nascondere la delusione ogni volta che, dopo aver ammirato l’esterno romanico di una chiesa, ne scopriva l’interno Barocco o Roccocò; quando aveva smesso l’uomo di riuscire a costruire il bello?, si chiedeva scuotendo la testa di fronte a quello che considerava uno scempio. Per non parlare delle costruzioni religiose moderne, più simili a discoteche che non a istituti spirituali.
Se, come scriveva Victor Hugo nel suo Notre Dame di Paris, l’architettura era una forma di linguaggio dell’epoca e si esprimeva massivamente nelle grandi cattedrali, l’uomo tecnologico doveva aver ricominciato a balbettare o semplicemente, avendo affidato il pensiero all’immagine virtuale, aveva perduto la capacità di tradurre con le mani quello che sentiva in virtù di quello che vedeva; la spiritualità era diventata una realtà immersiva tra le altre, digitale, che non aveva più bisogno della pietra e del legno per costruire ma di pixel e giga.
Gli architetti avevano lasciato il posto ai disegnatori, i mastri carpentieri ai grafici. Era un’umanità diversa quella che aveva smesso di strappare pietre dai fianchi delle colline per edificare case e chiese, che non intagliava più nel legno le forme dei suoi dèi. Aurelio ne era convinto fino in fondo ma non capiva perché questo doveva per forza tradursi nel brutto, “macerie e non rovine lasceremo ai nostri posteri”, diceva un sociologo, roba senza valore e senza storia. Gli scheletri dei palazzi abbandonati di tutto il mondo non valevano nulla al confronto dei resti di una sola piccola casa romana e questo per un unico, semplice motivo: gli uomini di oggi non avevano nulla da dire.
Secondo Aurelio, Dio amava la pietra e il legno, le valli boschive e le cime dei monti non i grandi palazzi e lo sfarzo degli ori: ne era convinto nel profondo. Dio amava quello che non sembrava avere valore, per cui nessuno avrebbe litigato, anzi, il non reclamato, il non voluto. Quello che resta. Dio era con ciò che restava sul fondo, con gli ultimi. Dio era quello legato al palo nei roghi, non tra chi li aveva comandati e nemmeno tra la gente che si radunava per assistervi, tutta pigiata nelle piazze per una visione gratuita dell’orrore. Dio era nei campi di sterminio e saliva al cielo attraverso i fumaioli dei forni crematori. Nonostante non credesse più da tempo, Aurelio sperò che Dio fosse anche con sua figlia e con le sue amiche in un giorno come questo e magari, perché no?, un po' con lui, qualora avesse avuto un momento libero.
Si sarebbero fumati un sigaro insieme. Sarebbe stato bello.
Prima di salire al borgo passò dalla macchina e si sorprese, chissà perché, di trovarla ancora lì intatta. Almeno lei era a posto. Ci aveva viaggiato l’Europa con Sophia e Wendy, su quel Duster e non voleva risolversi a cambiarla nonostante gli oltre duecentomila chilometri rivendicati sul cruscotto. Era fatto così.
Tirò fuori dallo zaino i due telefoni, un carica batterie con due prese, una seconda pistola, controllò che fosse carica e la assicurò alla caviglia attraverso l’apposita fondina, verificando che il pantalone la ricoprisse in modo omogeneo. Nascose un serramanico vicino alla cintura e lasciò il resto nell’auto, controllò di avere in tasca il ricevitore di sorveglianza e il portafoglio del finto poliziotto con sé, bene, riaprì la portiera e prese un secondo documento fittizio, non si sapeva mai, quindi chiuse l’auto e prese la via verso il paese.

Brano estratto dal romanzo Triora, di Alessandro Venuto, vincitore del VI concorso nazionale BookTribù e disponibile online negli store delle migliori librerie italiane.

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