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Poema interiore

di Stefano Verrengia
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Pubblicato il 08/04/2019 12:19:38

POEMA INTERIORE

 

Ancora ricordo quel giorno

in cui aprii un libro

che come un deltaplano

mi fece planare

su valli verdi

dove andare

libero come un cavallo

senza briglie pronto

a nitrire al cielo.

Fu come una dose

che ti scorre nelle vene

e che delle pene

e del martirio

della carne

ti solleva

avvelenandoti.

Si, quelle pallide

parole, quelle lettere

maleodoranti

di quel vecchio libro

comprato per un euro

da uno sdentato libraio

su di una povera bancarella

furono l’edera velenosa

che si è arrampicata

prima sulle gambe,

poi, pian piano,

si è arrampicata

fino al petto,

riempiendomi

di bolle e malattia.

Ma fu una magia,

quel delirio che provai:

assurda perdizione

nella canzone

dei sassi sussurranti.

E bramanti volarono

i pensieri fra le infinite

stelle e le belle

bocce di una donna

truculenta che posava

le sue labbra sul mio ombelico

brontolante come un uragano.

Quando presi la penna

in mano mi sentii

come un adolescente

che prende per la sua prima

volta in mano il cazzo

per abbandonarsi

a sfrenate fantasie

sulla sua amichetta

che mostra i primi seni

e ammiccante vuole conoscere

l’amore della carne.

Posare sulla carta

una bic e il suo inchiostro,

che scivolava come

un implacabile

fiume nero

senza argini

e costrizioni,

senza paura

di inondazioni ...

ambivo

solamente la liberazione

e la distruzione …

le parole debordarono

sui campi del mio intelletto

e l’effetto fu quel che mi aspettai:

una meravigliosa catastrofe.

Furono sterminati i fiori,

sterminati gli alberi da frutto

e tutto affogò

in inesorabili acque nere.

E quelle sere

in cui nuotavo

con maschia delizia

in queste acque del caos

e alzavo lo sguardo

e con gli occhi

un dardo gettavo

di desiderio e bramosia

verso l’infinito universo

che nel pensare ardevo  

poter spostare

con una semplice

bracciata.

Ero lì, sempre fisso,

nell’amata confusione

di una tigre

che mastica

le nuvole con fermi

canini e serrate mandibole.

Non ci volle molto tempo

a comprendere

in che razza di guaio

ero andato a finire …

scrivere fino a morire,

con quella penna

che prima diventava

coltello, poi pennello,

poi sciabola, poi machete

pronto a spezzare

i verdi rami

di questa jungla

di nome esistenza.

E non ci volle molto

e comprendere

di che essenza

fosse questa

mia malattia:

placido tremore,

amore per la pazzia.

E così era,

è impossibile

nascondersi

a sé stessi.

Mi accorsi subito

Che come me,

malati della mia malattia,

ve ne erano ben pochi:

fuochi flebili

su questo mare del niente.

Compresi anche

che non ci si nasce

con questa tendenza

di ricercare

in una formica,

in un granello di sabbia,

in un briciolo di pane

l’essenza dell’eternità.  

E così camminavo

sconsolato per i marciapiedi,

freddo e meditabondo,

a caccia dell’infinito

nascosto fra due versi,

fra due crepe dell’asfalto.

Di cobalto coloravo

le parole nei tristi giorni

dove naufragavo

malinconico

nell’oceano di suoni

di una chitarra di strada,

altre volte un lieve

tramonto arancione

mi rincuorava del fatto

che la morte

avrebbe azzittito ogni dolore

cullandomi dolcemente

sul suo grembo

come una madre benevola.

Tante altre volte

consumavo il mio tempo

seduto su di una panchina

a dipingere con le parole

quel quadro misterioso

di nome universo.

Stelle, pianeti, galassie,

buio …

tutto mi ispirava

la nostra enorme insignificanza.

Molto spesso vagavo di stanza

in stanza, per poi affacciarmi

al mondo dall’intimo balcone

dove potevo osservare

l’oceano sprigionarsi

nella sua vastità,

come uno sputo

per una formica.  

E mi perdevo, assurdamente,

con la mente labile

come una foglia in una tempesta,

come un’onda nella marea.

E su questa sponda dell’esistenza,

dove tutto si contorce

nei marasmi del dolore,

dove ogni colore che brilla

poi sbiadisce verso il bianco,

non demordevo nella voglia

di imbrigliare ogni doglia

in una catena di rime.

Quanti teschi ridenti

godevano della vita

spalancando le loro

mandibole tremolanti.

Ma io ero già

un morto consapevole.

E me ne accorsi un giorno,

quando vidi una donna

sdraiata su un letto nero

con in mano una croce

e con un gelido silenzio

negli occhi.

Anche lei, anche quel vuoto

contenitore di sogni ed ambizioni,

quel cassone di immondizia

dove furono gettati

tempo addietro

sporchi pensieri,

adesso era nei neri

meandri dell’occulto.

E chissà cosa nasconde

la morte

dietro il suo sacro silenzio,

chissà cosa nasconde

il buio nel suo eterno

attendere l’ultimo

canto di luna.

Da lì i miei occhi

si tramutarono

in cinici occhi di corvo,

da lì, con occhi di gatto,

appresi cosa

vuol dire vedere

gl’uomini nel buio:

ombre evanescenti

che girano l’angolo

per finire non si sa dove.

Eppure ricordo ancora quel mattino

dove mi svegliai

con il sole negli occhi:

aprii la finestra

e aria e luce entrarono

come una benedizione.

Sotto casa una canzone

napoletana intonava

una vecchierella

e le note leggere volavano

nell’odore di sfogliatella

e caffè.

Il golfo di Napoli

immenso si stagliava

e sembrava profondo

come l’animo di ogni

Poeta di questa terra.

Le donne avevano

pesche al posto dei seni,

dolci da mordere

come frutta di stagione.

I capelli scuri e intricati

come le vie di Spaccanapoli

e la malizia nello sguardo

che tutte sembravano

un po’ puttane,

un po’ bigotte.

Mi ruggiva l’animo

come una belva affamata.

Finalmente una illusione,

una illusione potente!

La gente salutava

come fossi loro fratello

e il calore nell’animo

sembrava riscaldarsi

come un vulcano.

E’ come se sentissi

ancora il Vesuvio

scorrere nelle mie vene.

Ho sempre odiato l’amore,

nel suo renderci deboli

come leoni in gabbia,

elemosinando il loro pasto.

Quante volte Cupido

mi ha lanciato

la sua freccia avvelenata

e mi ha riempito il sangue

di dolci illusioni.

Torta dopo torta,

ne vorresti fino a scoppiare

ed avere un infarto.

Ma questo la mia penna

lo sapeva, aveva bisogno

di quel sogno impossibile

da scrivere fra due galassie.

Ci fu una sera in cui

fui colto da uno strano ardore

e scrissi una poesia d’amore

su un fazzoletto in un bar,

con al fianco una birra.

Molte volte ho cercato

di rinchiudere l’oceano

fra due lettere …

una sigaretta in una mano

e la disperazione nell’altra,

questa vita ha consumato

ogni goccia del mio sangue,

quasi fossi una maledetta

fontana di dolore.

Molto spesso

sono inciampato

in un sogno

e sono caduto

di faccia

in una pozzanghera

in un giorno di pioggia,

mentre guardavo

le nuvole

aspettando

che un fulmine

scrivesse con l’elettricità

un verso

che non avrei mai

potuto scrivere …

e quante notti

mi sono seduto

sulla sabbia

in solitudine

per aspettare

quello sparuto

ed ultimo raggio di luna.

Sono sempre stato

un manigoldo,

ma questo tu lo sai,

mia siringa, penna mia,

iniezione di infinito,

eternità ed illusione!

Quante volte ti ho utilizzato

per sedurre una bella

donna ad aprirmi

le sue gambe

come fossero

un bel libro da sfogliare,

un oceano da solcare

con la mia prua

volitiva

sempre alla ricerca

di nuovi atolli

dove abbandonarmi

al mare, al sole,

ai granelli di sabbia

e al sussurro del vento.

Sempre ti ho usato,

sempre ti ho usato,

candido pugnale!

La vita è un oceano

nel quale gettarsi

per poi lavarsi di quel sale

che causa un fastidioso prurito.

E così, andando per vie

sconosciute,

per le mute strade

di un fresco pomeriggio

d’estate,

la mia gola

non si è mai negata

un bicchiere d’azzurro

e l’infinito silenzio

dell’universo,

mentre disperso

nei pensieri

vagavo fra Giove e Plutone

immaginando

cosa provi

un fascio di luce

nel dissolversi

lentamente

come nebbia

al mattino.

E chino,

ancora oggi,

mi ritrovo

a cogliere

quei pezzi di nuvole

per poi metterli

in un vaso

che innaffio

con sangue

e dove con il naso,

ogni tanto, con velleità,

inalo a polmoni spiegati

un soffio di eternità.

 


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