La Madonna di Dio,
tu che fosti la vita mia,
il sangue del mio sangue
fin nei sepolcri del cuore,
trafitto d'assedio, nei sotterranei medesimi
dove per caso c'incontrammo, durante la terza guerra mondiale,
sull'eterno pianeta che ci vide batteri e squame
agli esordi della trap, ti prego,
non mi abbandonare, tirami fuori di qua.
Tu che conosci il moto e la direzione,
la processione degli eventi fino al punto che m'illudi
che anche fuggire abbia un senso d'infinito, da farsi perdonare.
Come ho potuto credere che non fossi una mia invenzione?
Perchè non parli? Lasciami stare.
In un'altra dimensione, dove possa guardarti
senza che sentire il bisogno di toccare mi faccia ardere.
Le tue mani, le tue anime, la versione dei fatti.
Ma la febbrile astinenza
non nutre profumi di camboge catarifrangenti?
O di vespai cosmopavonici? Pensieri del mio ego ed alterchi,
reticenti propositi di buona condotta e frastuoni
di temporali intercalati nei monologhi al vento d'estate,
se non una vera e propria redenzione
da praticarsi tutti i giorni, ore pasti,
previa accettazione dei peccati, per peccarsi, per peccare.
Controindicazioni? Per devozione:
rassegnarsi ad essere una versione di sè stessi poco attraente
per peccato originale, per istinto di conservazione,
per pigrizia esistenziale, che poi è un partito preso:
non voglio fare un cappio
delle mie dita, delle mie corde vocali.
Del mio solfeggio maestro, voce nel coro dei vinti.
Con ossequio nei confronti della materia
bestemmio il padreterno, escapolo, sperando che sia femmina.
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