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Noi figli delle stelle

Argomento: Scienza

Articolo di Umberto Minopoli 

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Pubblicato il 30/05/2016 22:54:30

 

Antropico o copernicano: qual è, in realtà, il principio che regola l’universo? Domina il caso o il cosmo esibisce un ordine decifrabile?

A un secolo quasi dall’affermazione della teoria del Big Bang, dalla scoperta che l’universo ha un inizio, una storia traducibile e, persino, un possibile esito finale, la risposta al dilemma è, ancora, un problema che turba la cosmologia. La spiegazione copernicana, è noto, periferizza la Terra, le toglie specialità. Essa comporta un salutare principio di mediocrità: il nostro è un pianeta anonimo in una pluralità infinita di mondi, l’inspacio immenso di Giordano Bruno. Tale immensità sembra essere indifferente alla nostra esistenza. La Terra è un sasso, nell’infinita espansione del cosmo. Che sorprende, piuttosto, per la fragilità della sua esistenza. Esposta com’è agli eventi e sconvolgimenti di un universo illimitato e caotico. Le dimensioni immense del cosmo conferiscono al pianeta, dicono i copernicani, l’insignificanza del caso. Nella lotteria dei tempi e del disordine cosmico, persino la nostra sopravvivenza è spaventosamente affidata alla fragile contabilità dell’imponderabilità. Eppure c’è un fatto: su questo sasso, il pianeta, esistono osservatori (così, dopo Einstein, si usa definire la vita intelligente). L’esistenza di osservatori è un problema per il principio di mediocrità. Per un fatto paradossale e singolare: l’attività degli osservatori, cioè la fisica, la scienza e la cosmologia, più che accertare disordine e casualità nell’universo, ne scoprono leggi, strutture. E’ come se comprendere il cosmo gli conferisse un ordine. La conoscenza, curiosamente, diminuisce la casualità e aumenta la causalità. L’universo osservato disvela relazioni, connessioni, strutture, sistemi. Più che immensa e caotica entropia, emergono trame, logiche di reti. La struttura dell’universo, dopo la relatività e la meccanica quantistica del secondo Novecento, ha assunto, sempre più, le sembianze di organismo. Ricordiamo l’ecologia di Lovelock: la Terra come Gaia? In essa il nostro pianeta è descritto come un complesso meccanismo olistico che si autoregola e autoconserva attraverso il funzionamento dei fenomeni naturali. Quasi avesse una naturale intenzionalità. Ebbene, la cosmologia scientifica contemporanea descrive l’universo come qualcosa di analogo: una struttura, quasi, a reti neurali, dove eventi ed emergenze fanno erompere un ordine, codici di lettura, l’esistenza di un software. Il disordine, ovviamente esiste. Ma nella lettura dell’universo, fatta dagli osservatori moderni, esiste anche l’ordine: l’entropia (il disordine, la casualità) è contrastata da strutture locali (esempio: stelle, galassie, ammassi, sistemi di galassie, ecc.) che esibiscono alti livelli di regolarità e codici di funzionamento. Questa realtà, scoperta dalla scienza e dalla cosmologia fisica moderna, ha dato argomenti all’approccio antropico. Esso postula un principio: l’universo appare, singolarmente, intellegibile. Lo diceva anche Einstein. Ma per gli antropici la ragione dell’intellegibilità è più complessa: l’universo si può comprendere perché risulta, stranamente, adeguato all’intelligenza di osservatori (noi) che, a quest’epoca esatta dell’evoluzione del cosmo, sembriamo esser nati apposta per poterlo osservare. Come se l’evoluzione dell’universo fosse destinata a tale emergenza: la vita intelligente, gli osservatori. L’approccio antropico afferma, appunto, che la storia evolutiva dell’universo si è svolta in una modalità che ha portato, esattamente oggi, all’emersione di osservatori in grado di leggerlo, decifrarlo, comprenderlo. John Wheeler, il più grande fisico del Novecento dopo Einstein, definiva l’universo, in modo enigmatico, un “circuito autoeccitato”. Che voleva dire? Una cosa, apparentemente, pazzesca: l’universo esiste in una forma ordinata perché è l’osservatore che gliela conferisce con le sue osservazioni. Inquietante. Del resto per la fisica quantistica, è noto, questo è un principio base: è l’osservatore che, decidendo il tipo di esperimento, misura una particella ora sotto forma di onda, ora sotto forma, invece, di un oggetto puntuale. Nel microcosmo la cosa funziona. Wheeler estende il postulato all’universo macroscopico. Per lui non esiste un universo ordinato o disordinato come una realtà oggettiva. La realtà non può prescindere da chi la descrive. E’ il punto di vista dell’osservatore – la fisica, la scienza, la cosmologia – che conferisce logica alla realtà osservata: “La realtà – affermava Wheeler – è quella che decidiamo di vedere”. La scienza, per il fisico americano, ha un effetto creativo: fare un esperimento su di un oggetto fisico porta a un risultato. In base a esso, lo scienziato costruisce una teoria dell’oggetto osservato. Una teoria che produce, esattamente, una versione dell’oggetto che deve produrre l’effetto osservato. Siamo noi, insomma, che conferiamo a un oggetto osservato una storia plausibile, razionale e ordinata. E questo vale anche per l’osservazione dell’universo. Il più geniale allievo di Wheeler, Richard Feynman, amava dire che la realtà (l’universo) è a “molti cammini”, a molte storie. Con gli esperimenti i fisici materializzano, a posteriori, una delle storie possibili. Com’è noto, Einstein aborriva queste conclusioni della fisica quantistica. Che smantellavano, a suo dire, l’esistenza di una realtà oggettiva, fuori di noi. Ma Einstein perse, letteralmente, tutte le sfide teoriche con i quantisti. Ne tentò a decine, tese a invalidare i loro strani assunti. Niente da fare: gli oggetti quantistici negli esperimenti si comportavano effettivamente in modo da pregiudicare, o perlomeno rendere più complesso, il concetto di una realtà oggettiva. Il curioso approccio antropico di Wheelher – “è la nostra osservazione che conferisce una logica all’universo e fa emergere una sua storia evolutiva plausibile” – sembra trarre conferma da un fatto singolare dell’osservazione astronomica: mano a mano che la tecnologia osservativa evolve e si affina, le scoperte e i fenomeni osservati nell’universo, che sembrano all’inizio solo emergenze caotiche, finiscono, invece, per far trasparire una logica. Da casuali diventano causali. Fanno trasparire un codice, una trama, una struttura. Davvero poche cose nel cosmo appaiono casi isolati. Prendiamo un esempio recentissimo: i buchi neri. Settanta anni fa erano solo l’esotica possibilità matematica, cui non credeva neppure l’autore, di uno dei possibili esiti delle equazioni della relatività di Einstein. Poi l’osservazione astronomica ne ha previsto l’esistenza reale. Fino a una decina di anni fa, essa sembrava ridotta, però, solo alla presenza casuale, dispersa nello spazio, di enigmatiche regioni, prodotte dal collasso mortale di stelle di grandi dimensioni (quattro volte la massa del Sole), che puntellavano, casualmente, gli spazi galattici. E che affascinavano, più che altro, per le descrizioni fantastiche dei fenomeni che avremmo osservato nei loro pressi: le incredibili distorsioni dello spazio e del tempo al bordo del buco nero, il racconto del destino singolare della materia che sarebbe caduta in esso, la plausibilità di una singolarità (prevista dalla relatività) all’estremità del buco, la possibilità di warmholes (cunicoli nello spaziotempo), consentiti teoricamente dall’enorme curvatura gravitazionale nella prossimità dei buchi neri, che potrebbero costituire ponti o tunnel verso remote regioni dello spazio. Un film recente, “Interstellar”, ha dato forma al fascino dei possibili racconti sui buchi neri. Di recente, però, grazie a nuove tecniche osservative, si è fatta una scoperta rivoluzionaria: i buchi neri non sono affatto regioni isolate ed episodiche dello spazio. Costituiscono, invece, una struttura, un sistema. Al centro di quasi tutte le galassie risiede un gigantesco e supermassivo buco nero, di miliardi di masse solari. Anche la nostra galassia ne ospita uno: la mostruosa creatura si chiama Sagittario A. E risiede a soli 26 mila anni luce da noi. I buchi neri galattici sono regioni dalle dimensioni impensabili. E non sono il luogo esotico descritto dai racconti sulla relatività o dalla trama filmica di “Interstellar”. Vi avvengono, invece, sconvolgenti fenomeni fisici che influenzano, per distese di decine di migliaia di anni luce, lo spazio intorno a essi. E, soprattutto, i buchi neri supermassivi non sembrano più solo luoghi sparpagliati, prodotti dal collasso finale di una grande stella. Appaiono, sorprendentemente, il centro motore delle sottostrutture in cui l’universo è organizzato: le galassie. E, da voraci e passivi divoratori di ogni cosa che superi il loro orizzonte degli eventi, si rivelano luoghi produttivi: vere e proprie nursery della materia stellare. Con una funzione: inseminare lo spazio galattico della materia che dà vita a nuove stelle e pianeti. La vita stellare non si conclude, quindi, nel collasso del buco nero. Che si mostra invece il luogo di un ciclo: morte e vita stellare si rincorrono. E questo luogo produttivo si replica uguale in ogni galassia, in ogni punto dell’universo: isotropicamente ripetuto ovunque si guardi nello spazio. Come fosse un codice. Ma il mistero più intrigante e punto di forza dell’approccio antropico, è il dilemma delle coincidenze. In primis quella delle cosiddette costanti fondamentali: l’esistenza, nella misura dei fenomeni fisici essenziali del funzionamento dell’universo, di alcune invarianti numeriche, numeri puri e senza spiegazione, essenziali perché la fisica e la chimica del cosmo funzionino. La fisica ha calcolato circa 140 di tali costanti. Dov’è il mistero? Se solo uno di questi numeri, taluni dettagliati a misure infinitesimali, fosse stato leggermente diverso, l’universo non ci sarebbe stato oppure non avrebbe potuto contenere la vita. Singolare. Ma c’è una terza coincidenza che motiva l’approccio antropico: l’età dell’universo. Chi direbbe che 13,7 miliardi di anni si rivela come una durata quasi inevitabile perché la vita esista? Non una coincidenza, ma una necessità? La nostra esistenza di osservatori presuppone, quasi esattamente, questa durata. La vita non poteva nascere né prima, né dopo. La cosmologia scientifica sembrerebbe dire così. E giustificare il più inquietante postulato del principio antropico, nella sua versione più radicale: la storia dell’evoluzione del cosmo appare essersi svolta per contenerci. Come una sorta di teleologia: le cose sono andate perché, alla fine, si producesse la vita e l’esistenza di osservatori intelligenti. La cosmologia scientifica è riuscita a svolgere il nastro della storia del cosmo, indietro nel tempo fino al Big Bang. Pressoché in tutti i suoi passaggi evolutivi il film dell’universo è stato riavvolto. E, tra le scoperte c’è la misteriosa coincidenza della durata: perché esistesse una vita intelligente e, dunque, osservatori in grado di spiegare l’universo, c’era bisogno, esattamente, di tutto il tempo e di tutti i passaggi, nessuno escluso, del racconto. Singolare. E’ noto: circa 4,6 miliardi di anni fa, da un’anonima nube di gas e polveri, agitata dal vento stellare del Sole, nato al centro della nube, prese forma un cluster di pianeti chiamato sistema solare. Tra essi, alla distanza giusta dalla stella, un pianeta fortunato: per gli elementi chimici che lo costituirono, per la collocazione orbitale ottimale (né troppo vicino né troppo lontano dalla stella), per una serie singolare di incredibili coincidenze paganti (l’inclinazione fortunata del suo asse di rotazione, l’esistenza di un campo magnetico protettivo, la formazione della Luna ecc.). La chiave della vita, però, non fu la fortuna. Né il caso. Almeno non solo. Il vero fatto decisivo fu un altro: la presenza, nella chimica della nube da cui era nato il pianeta fortunato (e l’intero sistema solare), di alcuni elementi atomici chiave, chiamati metalli: carbonio, azoto, ossigeno, ferro, silice. Da dove arrivarono tali elementi? Dove si erano formati? Come entrarono a far parte della nube che darà vita al Sole e a tutto il resto? E’ qui che il racconto si fa affascinante. Quegli elementi, per formarsi, hanno avuto bisogno di una storia non breve. E molto particolare. Il processo della loro fabbricazione ha richiesto un tempo lunghissimo di intere epoche, ere e passaggi evolutivi del cosmo: una fisica e una chimica che si svilupparono, in maniera tormentosa e non lineare, per oltre 13 miliardi di anni. L’evoluzione dell’universo è divisibile in ere, epoche e lunghi periodi. Con una caratteristica bizzarra: ogni èra o periodo di evoluzione, ogni fase dello sviluppo sembra aver avuto la durata giusta e necessaria. Una stranissima coincidenza. La prima epoca, la più importante, durò tre minuti: i primi dopo il Bang. Soltanto tre minuti. Fu lì che si produsse veramente quel qualcosa, distinto dal nulla, che per i fisici è il Big Bang: si formarono protoni, neutroni (da particelle veramente originarie ed elementari, chiamate quark) e leptoni (la famiglia degli elettroni). Quel tempo minuscolo prende il nome di epoca della nucleosintesi primordiale: nascono i mattoni elementari della materia. C’è il fantastico bestseller di un grande fisico, Steven Weinberg, “I primi tre minuti” (Mondadori), che lo descrive. Non si parla di Big Bang senza aver letto quel saggio. In quei tre minuti iniziali, l’universo diventa qualcosa: un impasto confuso e opaco di radiazione (fotoni) e materia elementare (protoni, neutroni e leptoni). Grazie alla temperatura altissima (1.010 K, dieci miliardi di gradi Kelvin ) dei tre minuti iniziali, si innescò la fusione nucleare che portò alla formazione dei nuclei dei cosiddetti elementi leggeri: idrogeno (nella sostanza un protone singolo), il suo isotopo deuterio, elio e poi tracce di altri elementi leggeri come litio e berillio. Dopo di che più nulla. Il processo si fermò. Trascorsi tre minuti l’universo, dilatandosi, si raffreddò, la temperatura crollò e la pressione diminuì. Di conseguenza la fusione nucleare si interruppe e i protoni smisero di fondersi tra loro. La prima epoca del cosmo era subito finita. La fase caldissima del Big Bang, i primi tre minuti, fu troppo breve per creare alcunché oltre i nuclei di idrogeno ed elio.

Ma la sua breve durata fu miracolosa.

 

(Il Foglio, 28 e 29 maggio 2016)

 


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