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Sagome

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 27/12/2022 16:03:01

SAGOME

La sua casa era piccola, discreta, due stanzette poste sotto la torre. A lei piaceva la posizione. Le piaceva percorrere le stradine del centro storico, oltrepassare l’arco, e sparire dietro una porta di cui nessuno avrebbe immaginato l’esistenza. Le piaceva abitare al pian terreno sotto la mole di pietra, in un angolo semioscuro.
Due locali con una finestrella, un bagno cieco. Odore di umidità e di minestra. Sembrava che il tempo non fosse mai passato lasciando intatte le cose, i ricordi. Sembrava, perché lei adesso doveva fare i conti con i dolori articolari e il camminare incerto, mentre in gioventù aveva scalato i monti intorno.
Era convinta che la solitudine non le sarebbe pesata ma, col trascorrere degli anni, desiderava sempre di più presenze vicine e mani tese.
Odore di umidità e di abbandono. Nel vano, ricavato ai piedi del patrimonio storico, la pensione modesta le faceva tenere la luce spenta e attivare di rado il riscaldamento.
Si copriva di maglie, vecchi lasciti della madre e della zia. Sarte.
Non era versata per usare il puntaspilli, chiusa tra i braccioli di una sedia, lo sguardo fisso su piccoli ricami e lavori di cucito. Aveva sempre preferito l’aria aperta.
Seguire il padre, che portava viveri e medicinali nei posti più disagiati della montagna o nei paesi sulla sponda opposta del lago, non era la semplice libertà negli spazi inesauribili. Era il corpo che, arrancando tra i sentieri, la faceva sentire viva. Raggiungere la cima, tornare a casa prima del tramonto significava vincere sulla natura, crudele e meravigliosa, indifferente e magnetica.
Una serie di lutti, in giovane età, l'aveva lasciata sola molto in fretta. Si era ritirata sotto la mole grigia e austera, non potendo permettersi le spese per la casa avita.
Per tanto tempo aveva vissuto intime felicità nel suo stato di donna libera, spesso invisibile agli occhi del mondo, ma adesso avrebbe voluto l’interessamento della gente, essere viva agli occhi di qualcuno. Qualcuno che avesse apprezzato le sue doti di sportiva, le rampicate verso cime impervie di cui si era fatta protagonista. E, invece, nessuno pareva ricordarsi.
Lei teneva appesi al muro della cucina gli articoli dei trofei ottenuti, ritagliati dalle gazzette locali: li guardava e li rileggeva ogni giorno.
Quando le persone mettevano piede nella stanzetta, l’idraulico o il falegname, lanciavano un’occhiata distratta, se non indifferente, a quei ritagli. Pensavano che fossero ricordi obsoleti di una vecchia immersa nel suo mondo lontano.
-Sono care le bollette, vero, signora Maria? - le chiese l’elettricista un giorno di dicembre.
-È per questo che tengo spento.
-Stia attenta, però: non stacchi il frigorifero, perché potrebbe guastarsi.
-Una volta, d’inverno, mettevamo il latte sul davanzale della finestra!
-Altri tempi, signora Maria, altri tempi!
Già, altri tempi. Tempi in cui illuminava l’albero e il presepe con le candele. E ora non voleva o non poteva neppure usare due lucette colorate.
E il presepe la sera diventava un ammasso, buio e confuso, di paglia e statue.
-Guarderò quello vicino al monumento!
E così Maria usciva verso le otto e, piano piano, col suo passo malfermo e il bastone, raggiungeva lo slargo verde sul lungolago dove era stata collocata la composizione. Le sagome piatte, scure da un lato e colorate dall’altro, ritraevano personaggi dell’Ottocento, molti caratterizzati dai mestieri praticati: la lavandaia, il pastorello, il falegname, il prete, la vecchina, il vecchio…
Erano significativi nella loro espressione di attesa, e molto belli.
Non c’era solo la Sacra Famiglia col Bambinello. C’erano le persone, i personaggi della tradizione, che aspettavano. Aspettavano.
E la gente si fermava. Osservava. Faceva foto. Il tutto era enfatizzato dalla musica di sottofondo, diffusa dai trasmettitori appesi agli alberi, e dalla dolcezza delle luci smorzate.
Maria sostava per contemplare. Contemplare.
Nell’antivigilia sostò più a lungo, nonostante il freddo.
C’era qualcosa che l’attirava in quelle sagome: l’espressione dei volti le rendeva persone vive.
A Maria venne voglia di chinarsi sotto la corda del recinto e di andare a sedersi sul piccolo masso che stava accanto alla fontanella: voleva entrare a far parte del gruppo di figure animate a cui il mondo prestava attenzione. E in un momento in cui il passeggio sembrava assente, prese posto accanto al personaggio che aveva appena attinto l’acqua dalla fontana. Strinse la mantellina attorno al collo, calcò il berretto di lana sul capo, attorcigliò le gambe tra loro sotto la gonna appartenuta alla zia.
La gente che passava la scambiò per un’attrazione turistica e la fotografò più volte con il digitale. Appollaiata sul masso, poté vedere una sequela di flash dedicati a lei.
Sorrise. Sorrise felice.
La musica, proveniente dai platani di fronte, era una dolce nenia che faceva dormire e così lei appoggiò le mani sul bastone con cui deambulava, chinò il capo e si assopì.
Quando si fece giorno, era sempre nella stessa posizione.
Immobile, come tutte le altre sagome intorno.

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