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I custodi della bellezza

di Livia
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Pubblicato il 24/02/2025 12:15:38

I custodi della bellezza

 

1479 mese di maggio  - Valsassina

 

Erano partiti sul far della notte.

Usava così, dalle loro parti. I mastri comacini, una volta determinata la loro lista di committenza, si accingevano a partire, cavalli e birocci stipati dei loro arnesi da muratore, fabbro, scalpellino.  

Sarebbero stati via per molto tempo.

 

Era un maggio particolarmente caldo, la stagione migliore per le tante commesse di lavoro che fioccavano dalle città urbane delle Signorìe del nord Italia. Le più affermate.

Firenze, Pistoia, Bologna, quelle erano le loro aree di committenza, molti fra loro avevano lasciato i loro nomi e cognomi sui più importanti manufatti architettonici dell’epoca.

 

Aloisio ascoltava appena i compagni di lavoro.

Nello scendere dai monti, osservava la vallata immersa nell’alone argenteo del plenilunio primaverile che ritoccava qua e là come un pennello i coppi delle povere case dei borghi della Valsassina.

Pensò con tenerezza ai figli, Domenica, Francesco ed Ercole che dormivano nei loro letti di pagliericcio e all’abbraccio malinconico di Maria, sua moglie che lo aveva appena salutato dalla soglia di casa.

Sarebbe stato un altro interminabile anno di lontananza dagli affetti familiari, ma… bisognava pur mangiare e, mangiare significava lavorare e lavorare significava “assenza”.

 

Suo padre, provetto ‘magister’, fonditore e muratore lo aveva iniziato all’arte comacina all’età di 7 anni.  Lo rivide mentalmente, intento a forgiare il metallo, le mani nodose e forti battere sul ferro, sul bronzo, trattare la lega, gli stampi e scolpire la pietra con la destrezza già pratica del mestiere. La fronte lucida, il sudore che gli colava sugli occhi mentre tentava di dar anima alle cose. E quelle cose diventavano crocefissi, madonne, campane e statue. Diventavano frutti, nastri e arabeschi di portali e capitelli. Creazione, arte pura.

Era affascinato da come la materia grezza diventava via via una forma, un’essenza e infine il simbolo vivo di un’anima, un sentimento personificato. Qualcosa di eternamente vivo.

 

Una specie di malìa, poi, sembrava aver contagiato le città e i borghi. Un fermento architettonico mai visto, un desiderio di bellezza, di stabilità aveva invaso le corti signorili che facevano a gara nell’attribuirsi i migliori Maestri. Si vociferava di un certo da Vinci, un giovane ventenne fiorentino dalle arti talentuose in pittura e in scultura e del fiorire di nuove scuole e corporazioni di mestiere.  

 

Lasciando i monti della Valsassina gli sembrava di seminare lungo le mulattiere ghiaiose tutti i propri ricordi, ombre e frammenti del passato che andavano stemperandosi pian piano fra la luna e la notte.

Bologna era lontana, avrebbero impiegato alcuni giorni per raggiungere la città, per poi sparpagliarsi nei vari borghi montani dell’entroterra. Lì, poche anime attaccate alla sacralità religiosa come unico ed assoluto conforto umano, necessitavano di una campana, di un campanile, di un rosone. 

 

 

Agosto 1479 – in un piccolo borgo montano nel bolognese

 

Poteva dirsi conclusa.

Aloisio posò l’ultimo arnese ed osservò la campana di bronzo completamente rifusa e modellata.

Il curato e gli abitanti erano accorsi in massa sul piazzale erboso della chiesa per vedere issare il piccolo colosso di bronzo sulle travi del campanile ed ascoltare così il primo battito sonoro della nuova campana. L’unica che dava ed aveva sempre dato voce al borgo.

 

Il parroco in prima fila dal volto rubicondo, maniche di tonaca arrotolate e scarpe fruste, offrì a lui e ai suoi lavoranti alcuni fiaschi di vino e si apprestò a leggere ai parrocchiani l’iscrizione scalpellata che faceva bella mostra di sé fra le icone sacre scolpite nel bronzo. Sui quattro lati dell’anello, l’effigie della Madonna col Bambino, il Crocefisso, S.Giovanni Battista e San Petronio, patrono della città di Bologna.

Con una certa aria aulica, avendone letto l’incisione approvando col capo la benedisse, e si rivolse alla gente che era rimasta in rispettoso silenzio, declamando:

 

“Mentem sanctam sponte in honorem deo” 

Aloisius de Valzasina fecit – MCCCCLXXIX (1479)”

 

traducendola – “serbate in modo naturale una mente santa in onore di Dio !” –

che era il concetto più cristiano che un uomo potesse coltivare non solo in fede ma soprattutto nei riguardi di se stesso. Possedere un animo naturalmente, spontaneamente schietto ed onesto.

 

Il sole, misto ad un’aria tuttavia fresca, illuminava quella giornata rallegrata dalla lietezza dei paesani che con un misto di attesa e partecipazione osservavano le manovre finali dei comacini.

Aloisio diede alcuni ordini, gli uomini brigarono un po’ fra le corde e i ferramenti ma tutto andò per il meglio finchè la campana trovò il suo definitivo alloggio. 

 

Bisognava infine testare la validità del suono.  L’accordatura non era stata affar semplice, Aloisio aveva lavorato con  accuratezza, centellinando in sottrazione di materiale, e quello era un lavoro di precisione assoluta, la fase più difficile.

 

Usci una nota chiarissima, limpididissima e così cristallina che si espanse come un brivido in un’onda armoniosa, la stessa onda emotiva che Aloisio lesse sul volto di tutti i paesani. Nota che giunse nitidamente ai paesi più vicini percorrendo la vallata.

Quella gente non aveva niente.

A differenza delle città, i piccoli borghi rurali vivevano in una specie di isolamento ovattato, ravvivato solo dalle ricorrenze delle confraternite religiose e dall’osteria. Ma anche il popolano più blasfemo teneva ad ascoltare il tocco del mezzogiorno, del vespro, e se si trovava sul campo a lavorare aveva premura di rispettare i ritmi di lavoro e quello delle stagioni. Aveva premura di ascoltare la campana nei lutti e nei matrimoni, e di poter accorrere in aiuto, qualora avesse suonato a martello, per stanare potenziali nemici o eventi infausti.

La campana poteva avere cento diverse voci, tutte esprimibili in significanza.

Era così da secoli.

 

Quella sera il paese in festa, diede commiato ad Aloisio della Valsassina e ai compagni comacini pronti a ripartire per altri luoghi. Offrirono vivande e frutta, riempiendo le loro bisacce anche di buon vino bolognese.

 

Nel lasciare il borgo, Aloisio riprovò la stessa identica emozione.

L’affetto, il calore della gente, la curiosità di chi per un po’ di tempo era sempre stato presente, di chi chiedeva particolari tecnici, la generosità gratuita di ognuno gli avrebbe impresso negli anni un grato ricordo. Persino certi volti, sorrisi e parole gli sarebbero rimaste dentro per sempre.

 

Dal biroccio li salutò un ultima volta agitando il cappello, era raro ritornare negli stessi luoghi ma qualcosa di sé stesso aveva pur lasciato. Una firma e un’opera della massima importanza per le anime di quel povero paese e per le loro future generazioni, un’opera che sarebbe resistita per molto tempo.

Era il 1479.

Dopo solo 13 anni, un certo Cristoforo Colombo avrebbe scoperto le Americhe.

E sarebbe sorta un’altra epoca. Un’altra storia.

 

 

**********

NOTA

I comacini lasciarono il segno delle loro opere architettoniche su basiliche, cattedrali e campanili di moltissime città, rimaste ancor oggi a testimonianza della loro arte creativa, bellezza ed arte fusa in tutt’uno.

Ho preso spunto dall’iscrizione di una campana di un piccolo borgo dell’entroterra bolognese, vagando un po’ con l’immaginazione sul testo, ho immaginato potesse essere andata così...

Questa campana ha attraversato 550 anni di tempo ed è ancora lì sul campanile. Solo durante la peste del 1630 (quella manzoniana) smise di suonare, il paese era diventato un paese fantasma.

 

 

 


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