Una città senza nome. Un tempo che non appartiene a nessuno.
Sei donne incinte camminano senza parlarsi. Lo sentono: è arrivato il momento. Nessuna alternativa, nessuna via di fuga. Le loro viscere le portano nello stesso posto: un vecchio cinema vuoto.
Dentro, l’aria sa di polvere e muffa. Lo schermo è acceso. Sta iniziando “2001: Odissea nello spazio”. Un film dimenticato, un ricordo che non appartiene più a nessuno.
Si siedono. Il brusio del proiettore, le luci calano. Nessuna parola. Solo musica. Strauss. Zarathustra. Le note esplodono e sembrano bussare direttamente nei loro ventri. Il dolore si accende.
Un’ora dopo, sulle note del Danubio Blu, le doglie diventano urla. Sei bambini nascono nello stesso momento. Tutti maschi.
I vagiti rimbombano nella sala vuota. Fuori, niente cambia. Le madri li guardano senza emozione. Non c’è gioia, non c’è stupore. Solo il vuoto di chi sapeva già tutto.
E allora accade. I corpi dei neonati si stirano, crescono. Minuti che diventano anni. Ossa che si allungano, muscoli che si tendono, volti che si induriscono. In pochi istanti hanno trent’anni. Nessuna infanzia, nessuna memoria. Solo carne adulta.
Si guardano addosso spaesati. Negli occhi il peso di una vita che non hanno mai vissuto o voluto. Cercano le madri, ma trovano solo volti spenti.
Il film si ferma all’intervallo. La sala resta sospesa.
Uno dei figli rompe il silenzio:
«Tre devono restare qui. Tre devono uscire.»
La frase cade come un colpo di fucile.
Tre rimangono. Si siedono di nuovo, facce illuminate dal bagliore dello schermo, pronti ad affrontare il secondo tempo.
Gli altri tre spingono la porta. Un fascio di luce irreale li investe. Le loro sagome tremano nel chiarore, uomini nati senza passato.
Fuori, la città non ha sole. Le strade sono dritte, infinite, senza un’anima. I palazzi lisci, senza finestre, sembrano carcasse di balene vuote. L’aria è ferma, sterile. Nessun odore, nessun vento. Tutto immobile. Fermo.
Le ombre degli uomini si deformano, si sdoppiano, spariscono. Intorno a loro, un silenzio carico. Come se migliaia di occhi invisibili li seguissero.
In lontananza, un parco. Ma gli alberi non si muovono, sembrano statue marmo messe lì da chissà quanto tempo. Non c’è vita, non c’è respiro. Solo la sensazione ossessiva di essere osservati.
Il mondo esterno non è più libero del cinema. È un’altra prigione.
La domanda resta sospesa: cos’è più reale? Il film o la vita là fuori?
@G.L. settembre 2024
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