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Rovine private

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 09/09/2025 18:25:14

Pistole puntate.
Arancine addomesticate come il ragù di Santa Lucia.
Corse notturne tra ospedali, pianti infiniti nei vicoli di Palermo senz’acqua per mesi.

Vecchi su panchine malandate, un mare in tempesta che non voleva andare via.
Sarei morto dalle sei alle otto, poi il cuore traballò.
Troppe sigarette, le prime col vomito. Vermi nelle uova, cassette di legno con i ceci, e io con le sue palle frantumate nella mia piccola mano.

Le mosche di notte non facevano male. Poi caddero, morte.
Un albero di carrubbo. Costantino e le sue prediche del cazzo.
Candele accese, tavoli rovesciati, guerre di camera da letto disfatta. Lei che aspettava al quarto piano senza ascensore.
Ho inciampato mille volte, ma non sono mai caduto.
Specchi che vendevano amore, capelli come segreto, carne cementificata.

Foto scattate e dimenticate.
Lo scalino rotto che si sbriciolava.
Io con le corde che aprivo porte, curioso della vita.
Pianti, rabbia, terrazzi piccoli, lei con le crisi, lui che se ne andava.
Mani sporche d’inchiostro. Puttane a cinquemila lire. Soldi rubati di notte, mai abbastanza.

Un luna park tutto per me.
Laura con la gamba rotta, e io che non ricordavo più dove fosse.

Francia, Germania, Inghilterra. Sempre la stessa vita, fotocopiata.
Un ego che distrugge i giorni felici.
Complicità di notti sopra bocconcini di mozzarella.
Ero giovane, scappavo dagli autobus, giocavo a biliardo, piangevo sui montarozzi di cemento.
La magnifica solitudine degli indigenti.
Una gamba lussata per fuggire via.
Corse frettolose tra i binari. Lei al telefono, poi sparì.

Nina che dipingeva e mi mostrò l’altra parte della vita, quella che gli altri nascondono.
Laura che voleva carne fresca, e io che gliela diedi. Lei mi disse cos’è una donna. Io non lo sapevo ancora.
Forse dovevo morire. Forse era lei a morire. Forse un altro a uccidersi.

Ombrelli in testa in pomeriggi piovosi.
Bovini in stalla.
Noi, dietro vetri e balconi di pioggia.

Genny cercava uno spiraglio, un chiodo dove aggrapparsi.
Campane di una chiesa sconsacrata. Fuga notturna su un treno.
Poeti maledetti, scrivere parole e racconti per quel bacio che non ti diedi.
Ultimi saluti in cimiteri lontani. Ultimi viaggi prima di cambiare vita.

Piedi sulle sbarre del letto, testa china ad aspettare.
Testa spaccata, oro rubato, rapina sventata.
Divise e briscola con le pistole sul cofano.
Fantasmi inseguiti a colpi di bicchiere.
Coca, eroina, hashish. Ma era solo lavoro.

Un abito bianco. Una madre che se ne va.
Sirene di notte sulla rampa.
Squarci in autostrada, pezzi di Stato sparsi tra l’odore acre della carne.
Ho letto tanto per non soffrire. Troppi libri per terra. Io ero già via.
Occhi azzurri. Corpi morti che ritornano.

Maria fu il primo amore. In campagna. Non la rividi mai più.
La memoria di mio padre che andava via.

Il cancro bussò alla nostra porta. Entrò con lei, che tutto poteva.
Amici non ce n’erano. Meglio così.
Stratagemmi delle stelle.
Auto blu, poi bianca. Correvo per Palermo.
Quante volte ho soffiato sul fuoco, in attesa che i giocattoli bruciassero.

Corse senza meta per ritrovare l’estasi della solitudine.
Come re, eravamo felici quando si poteva pagare un biglietto, protestare, cambiare.
Tastiere, pianoforte, chitarre sgangherate, bufere e tempeste. Poi arcobaleni, figli, cieli carichi di sogni.
Notti tra telefoni, video, attese infinite.

E infine, la fine. Porte e finestre chiuse.
Nuvole senza più forme da raccontare.
Un bacio in riva al mare, ma non era amore.
Pensieri che si affollano. Mosche che non vanno via.
Non capirò mai se spingere quel cancello o continuare a costruire viali di parole.

 

@G.L. 2023

 


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