Non sarei mai dovuto andare a quella festa in maschera.
Se avessi rifiutato l’invito, oggi dormirei senza incubi.
Palermo l’ho lasciata alle spalle, ma quella notte continua a starmi addosso come un odore che non va via. Non c’era segnale d’allarme, nessuno a dirmi “stai attento”. Ero solo, straniero, perso dentro il martedì grasso. La confusione intorno mi rendeva più vuoto, più sfinito.
Scrivevo di dèi e idoli egizi, passavo le giornate davanti al computer, la testa immersa in riti pagani e secoli morti. La sera uscivo e camminavo tra sconosciuti. Un fantasma che non incontrava sguardi.
Quella terza notte decisi di annegarmi nell’alcool. Entrai in un bar e affogai nel brandy. Maschere, urla, trombette di carta: una bolgia che dopo quattro bicchieri diventò improvvisamente amica. I volti mi sembravano meno idioti, più umani. Dietro ogni maschera c’erano occhi stanchi come i miei. Volevamo tutti fuggire.
Quando lasciai il locale camminavo come se fossi il re del Carnevale, barcollando tra luci e neon. Ricordo a pezzi: un bicchiere di scotch, ancora passi, e all’improvviso l’Egitto nella mia testa. Templi, sfingi, vergini con rose rosse. Le urla della folla erano litanie nel tempio di Apis.
Poi imboccai una strada buia, nel cuore della zona Vucciria. Case basse, vecchie, deserte. Sembravano casse di mummie in fila, sepolte vive nella polvere. Le finestre nere erano orbite vuote.
E lì capii che i morti, come i vivi, nascondono segreti.
Segreti che non vanno mai rivelati.
@G.L. febbraio 2010-2025
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