Loris lasciò la casa con la convinzione che fosse per sempre.
Non lo era. Lo attendeva solo un allontanamento temporaneo dalla famiglia, ma in quel momento la parola “temporaneo” non aveva alcun significato.
Il collegio dei preti gli apparve come un luogo fuori dal tempo, dove la vita era ridotta a regole, silenzi e punizioni.
Attraversò il corridoio con la valigia rossa tra le mani, La madre dietro che lo osservava, lui non si girò. Sulle pareti, i ritratti degli Abati defunti lo fissavano con occhi anneriti dal tempo: secoli di autorità e obbedienza distillati in quegli sguardi morti. Avvertì un gelo che non apparteneva all’inverno, ma a qualcosa di più profondo: la certezza che qui la libertà era un errore che nessuno avrebbe tollerato.
Gli sventurati compagni gli sembrarono subito irreali: visi pallidi, corpi piegati, ragazzi che avevano smesso di essere ragazzi. Erano ombre costrette a vivere, e in ognuno di loro intuiva un nemico invisibile che li rosicchiava dall’interno.
La notte, nel silenzio che gravava come una colpa, restava sveglio sulla branda. Sotto il materasso infestato teneva nascosto un quaderno. Scriveva con mani tremanti parole senza forma: versi storti, racconti di assenze, immagini di fantasmi che forse non erano meno reali dei preti che lo sorvegliavano. A volte un rumore spezzava il buio: un “tac, tac” regolare. Era il passo dell’“uomo nero”, il bastone che scandiva l’ordine, pronto a colpire. E in quell’attesa di violenza c’era la vera tortura.
Le giornate erano tutte uguali: ginocchia sui ceci, schiaffi improvvisi, prediche ripetute fino a svuotarsi di senso. Loris provava dolore, ma non lo riconosceva come nemico. Gli sembrava, piuttosto, la condizione naturale dell’esistenza: subire, stringere i pugni, resistere. Non abbassare la testa diventava il suo unico gesto di libertà.
Tentò più volte la fuga, scavalcando muri medievali, ritrovandosi per qualche ora nel mondo che ricordava suo. Ma anche fuori dall’abazia l’aria gli appariva diversa, contaminata da un sospetto: che non ci fosse davvero un altrove possibile. Intuì segreti e ipocrisie, vizi nascosti dietro le tonache, desideri che si consumavano di nascosto. Ma nulla di tutto questo lo liberava.
Rabbia e rancore lo portarono più volte a maledire la famiglia. Eppure, in fondo, sapeva che non c’era davvero nessuno da accusare. Forse tutto quello che subiva era già scritto nel suo carattere, nel modo in cui aveva scelto di opporsi al mondo.
Perché, anche in quel luogo di punizioni e menzogne, Loris sentiva che il dolore non veniva solo da fuori. Era dentro di lui, e non avrebbe smesso di accompagnarlo.
G.L. 2022 - 25
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