Tecla sapeva che era finita.
Una mano cercava invano di tappare la ferita al collo, l’altra stringeva il quadro con l’impronta di Loris. L’uomo che aveva amato e che non l’aveva mai voluta. Tutto quello che restava di lui era un vetro macchiato.
La stanza era immobile. Neppure il gatto si accorgeva del sangue che colava sul pavimento. Camminava lento, indifferente come sempre. Le urla di poco prima restavano appese alle pareti.
Luca aveva perso di nuovo la testa. Vino, rabbia, occhi che si accendevano come lame. Nessun avviso, solo un colpo secco. La gola aperta.
Da anni Tecla viveva prigioniera. Ogni giorno una gabbia che le stringeva addosso. Aveva sognato di scappare, ma non lo aveva mai fatto. A Loris aveva provato a chiedere salvezza, a modo suo. Piccoli gesti ridicoli: chiavi perse, il gatto “scappato”, notti passate a cercarlo. Lui non aveva mai raccolto. Le aveva dato un’amicizia tiepida, distante. Mai amore.
Il sangue le scivolava addosso e i ricordi le si attaccavano come zavorre. La voce di Loris al balcone, sussurri che allora sembravano promesse. Ora solo vento inutile.
Luca era già sparito. Le sirene erano lontane. Non avrebbero mai fatto in tempo. E comunque Tecla non ci credeva più. Non c’era più niente da credere.
Il pavimento le gelava la schiena, la vista si spegneva, i suoni si chiudevano.
L’ultima cosa che vide fu quell’impronta di mano nel vetro. Un amore mai nato, un segno inutile.
Poi il nero.
Poi il buio.
2024
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