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L’autostrada di Kafka

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 30/09/2025 06:19:40

 

    Non ricordavo più da quanto tempo fossi in auto. Forse ore, forse secoli. Eppure non sentivo né fame né sete. Solo la certezza che non sarei mai sceso.

Il paesaggio era sempre lo stesso: una striscia d’asfalto che non finiva, inghiottita da una nebbia uniforme. Oltre il guard-rail non c’era nulla, non un albero, non una collina, non un’ombra. Come se il mondo fosse stato cancellato con un colpo di spugna.

    Ogni tanto, nel sedile accanto, mi pareva di scorgere una sagoma. Una donna forse. Il volto però restava sempre sfocato, come nei sogni quando i dettagli scivolano via. Ricordavo solo un’iniziale, A., e i suoi occhi spalancati dalla paura. Poi, voltandomi di nuovo, non c’era nessuno.

    Il contachilometri segnava cifre assurde, milioni di chilometri. Continuava a salire con ostinazione. Avrei dovuto essere morto da tempo, eppure il motore non cedeva mai, il serbatoio restava pieno. Era come se l’auto fosse alimentata da qualcosa di invisibile, più grande di me.

Provai a fermarmi. Il piede schiacciò il freno, ma non accadde nulla. Tentai di sterzare, di deviare almeno di un centimetro. Il volante era rigido come una statua. Io ero solo un passeggero, pur essendo al posto di guida.

    Un pensiero mi attraversò: forse non esistevo più. Forse ero stato dimenticato dal mondo, condannato a continuare una strada che non portava in nessun luogo. O forse non c’era mai stato un mondo, né una partenza, né una meta. Solo questo corridoio infinito di nebbia e asfalto.

    La radio gracchiava senza tregua. Non parole, non musica, solo un lamento che sembrava provenire da lontano, come da un’altra epoca. A volte mi illudevo di riconoscere una voce. Forse era la sua. Forse era la mia.

    Con il passare del tempo (o di quello che chiamavo tempo), le domande si fecero più leggere, meno urgenti. Non era più importante sapere da dove venissi o dove stessi andando. Il pensiero stesso della ribellione mi appariva ridicolo.

   Capii che l’unica legge era l’avanzare. La macchina correva, io respiravo, la strada si distendeva. Non c’era più altro.

E allora mi arresi: lasciai che i ricordi evaporassero, che le paure si sciogliessero nella nebbia. Persino il ricordo di A. svanì. Restò solo il rumore costante del motore e la linea bianca che divideva le corsie, interminabile.

    Era quello, il senso: guidare senza fine.

 

@G.L. 2012-2024  

 


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