Il treno scomparve nella curva.
Rimasi a fissare i suoi occhi finché l’ultimo vagone sparì. Venti giorni. Troppi. Non era solo il viaggio, ma la sua distanza da me, da noi.
La città implodeva nella pioveva rabbiosa: clacson, urla, fango, liti. La strada era un mosaico di rumore e caos che mi trascinò fino a casa. La casa, finalmente nostra, immersa nel verde, lontana da tutto. Anni di mutui, sacrifici e tanti silenzi.
Dentro c’era la famiglia: Tecla, diciassette anni, già donna, già desiderata, fonte di ansia. Loris, due anni più piccolo, inconcludente, perso nei suoi sogni vuoti. Io Laura e Karol, sposati da sette anni prima che i figli arrivassero, distanti come due estranei. Lui sempre via, divorato dal lavoro… e da un’altra donna. Io aspettavo, sospesa in un silenzio che pesava troppo.
Poi arrivarono i ragni. Invisibili, piccoli, muti. Poi sempre più numerosi. Una ragnatela fredda e sottile si stendeva su ogni superficie, invisibile ma viva, un filo di ghiaccio che ci univa.
Una sera, uno cambiò. Pelle, occhi, carne. Umano, ma incapace di camminare. Rannicchiato nell’angolo, muto, consapevole. Non mangiava, non dormiva. Guardava. Io lo sentii lì per me.
Non c’erano parole. Non servivano. Lo presi. La sua immobilità era elettrica, i suoi occhi caldi come brace. E lo desiderai. Lo amai in silenzio.
Da quell’unione nacque un bambino impossibile: un ragno-bambino, occhi vivi, pelle lucida e piccola, ma con la forma umana.
Karol tornò all’improvviso. Vide, capì. Ma non poteva accettarlo. Si lanciò dal balcone. Il cortile lo inghiottì come un’ombra spenta. Fine della storia.
Tecla e Loris osservarono. Paura, stupore. Poi accettarono il fratello strano, muto, potente nella sua innocenza mostruosa.
La casa cambiò. L’equilibrio vacillava, fragile, vivo. Il terzo figlio restava nell’angolo, immobile, a osservare. E guardava tutti.
Ogni rumore, ogni sguardo, ogni respiro passava attraverso lui. La ragnatela si fece corpo, e la famiglia, così strana e instabile, ne divenne prigioniera e complice.
@2015 - 25
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