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Desiderio e Orgoglio

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 05/10/2025 10:53:13

Origine del racconto

L'idea di questo breve racconto nacque nel 2014, quando vennni a conoscenza di una storia che mi colpì profondamente. Da allora l’idea ha preso forma e si è evoluta con me, attraversando anni di scrittura che mi hanno reso più maturo. Nel corso degli anni l'ho ripresa tante volte, senza mai riuscire a trovare la strada giusta. Solo qualche settimana fa ho deciso di riprenderla e darle una conclusione definitiva.(speriamo bene)

Il racconto parla di un amore impossibile, quello classico tra un uomo e una donna, ma visto attraverso lo sguardo di lei: un conflitto costante tra desiderio e orgoglio, tra la voglia di abbandonarsi e la consapevolezza della propria colpa. È una confessione spietata di come ci si possa autodistruggere senza volerlo, semplicemente per proteggersi da ciò che si desidera di più.

Parla di una donna fragile e feroce allo stesso tempo, che sceglie di fuggire, di rifugiarsi nel suo orgoglio disperato, piuttosto che cedere ai sentimenti. Alla fine, l’amore non salva, ma svela tutto: il marcio e il puro, il rimpianto e la passione mai consumata, la forza e la debolezza di chi lo prova.-

 

 

    Come una nemica che non si arrende, era tornata.

 

    Non un ricordo del corpo, ma solo un pensiero sottile che le camminava dentro, come un calabrone che non muore mai.

 

   Tecla lo percepì ancora prima di aprire gli occhi: da settimane cercava di scappare da quella presenza, eppure ogni mattina Loris tornava, ovunque e in nessun luogo, nella memoria che non le dava tregua.

 

Loris.

 

    Il nome le si fermava in gola, amaro come il primo tiro di sigaretta al mattino.
Aveva creduto di potersi salvare andandosene via, ricominciando altrove. Ma da cosa si scappa, se la prigione è nel sangue? E da cosa si fugge, se il veleno è ciò che non è mai successo?

 

Si alzò. L’aria di ottobre filtrava dalla finestra e un filo di tramontana le accarezzò i capelli. Per un momento pensò che fosse un segno, una spinta. Poi rise, piano. Quasi in silenzio. Il vento promette libertà solo a chi non ha radici, e lei, nonostante tutto, le radici le aveva ancora lì: nei silenzi che le mordevano la mente, nei ricordi che la costringevano a misurare ogni passo.

 

    Aprì la valigia e mise dento pochi indumenti: una camicia bianca, fotografie in bianco e nero che non aveva avuto il coraggio di strappare — scatti rubati di lui, sempre a distanza, sempre lontano dalla sua vita — e il desiderio malato di dimenticare. Ogni oggetto era una ferita piegata con cura.

 

“Bastava solo un passo… ma non ho avuto il coraggio. Non posso. Non voglio. Non devo. Eppure… è tutto ciò che volevo dalla vita. Solo amore.”

 

   Quel pensiero le scivolava nella testa ogni volta che provava a respirare. L’orgoglio le stringeva il petto, una morsa che non voleva lasciare andare. Ogni volta che Loris si avvicinava, anche solo nei suoi ricordi, lei fuggiva. Paura e desiderio intrecciati, guerra interna che la consumava.

 

Quando fu pronta, restò ferma davanti alla porta.

 

Sentiva il cuore battere, ma non era paura. Era quel tipo di dolore che non fa rumore, ma ti piega in due.

 

    Aveva sognato tante volte di sparire, di scomparire davvero. Ma sapeva che anche a chilometri di distanza Loris sarebbe rimasto con lei, invisibile e vivo. Un fantasma che non aveva mai avuto il coraggio di toccare, ma che le bruciava dentro più di ogni fuoco.

 

“Non si fugge da ciò che ti somiglia,” mormorò, e la voce le tremò per un istante che sembrò eterno.

 

 

    Partì una mattina d’autunno, senza salutare nessuno.

 

Palermo si svegliava lenta, come sempre, impastata di luce sporca, immondizia e traffico. Lei camminava veloce, con la valigia che le batteva contro la gamba e il cuore che faceva più rumore dei passi.

 

Non si voltò. Non voleva vedere i balconi scrostati, la lunga scala, né le persiane che avevano ascoltato troppe notti.

 

    Loris era in ognuno di quei muri, nei vicoli, nei gesti sfuggenti. Restare avrebbe significato marcire accanto al suo nome e a un giuramento che lei non poteva rompere.

 

    Arrivò al treno con l’affanno di chi fugge da un incendio invisibile. Si sedette e chiuse gli occhi.

 

Il rumore dei binari la ipnotizzò per un po’, come un mantra.

 

“Forse adesso sarò libera… ma non sarò mai sola. Perché lui è ovunque. Lo sento nei respiri, nei silenzi. Lo sento nella parte di me che non ha mai voluto cedere. Il mio orgoglio mi ha uccisa più di chiunque altro.”

 

Ma la mente non si sposta con i bagagli.

 

    A ogni curva, Loris tornava. In un gesto, in un profumo, nella forma delle mani di uno sconosciuto seduto di fronte a lei. Tornava nell'assenza di un bacio mai dato, nel ricordo di una mano sfiorata per caso.

 

Era ovunque e da nessuna parte, come un veleno che non uccide ma stordisce.

 

    Nei giorni successivi prese una stanza in affitto in una località di mare, non lontano da Palermo. Ricominciò da zero: un nuovo lavoro, pochi volti, nessuna spiegazione. La gente la trovava gentile, tranquilla, affabile, generosa, con quegli occhi che però non ridevano mai. Osservava l'orizzonte infinito del mare, ma capiva che quello era un limite non più superabile di quello che Loris le aveva imposto.

 

“Se solo avessi mollato l’orgoglio… se solo… e invece ho continuato a costruire vuoti che mi fanno male ogni giorno. La mia scelta. Sempre mia.”
Nessuno sapeva che la notte, quando la città dormiva, lei lo sentiva ancora.
Non la voce, non l’odore — la presenza.

 

    Come un battito che si incastra sotto il suo, come una carezza che non smette anche se non c’è più nessuno.

 

Provò a resistere. Si buttò nel lavoro, nelle passeggiate lungo il porto, nei bar dove nessuno la conosceva.

 

Ma ogni volta che si convinceva di essere salva, la sua mente le ricordava che Loris non era un uomo.

 

Era una condanna.

 

    La condanna di un desiderio che non poteva realizzarsi e che per questo non si consumava.
E ogni notte, prima di dormire, Tecla pensava:

 

“Posso scappare da tutto, ma non da chi mi ha attraversata. E non da me stessa, che ho distrutto ciò che potevo avere.”

 

La telefonata arrivò in un pomeriggio di novembre.

 

    Tecla era seduta sul letto, a leggere un libro qualsiasi, di quelli che non lasciano niente. Il telefono vibrò, e per un attimo pensò a un numero sbagliato. Poi vide quel nome sullo schermo.

 

    Loris.

 

    Restò a fissarlo, come se potesse cambiare da solo, dissolversi.

 

    Non cambiò.

 

Rispose con voce calma, ma dentro il cuore le martellava come un pugno.

 

«Tecla…»
Bastarono quelle due sillabe.

 

    Lui non aveva bisogno di dire altro: in quel tono c’erano anni di silenzi, di cose non dette, di mani che non si erano mai prese del tutto. C’era il peso invisibile dei loro desideri mai consumati, dei sogni spezzati tra orgoglio e paura.

 

“Lo voglio. Lo odio. Lo voglio. Lo odio. L’orgoglio mi ha tenuta lontana. L’orgoglio mi ha uccisa. Sempre lui. Sempre il mio vizio, sempre mia la colpa.”

 

«Ciao, Loris.»

 

    Sembravano due vecchi amici, due che si ritrovano per caso dopo secoli.
Parlarono del nulla: del tempo, del lavoro, di quanto fosse cambiata la città.
Ma sotto quella normalità scorreva un fiume che ribolliva.

 

Ogni pausa, un battito fuori posto.

 

Ogni risata, un ricordo che mordeva.

 

I loro respiri dicevano più delle parole.

 

Dicevano dei pianti ingoiati, delle notti insonni, dei sogni spezzati a metà.
Dicevano di quell’amore rimasto sospeso tra ciò che era e ciò che non era mai stato.

 

   Quando la conversazione finì, nessuno dei due trovò il coraggio di dire “a presto”.
Restarono sospesi, immobili, con la stessa consapevolezza addosso: che a volte l’amore non muore, semplicemente cambia modo di farti male.

 

Tecla posò il telefono sul comodino.

 

Fu allora che capì che non era mai davvero partita.

 

   Aveva attraversato città, stagioni, uomini… ma Loris le camminava ancora dentro.
Nella testa, nel corpo, nella notte.

 

    Come un vizio che nessuna distanza guarisce, soprattutto quando è l’orgoglio tuo a trattenerti dall’unica cosa che avresti potuto avere.

 

    “Sempre lui. Sempre questo desiderio che non ha nome, che non ha forma. Ma è mio. Sempre mia la colpa.”

 

 

         @G.L. 05.10.2014 – 2025

 

 

 


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