Sono venuto al mondo in un pomeriggio d’agosto del ’62. Gli anni migliori, dicono. Quel giorno non faceva il caldo che oggi ti scioglie la voglia di vivere. C’era una brezza, una specie di benedizione. Forse il mondo si stava preparando al mio arrivo, cercava di fare il paraculo. Non ha funzionato: ho sempre odiato il caldo.
In casa c’era un gatto maculato, stronzo, che giocava solo con mio padre. Io lo odiavo. C’erano pochi giocattoli di legno e un cesto d’arance sopra un mobile. La frutta, allora, era roba da ricchi. La notte non dormivo mai: due carrozzine rotte, mio padre che bestemmiava perché alle tre doveva già andare a lavorare.
E poi c’era lo zio Peppino. Capelli bianchi, basso, buono come il pane. Veniva quasi ogni giorno con un regalino in tasca, come se io valessi qualcosa. È stato il primo a crederci. Me lo ricordo ancora addosso, come una carezza che non se ne va. Quando penso a lui, sento ancora il profumo delle castagne secche che mi comprava per strada, nelle nostre lunghe passeggiate a Termini Imerese.
Poi sono cresciuto. Male per me, peggio per loro. La ribellione mi colava addosso come sudore putrefatto. Mi bocciarono alle medie, e i miei decisero di rinchiudermi in un’abbazia. Tre anni. Un riformatorio travestito da collegio. Preti che parlavano di penitenza e distribuivano bastonate. Ti inginocchiavano sui ceci, e la notte andavano a “confessare” le monache. Clausura un cazzo. Quelle aprivano le tonache come le saracinesche dei bar il sabato notte.
Ne ho prese tante, ma qualcuna l’ho anche restituita. Non per orgoglio, per sopravvivenza. Ho finito lì le medie, e pure un pezzo di pazienza.
Poi ho trovato il mare. Lui sì che mi capiva. La pesca subacquea diventò la mia religione. Scendevo giù che sembravo un dio ubriaco, maschera appannata e cuore che batteva solo lì sotto. Ci ho lavorato pure, per necessità e per non impazzire. L’acqua era l’unico posto dove stavo dritto.
In mezzo ci furono boxe e lotta libera. Mi piaceva l’odore di paura, ma il richiamo dell’acqua era più forte. Sempre stato anfibio. O forse solo un disadattato con il vizio di respirare a modo suo.
Poi arrivarono le donne. Benedette e maledette. A tredici anni una mi “svezzò”. Da lì in poi fu un lungo giro tra desiderio, promesse e fughe. Ogni volta che una parlava d’amore con quella voce da bambina scottata, io prendevo il largo. Non per vigliaccheria. Istinto. I lupi non mettono collari.
Le ho rispettate. Forse. Le ho amate? Chi lo sa. Di certo le ho ricordate tutte, anche se ogni tanto fingo di no. Mi vengono in mente certe notti, insieme all’odore di tabacco e alla nostalgia di un mare incazzato. Notti in alberghi che sanno di piscio vecchio. Fughe dai treni e pianti notturni. Milano non era come oggi e a Roma si stava a letto sempre in tre.
Dopo nove anni in tipografia, con le mani nere d’inchiostro e la testa piena di rumori, arrivò la Polizia. Mi arruolai. Otto anni di Volanti vere, non le fiction di oggi. Poi diciannove alla Squadra Mobile di Palermo, sezione Antidroga. Lì trovai il mio posto. Mi chiamavano “Il Mago”. Non per magia, ma perché sapevo leggere le persone. Infine nove anni all’Antimafia, dove ho chiuso la partita.
Palermo non ti lascia mai. Ti ama o ti mangia. Io ci ho convissuto, come con un fantasma che non smette di parlarti la notte.
Alla fine ho smesso di scappare anche dalle donne. O forse non avevo più fiato. Arrivò lei. Quella giusta, o almeno quella che aveva la pazienza di tenermi in piedi. Ci sposammo mentre mia madre se ne andava. Cinquant’anni. Troppo pochi.
Quattro figli, tutti maschi. Nessuna femmina. Ogni tanto guardo il soffitto e penso: “Mi sarebbe piaciuta una piccola stronza come me.” Ma la vita non mi ha mai fatto sconti.
Ho cercato sempre qualcosa, e ancora non so cosa. Ma va bene. Ho fatto di tutto, nel bene e nel male. Forse ho fatto bene, forse no. La mia vita è stata un ottovolante: sali, scendi, curva, deraglia, riparti. E adesso, guardando indietro, sorrido. Non perché sia andata bene. Ma perché, come una vecchia puttana non smette mai di andare.
giugno 2015
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