L’inquisizione in Sicilia:
l ‘organigramma del Sant’Uffizio siciliano a metà del Cinquecento
La Sicilia in pieno ‘500 si sentiva ormai integrata nella realtà della grande Spagna. L’economia siciliana si era ripresa dopo la crisi determinata dalla cacciata degli Ebrei (1492), così come aveva ormai conseguito il suo equilibrio sociale, dopo la cacciata del vicerè Ugo Moncada (1523) e dopo le rivolte dello Squarcialupo. (1) La venuta nell’isola dell’imperatore Carlo V, dopo l’impresa africana e il trionfale ingresso a Palermo (1535), determinò un secolo di tranquillità politica. Fra i tanti privilegi che i siciliani chiesero ed ottennero dall’imperatore vi fu anche quello della sospensione per un quinquennio, che venne subito rinnovato alla scadenza, delle prerogative della Santa Inquisizione. In Sicilia, durante il periodo dell’Inquisizione, tutte le categorie sociali furono a rischio e sottoposte a delazioni; i supposti colpevoli venivano imprigionati ed avevano i beni confiscati. Molti, sotto tortura, confessavano anche colpe non vere, e alla fine venivano “relaxati” all’autorità civile: “Coloro che si riconciliavano col pentimento erano condannati a portare un abito particolare che li facesse riconoscere, il “sambenito” oppure a camminare con un sacco in bocca e una corda al collo”. Coloro che fuggivano e si sottraevano all’arresto venivano simbolicamente bruciati in statua o in effigie. I riconciliati subivano anche la fustigazione a sangue e la condanna al carcere duro. Le accuse coinvolgevano famiglie intere (i Nava, i Carruba, ecc…); se le accuse dei delatori risultavano infondate, essi venivano condannati alla fustigazione. Tra le persone a rischio vi erano quelle diverse per religione e razza (Ebrei, Musulmani) e le streghe o megere. Nel 1555 fu noto, difatti, un processo “super magariam” o per magia contro la messinese Pellegrina Vitello (2). Il processo si svolse intorno al 1550, al cospetto di monsignor Bartolomeo Sebastian, vescovo di Patti. E’ da lui che fu condotta questa donna di origini napoletane, residente a Messina e moglie di un fedifrago setaiolo. La Vitello, abbandonata dal marito per un’altra donna, cerca di sbarcare il lunario millantando poteri divinatori e magici, però venne denunciata da alcune anziane donne come strega. Esse riferirono alle autorità giudiziarie che la “strega” in diverse occasioni aveva preparato fatture ed invocava i demoni, era capace di cadere in trance nel guardare una caraffa piena d’acqua e di preparare sortilegi e magie varie.
Dopo quattordici giorni di detenzione, la donna, nonostante fosse stremata da atroci torture, (come quella della corda: da una robusta trave da cui pendeva una corda, la vittima era lasciata cadere con i polsi legati dietro la schiena, con il risultato che le sue braccia e le spalle si slogavano) continuò a dichiararsi innocente, affermando “non sacho nenti”. Tuttavia, il 12 maggio 1555, Pellegrina Vitello è condannata al rogo nel solenne “autodafé” pronunciato nella piazza della Cattedrale di Messina, insieme ad un luterano e ad altre undici persone tra streghe, bigami e bestemmiatori. Successivamente la condanna è commutata e la “strega” Pellegrina Vitello è costretta ad andare in processione con un cero in mano ed una mitria in testa per le strade di Messina, fustigata senza pietà lungo il percorso.
Nell’ambito della lotta contro l’introduzione nell’isola dell’eresia luterana, specialmente dopo l’arrivo dell’inquisitore Giovanni Bezerra de la Quadra, fu posto sotto il controllo del sant’Uffizio tutto l’ambiente religioso e laico: insegnanti, maestri, librai e tutti quei forestieri che potevano essere veicolo di diffusione delle idee luterane.
Carlo Alberto Garufi (3) ha ben esaminato quest’aspetto dell’attività inquisitoriale in Sicilia, sottolineando il settarismo dell’Inquisizione che, affidata ai Domenicani, cercò gli eretici fra gli altri ordini religiosi: agostiniani, francescani, frati minori e i maestri di teologia.
Si temeva soprattutto la presenza di tedeschi e fiamminghi che potevano propagandare le idee luterane e a tal proposito l’inquisitore del tempo, nel 1569, riporta quanto lo scrivano genovese Nicolò dà testimonianza della discussione avvenuta tra fiamminghi e francesi, a cui fu presente: “Persone fiamminghe e francesi discutevano della setta luterana affermando che le immagini sacre non dovevano essere venerate”.
La presenza dell’Inquisizione siciliana così, come in tutte quelle “terre” poste sotto il dominio spagnolo, costituiva una sorta di potere occulto, controllando la coscienza di tutti gli uomini, impedendo che le loro menti potessero allargare gli orizzonti conoscitivi al progresso della scienza del XVI secolo. È il periodo della Controriforma e della lotta all’eresia luterana: non solo la Chiesa si sente attaccata nel suo impianto dottrinario, ma soprattutto nei privilegi ecclesiastici. Ecco perché, con decreto del 16 marzo 1782, il sovrano napoletano Ferdinando--- “volendo togliere ai suoi vassalli l’occasione di essere ingiustamente oppressi, […] ha sovranamente risoluto che si abolisca il tribunale del Santo Ufficio in cotesto regno”. Difatti, il compimento di questa sentenza avvenne con una solenne cerimonia, alla quale il vicerè Caracciolo invitò tutte le autorità siciliane, presenziando egli stesso all’evento. In quell’occasione vennero dati alle fiamme tutti i documenti che avrebbero potuto nuocere ai membri dell’apparato inquisitoriale e, insieme ad essi, tutti i processi pendenti contro “presunti eretici”, come furono pure date alle fiamme le carceri dello Steri con tutti i graffiti dei condannati dal Santo Ufficio. Molti documenti però, soprattutto quelli che riguardavano l’archivio messinese, furono conservati alla fine del Seicento dal vicerè conte di Santo Stefano quando lui requisì per ordine del sovrano “tutti i documenti della città” e dell’Archimandritato di Messina che fanno parte dell’archivio ducale Medinaceli di Siviglia.
Questo rogo fa pensare alla polemica sorta in Italia per quanto riguarda la distruzione delle carte del Sifar, i Servizi Segreti Italiani, affinchè non si conoscessero i nomi dei delatori e degli informatori dei nostri servizi, anche se gli storici hanno sempre sostenuto che qualsiasi documento degli archivi del Sifar, falsi o legittimi che fossero, dovevano essere sempre oggetto di studio e di analisi relativa alla veridicità della fonte. Però evidentemente troppi nomi di persone compromesse e insospettabili “collaboratori eccellenti” dovevano essere eliminati, come difficili e scomode potevano essere alcune verità sul rapimento di Moro e sulla contiguità fra Stato e mafia per un certo periodo della nostra Repubblica. Allo stesso modo, quel falò del 1783 cercò di proteggere quegli esponenti responsabili di contiguità del rapporto fra Inquisizione e mafia.
Tuttavia, molti dati relativi all’organigramma di base di tutte le reti inquisitorie siciliane sono contenuti in questo documento (Carte de Legayo doc. n.03) (4), l’unico che sia stato salvato dal rogo ordinato dal vicerè D. Caracciolo.
Questo documento, dagli studi effettuati dai docenti di Storia medievale dell’Università di Palermo, (5) conteneva la “Matricula de los officiales y familiares de S.ta Inquisicion del Reyno de Sicilia”. Esso fu redatto dal segreto dell’Inquisizione Jan Perez De Aguilar per ordine del sovrano nel 1561. L’analisi del documento rivela, per 146 centri dell’isola, un numero di 539 affiliati all’Inquisizione e dal rapporto segreto del capitano Lopez Villegas Figueroa (1565) si sa che “En ciascun paese non devono esserci meno di quattro ufficiali e di un familiare, cioè un luogotenente di capitano, un giudice e un luogotenente di maestro notaio, e un ricevitore e un familiare” (6). A Palermo, che era la sede ufficiale del Sant’Uffizio, esisteva un organico completo ed articolato. Ne facevano parte quattro consultori, un avvocato dei carcerati, un giudice dei beni confiscati, un medico delle carceri, due medici generici, un chirurgo, una barbiere e un aromatario. E poi i luogotenenti: di capitano, di maestro notaio, di ricevitore, ed un prete, lettore delle sentenze.
Notizie storiche tratte dal testo: Dossier inquisizione Sicilia di Francesco Giunta Palermo, Sellerio, 1991
Vicenda riportata da Leonardo Sciascia, nel testo “Morte dell’inquisitore” Milano, Adelphi, 1967 pag. 60-61
C.A Garufi, “Fatti e personaggi dell’inquisizione in Sicilia”, Palermo, Sellerio, 1977.
I documenti citati sono quelli relativi a Matricula de los officiales y familiares de la S.ta inquisicìon del reyno de Sicilia Dyose dya de los Reyes de 1561 (6 gennaio) analizzati e studiati dal professore Francesco Giunta nel testo sopra citato.
Ibidem
Ivi pag. 35
Giuseppina Bosco
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