Il sottotitolo della breve raccolta è più esplicativo dell’enigmatico titolo: “Racconti di una giornata qualunque”. Si tratta di una giornata sezionata in modo minuzioso, con passione quasi entomologica dal giovane autore. Ogni gesto, parte di quella costellazione che chiamiamo giornata, è posto sotto la lente d’ingrandimento, analizzato e messo in correlazione con la miriade di altri gesti che l’hanno preceduto e seguito, e reso capace di mostrare l’enorme numero di varie ramificazioni che la minima cosa fatta porta con sé. Quel che emerge dalla lettura è la vita di un uomo qualunque, impiegato in un ufficio, vagamente snob, amante del proprio microcosmo, che vezzeggia con delicate considerazioni ed aperti complimenti, come nel caso del bel cappotto che l’accompagnerà nella passeggiata che dà anche il titolo alla raccolta. Racconti che potrei definire immobili, se ciò non rischiasse di dare un’aria di ingessatura alla scrittura. Immobili perché analizzano, sezionano e descrivono fatti che si svolgono nel giro di pochi attimi, o di ore, ma che sembrano non portare il protagonista in alcun luogo, che lo mostrano mentre attraverso i suoi gesti esprime il suo essere.
Una scelta singolare, quella di Ciafardone, che ci rivela, attraverso le parole, la sua passione per la fotografia; il suo occhio è capace di cogliere attimi che lasciati passare potrebbero rischiare di apparire insignificanti, ma che posti in luce e nella giusta prospettiva hanno molto da dire. I gesti sanno rivelarci l’esistenza del protagonista, la sua solitudine, a tratti compiaciuta, la sua curiosità dettata più da un capriccio momentaneo che da una voglia di scoperta, solitudine che segna una ricerca, attraverso una finestra, una vetrina, ma che rende al protagonista sempre la sua immagine riflessa. Solitudine dettata dalla consuetudine, dal bastarsi più che da una mancanza. Il tempo si dipana lento tra la svogliatezza e il compiacimento di ciò che si ha, ogni oggetto e descritto, preparato per l’analisi da parte del lettore, alle volte l’autore si abbandona con gusto quasi fanciullesco alla passione per le raccolte impossibili di Perec, altre volte la minuziosa descrizione delle cose le trasforma in oggetti chimerici, quasi inesistenti e forgiati dalla fantasia, poiché più delle volte, per descrivere la realtà, bisogna ricorrere all’irrealtà.
I racconti mostrano il dipanarsi di una giornata del protagonista e sono raccontati sviluppati con millimetrica precisione, con un linguaggio misurato e di sicuro effetto, quasi che le cose esistessero solo per il piacere di raccontarle. La parola sembra ricreare gli oggetti ammantandoli di una luminosità che non hanno o non possono avere, Ciafardone fa intravedere che è l’occhio attento dello scrittore a giustificare le cose e a trovare per loro una precisa collocazione, salvandole dalla banalità del quotidiano, donando loro l’immortalità aureolata della letteratura. Un libro singolare molto ben scritto e assai piacevole. Per finire sarei tentato di provare una spiegazione per il calembour del titolo, ma preferisco lasciarlo nel suo ellittico e vagamente luminescente mistero.