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il gran cercare - nella poesia di m. b. cerro

Argomento: Letteratura

Saggio di Raffaele Pellecchia 

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Pubblicato il 05/07/2012 19:10:22

IL “GRAN CERCARE” NELLA POESIA DI M. B. CERRO

Di Regalità della luce di M. Benedetta Cerro, edito sul finire del 2009 da Sciascia (nella collana Scrittori del Mondo, diretta da Franco Zangrilli,) bisogna innanzitutto dire che si tratta di un libro e non di raccolta di poesie, per sottolineare il carattere organico e rigorosamente evolutivo della sua struttura, che risponde alla logica di una costruzione fondata su un progetto concettuale e speculativo lucido e sottratto alla estemporanea occasionalità che spesso connota la produzione lirica: un libro pensato e pensante, espressione singolare di quel pensiero poetante che ha illustri antecedenti nella storia della poesia, e che rifugge per sua intima natura da ogni indugio minimalistico così come dalla tendenza all’atomismo creativo, alla solitudine della scheggia lirica, al fascino e alla seduzione del frammento. In questo senso, esso rimanda piuttosto ai modelli e alla lezione di un classicismo non esornativo, con l’aspirazione ad una compiutezza formale e ideologica che comunque risulta costantemente revocata in dubbio nel momento stesso in cui è sostenuta, alimentata e perseguita. Sicché la fondamentale matrice classica, di fatto, viene compromessa e infranta da una tensione teoretica e spirituale assolutamente novecentesca. La difficile convivenza di queste due spinte appare esemplarmente riassumibile nella metafora e nell’archetipo del viaggio che mentre presuppone un itinerario che contempla una partenza ed un arrivo, in realtà, poi, non conosce la linearità di un percorso agevole e rassicurante, e piuttosto sperimenta l’impervia ascesa, la sosta allarmata, ovvero il pericolo dell’abisso, la minaccia del buio accanto alla speranza della luce, la fatica del cammino rinfrancata dal profilo della meta finale.
A indirizzarci in questa direzione, vi sono delle poste semantiche e iconografiche disseminate lungo il tragitto testuale del libro che confermano sia la centralità dell’allegoria del viaggio, sia la natura drammatica e non pacificante del suo divenire. Si tratta, va da sé, di un viaggio di conoscenza, arduo per chi lo intraprende, in qualità di autore, ma anche per chi lo percorre come semplice lettore.
La poesia di M. B. Cerro, va detto preliminarmente, esige un lettore attento, intellettualmente vigile, disposto a mettersi in gioco in una continua e problematica attività di decrittazione di fronte a figurazioni ed immagini dotate di un alto tasso di simbolicità, spesso appena alluse e comunque di non sempre agevole individuazione, ellittiche come sono di espliciti riferimenti di realtà e per lo più sospese in uno spazio fortemente interiorizzato. In realtà, il suo percorso si svolge esclusivamente nello spazio della coscienza, e procede lungo le sezioni di una toponomastica interiore che s’inizia con una sorta di liturgia di congedo dai frammenti di una storia personale segnata da troppe e dolorose lacerazioni, dalla compagnia di un immedicabile e inemendabile sentimento di sofferenza che da dato bio-esistenziale si trasforma in entità metafisica.
Prima di cominciare il nuovo cammino, infatti, è necessario procedere nella “discesa” e nella “traversata” dei passati luoghi dell’agguato, per liberarsi dalla loro sinistra e infausta seduzione e affrancarsi dalle trappole di una rimozione mai compiuta e costantemente affiorante, che agisce quale corrosiva e tenace insidia, come una sorta di sottile veleno che deprime il presente e tarpa le ali al futuro. Il che non avviene senza fatica, e piuttosto si definisce per un atto di decisa e consapevole volontà, come al termine di una lunga controversia con se stessi che si conclude con l’apertura di un nuovo orizzonte di luce e di speranza. Il tentativo della risalita, il fiducioso seppur faticoso processo ascensionale verso il luogo della luce, non può attivarsi se non dopo una lucida discesa agli inferi della propria esistenza, dopo un virile e consapevole attraversamento nel magma del proprio passato, a cui si nega con forza il diritto di compromettere ulteriormente il residuo cammino che resta da compiere.
Assai illuminante per intendere il disegno ideologico che anima questo denso volumetto, posta non a caso in posizione proemiale, è la poesia d’apertura, che, con un timbro fortemente percussivo (potenziato, nei primi due versi, dalla struttura anaforica scandita dalla iterazione dell’avverbio di negazione non), fissa la condizione e, direi, la premessa di una rinnovata esperienza esistenziale, spirituale e gnoseologica. Forse anche per M. B. Cerro, con questo ultimo libro, come per Dante, Incipit vita nova:

Non ti chiamerò e non verrai.
Non ti concedo di chiamare.
Questo sciocco inizio dell’angoscia
Ha trovato più felici porte.
Ricorda: più avanti della gioia
é l’eterno maturare di un disegno.
La parete nuda, la chiave come pegno
e senza lanterna verso un sogno andare
che alla vita somiglia.
Solo più volubile
e più straniero il tempo.
Non bussare.
E’ stato a questa soglia imposto
un vigile divieto.
Leggi. E’ la parola
Il cardine e la spranga.

Si tratta, va precisato, non di azzerare o di rimuovere la precedente stratigrafia dell’angoscia, ma di dominarla vigilando su di essa per impedirne una inopportuna e ingiusta insorgenza, ora che si può dire di aver trovato “più felici porte”, di aver individuato nella parola, nella sua accezione sacrale e scritturale, “il cardine e la spranga”, che può aprire o serrare l’oscuro sentiero della verità e della salvezza. Di fatto si dice di un difficile e faticoso “andare” “senza lanterna” “verso un sogno/che alla vita somiglia”, di un procedere che conosce e sperimenta l’incubo di una periclitante salita fissata in una rappresentazione onirico-surreale (che è da considerarsi un acquisto della recente stagione poetica della Cerro) da cui riaffiorano i fantasmi di un inconscio sfuggito ad ogni supposta e proclamata vigilanza della ragione: “Nel buio fitto la figura/ che sale i labirinti a pioli/ a quale sommità dispera di giungere/ e piedi abbracciare/ prima di toccare/ fresca di pianto la guancia/ con amare labbra”. E nella conclusiva clausola dubitativa, che tradisce il senso di una intenzione retorica affermativa, si ipotizza che “il cammino rovinoso/ e stanco porta all’edicola vuota/ presso il muro che sogna/ rampicanti accesi”.
Ma anche altrove sono disseminate metafore che marcano la difficoltà dell’incedere, come quella, di rara efficacia figurativa, emblematizzata nel solitario e spaesato vagare di chi è significativamente e coerentemente sprovvisto di una qualunque identificazione, lasciato alla sua anonima indefinitezza: “Uno che a testa bassa/ fissa il manto sconnesso della via/ e non vede dove porta./ Uno che non vuole dietro/ altro che il suono del suo passo/ e la sua ombra./ Cosa spera di trovare ancora/ oltre l’involuzione del grido?”. E, tuttavia, sia pure “senza lanterna”, o per via sconnessa e senza certa uscita, la scommessa che pare proporsi è nel segno della speranza e della luce, nel momento stesso in cui si riconosce, e si teme, la trappola del labirinto e la pervasiva invadenza del buio, la cui sinistra regalità non è meno potente di quella della luce.
La stessa luce, peraltro, non è colta e rappresentata come acquisto di certezza, ma piuttosto come tensione desiderante, come termine di confronto che nella sua remota assolutezza rivela la dimensione ‘irrrisoria’ dell’hic et nunc, ovvero della ineludibile labilità ed insussistenza dell’umano e terreno transito esistenziale: “Con occhi avidi di luce/ considero il mio punto irrisorio./ E finalmente espio/ la presunzione di vivere”. Desiderata, certo, la luce, ma anche inaccessibile (“Abita una luce inaccessibile colei/ che dispensa vendemmie di gioie”); ora attesa con fiduciosa calma (“Tu sei la nebbia/ che divide e abbraccia/ nella calma attesa della luce”), ora fissata nella sua incontenibile forza fagocitante (“Ma la luce divora/ e dopo sarà il vuoto/ che tutto amplifica e confonde”), ora invocata come discrimine tra il pieno e il vuoto, come confine tra il certo e l’incerto, facendo da contrappeso al rischio di una eccessiva proiezione mistica verso “l’ineffabile”, e ancorando la conoscenza al bisogno e alla volontà di concretezza:

E dove mi dirai di andare?
Scale di simboli
per attingere l’ineffabile
ma io voglio la pietra
dove il pieno è consapevole
del vuoto e il limite
è solo nella luce.

Dicevo di una poesia della volontà, che lascia intendere, al di là della dichiarata asseverazione iniziale, una lunga e non sempre risolta conflittualità con l’altro da sé che ha egemonizzato il trascorso segmento esistenziale dell’autore, con dolorose tracce infisse nel profondo della propria complessione bio-psicologica; una poesia, quindi, dotata di una intensa vis agonistica, energica e incapace di stasi, attraversata da un dinamismo che, al di là di ogni illusoria presunzione, vanamente aspira all’approdo definitivo e gratificante; una poesia che è tutt’uno con la fenomenologia di un’anima in perenne contesa con se stessa e con la vita, che si erge risentita e volitiva a proporre la sua renitenza, a rivendicare la sua resistenza. Una eloquente spia grammaticale e stilematica, in tal senso, è data dalla significativa ricorsività della congiunzione avversativa “ma”, che acquista una forte intensificazione tonale e semantica quando, in posizione enfatica, si presenta congiunta al pronome di prima persona “io”. Poco sopra ne abbiamo incontrato un esempio inequivocabile: “Scale di simboli/ per attingere l’ineffabile/ ma io voglio la pietra”, dove la sequenza di congiunzione avversativa, pronome di prima persona e verbo modale in forma pressoché imperativa, rafforza potentemente il senso volontaristico ed oppositivo dell’enunciato. Ma già nella prima sezione del volume, Della discesa e della traversata, si possono ravvisare due occorrenze particolarmente significative che, peraltro, consentono di considerare un altro omologo tema, con cui è possibile spostare il discorso dal piano ideo-gnoseologico e spirituale a quello più propriamente estetico e metapoetico. Ecco il primo dei due esemplari:

Tu prigionia, come vesti il canto
di una triste armonia.
Attendi un tempo che non dovresti
e amici che non verranno.
Ma io posso elevarti
e ascolteranno i venti
la lingua della lode.
Suono di legno e argilla
avranno i fiati per il verso
che ode le invisibili voci.
Dovrò in segreto cantare
il vuoto che tu pensi
immagine del nulla.

Il testo, come si può notare agevolmente, è costruito su una fondamentale antitesi tra il tu e l’io. (E’ il caso, al riguardo, di sottolineare come non solo in questo volumetto, ma anche in tutta la precedente produzione poetica, M. B. Cerro ricorra frequentemente allo stilema del “tu” che sfugge ad una possibile univoca individuazione, e ora si risolve in un mero espediente retorico, ora dà luogo ad una polarità estrinsecata della propria soggettività, a volte assume la parvenza di indicibili e opprimenti fantasmi del proprio inconscio e sembra alludere a remote ossessioni della propria storia personale, altre volte ancora s’identifica con la stessa virtù poetica, personificata, alla maniera classicheggiante, ovvero esplicitamente indicata, seppur nei modi obliqui della metonimia e della sineddoche, o solo implicitamente allusa; e si potrebbe continuare sino a rendere plausibile l’ipotesi di un diagramma in cui leggere la storia del suo percorso poetico come un molteplice e mobile gioco dialogico che lega l’io alla seconda persona singolare). In questo schema oppositivo tu-io, il ‘tu’ evoca, nel distico dell’incipit, uno spazio di restrizione e ribadisce, nel secondo distico, una reiterata semantica della negazione (“Tu prigionia, come vesti il canto/ di una triste armonia./ Attendi un tempo che non dovresti/ e amici che non verranno”), rappresentando una condizione segnata dal senso di una solitudine ripiegata su se stessa e inoperosa, vissuta nella illusione di una vaga e vana attesa che trova precario e inadeguato conforto nella seduzione di un canto autoconsolatorio in cui si riflette l’accidia di un animo condannato ad una sorta di coazione a ripetere, contro cui si erge, ferma e persuasiva, la lezione dell’alter ego che esorta la persona del ‘tu’ ad una più disincantata accettazione della realtà. A questo ‘tu’, che è personificazione della prigione del passato, e della “mesta armonia” che governa la sua multiforme insorgenza, l’io promette l’ebbrezza di un riscatto che trova nella parola poetica il veicolo e lo strumento in grado di disvelare la nascosta bellezza della vita e della natura: “Ma io posso elevarti/ e ascolteranno i venti/ la lingua della lode”. La lingua della lode è, appunto, la lingua della poesia che rivendica, giusta la lezione dei maestri simbolisti ben presenti alla memoria letteraria di M. B. Cerro, la sua capacità di penetrazione, di decifrazione e di rappresentazione di quella segreta rete di relazione che il suo rabdomantico sguardo riesce a percepire, cogliendo e istituendo nessi sinestetici che sanciscono il superiore potere della virtù poetica: “Suono di legno e argilla/ avranno i fiati per il verso/ che ode le invisibili voci”.
Una non diversa struttura compositiva, giocata su una netta dissonanza tonale e concettuale, si registra in un altro testo:

Al collo mi legherò il sigillo.
Poi consegnami al vuoto
cancellami da questa polvere.
Troppo labili orme vi lascia la vita.
Nella destra i giorni
che hanno dei sogni le clessidre
nella sinistra il tempo
che ha scale di corda sull’abisso.
Così buia anima è la tua dimora
scarsa la pace.
Ma io sono il giglio
che passa la notte sul tuo seno.

Qui, la polarità antagonistica ed affermativa risulta ulteriormente potenziata dalla utilizzazione di un prestito biblico (“Ma io sono il giglio/ che passa la notte sul tuo seno”), un frammento di delicata forza vitalistica, estrapolato dal Cantico dei cantici e collocato, con grande effetto straniante, nella secca clausola che chiude la lirica che, nella precedente e più lunga prima parte, sembrava avallare il senso e il ritmo di una stanca sequenziale trenodia. Sicché, all’interno stesso della polarità negativa, sin dall’inizio di questo itinerario poetico, affiora la volontà di trovare le ragioni della speranza, di illuminare gli spazi dell’oscurità che si profilano oltre la spessa coltre della incombente rassegnazione, di declinare il tempo non più solo al passato, ma anche, vitalisticamente, al futuro, pur nella previsione della sua immodificabile esiguità. Non si tratta, come già sottolineato, di un percorso rettilineo: di questo l’io poetante è pienamente consapevole, e ne dà secca ed espressionistica rappresentazione; ma egli è altrettanto consapevole della possibilità del procedere, della praticabilità e della percorribilità della via che conduce alla luce:

E ora la parola è un soffio
nella bocca vuota dell’urlo.
Ogni sentiero è incerto
sprangata ogni coscienza.
Muoiono i guerrieri
i sacerdoti e gli empi.
Nuovi altari ha Roma
ma la via di Damasco
è lastricata di luce.

La solennità del tono, la ieraticità della dizione, il timbro della pronuncia hanno la perentorietà della profezia, e confermano, insieme ad altri dati anche semplicemente lessicali oppure più specificamente ipotestuali, il carattere profondamente religioso di quest’ultima stagione di M. B. Cerro. Su tale strada ermeneutica ci immette lei stessa, con la citazione che introduce, ancor prima della stimolante e originale prefazione di Gianni Fontana, la sequenza dei testi poetici (“... e l’Eterno chiamò l’uomo vestito di lino, che aveva il corno da scrivano alla cintura, e gli disse: “Passa in mezzo alla città, … e fa un segno sulla fronte degli uomini che sospirano e gemono …””. La citazione, infatti, è tratta dal cap. IX del libro di Ezechiele, un libro terribile e ben rappresentativo della visione cupa e severa del Vecchio Testamento, che, tuttavia, non vedo troppo consentanea con la svolta spirituale della poesia di M. B. Cerro, che, invece, mi sembra maggiormente permeata di una religiosità di tipo francescano, seppure con qualche accensione mistica che rimanda, per generiche affinità, alla sua radicalizzazione iacoponiana o, anche, alla sua declinazione corazziniana. Il richiamo all’Ecclesiaste e alla ammissione della sua funzione catartica e salvifica (“Mi ha colpito la folgore/ di una sterminata bontà/ e salvato l’avere in tempo/ meditato l’Ecclesiaste”) è, in questo senso, assai eloquente ed inequivocabile. Fermo restando il rilievo sul carattere religioso di Regalità della luce (e anche il titolo sembra suggerire questa linea interpretativa), a me pare, comunque, che la figura evocata in esergo, non so se per una scelta studiata, così decontestualizzata subisce un’opera di significativa transcodificazione, nel senso che “quell’uomo vestito di lino” chiamato dall’Eterno, che ha il calamaio alla cintura, nella poesia di Cerro non assume propriamente le fattezze e il ruolo dell’angelo della grazia come nella fonte, ma, più propriamente, quelli dello scrittore. Accade, per tale via, di poter seguire (azzardo questa ipotesi) il cammino della ricerca spirituale che si rappresenta nel libro, e che indubbiamente resta come suo fondamentale nucleo concettuale, sotto la specie di un percorso metapoetico che riflette sulla condizione e sulla funzione della poesia, sullo stato e sullo statuto del poeta, sul potere e sulla fragilità della sua parola.
E s’incominci col dire che la Parola per antonomasia, con l’iniziale maiuscola, ma anche quella, al confronto di quella scritturale, più ipodimensionata del poeta rivendicano una forza antagonistica e insieme propositiva, consolatoria e al fine salvifica, che va cercata nello spazio del silenzio e della solitudine: “Nel silenzio è scritto/ il futuro della conoscenza”, si legge in un distico quasi d’apertura (nel secondo testo); e analogamente in chiusura, al termine del lungo e irto itinerario ascensionale, “verso la regalità della luce”, con una tensione prossima a sciogliersi “nel cerchio purissimo/ cui ogni vita s’inchina”, dove il frammento si ricongiunge alla totalità, l’inizio alla fine, in un ordine che tutto spiega e risolve, si ribadisce l’ultima esortazione: “Anima, brucia/ sino a concepire la perfezione./ In solitudine. In silenzio.”
Anche nel caso della parola poetica, naturalmente, si ripropone spesso l’alterna vicissitudine di entusiasmo e di scacco che scandisce il cammino verso la luce; e come la luce si definisce e si impone nell’essenziale confronto con il buio, a cui contende faticosamente lo spazio di una geografia (interiore) che non riesce ad eliminare la minaccia della zona d’ombra e le insidie dell’oscurità, allo stesso modo la parola sperimenta l’orgoglio e l’insufficienza del suo dire, che fa il paio con il privilegio che il poeta implicitamente manifesta attraverso la sua lettura del libro della vita (sia esso quello delle Scritture, oppure, anche, quello della natura), a cui, spesso, si alterna un ingombrante sentimento di impotenza e di inadeguatezza che accompagna il suo esercizio indagatore. Una tipologia di dissociazione, questa, che si rinviene nello stesso destino storico del poeta, che patisce la contraddizione tra la consapevolezza della scarsa considerazione e del ruolo marginale che la società moderna e postmoderna gli riserva, da una parte, e la necessità (direi la missione) di continuare a svolgere, con la fedeltà di sempre, un eroico compito di resistenza nei confronti di ogni processo di neutralizzazione e di narcotizzazione del pensiero critico messo in atto dalle varie agenzie del potere economico-politico, su scala ormai planetaria. La parola poetica, come quella di cui la Cerro ci dà straordinaria testimonianza, esprime il suo netto e radicale rifiuto di fronte al dilagante processo di riduzione al grado zero che invade la lingua della comunicazione ordinaria, sottraendosi ad ogni tentativo di omologazione castrante, dichiarando la sua irriducibilità alle contratte e asfittiche opzioni gergali praticate dalla crescente schiera degli internauti e del popolo degli sms, contrapponendosi al chiacchiericcio vuoto e al birignao dei pervasivi talk show, al gridato blablabla dei politicanti, alle astuzie del linguaggio della pubblicità, e rivendicando, ora come sempre, la sua specificità di strumento attraverso il quale, con o senza lanterna, l’uomo cerca se stesso e consegna la sua umanità alle generazioni future. E’ questo il senso del grido accorato che , giusto a metà di questo suo viaggio testuale, dice a se stessa: “Fuggi da una vita dalla prosa spenta/ -ti dico fuggi- da una vita/ dalla prosa spenta …”; da una vita, cioè, senza poesia e senza il suo dono di vitalità, senza la sua virtù indagatrice, senza il sostegno di quel corteo di parole “che migrano come gemme/ [e] aprono cortecce nei segreti dell’afflizione”.
In realtà, su questo fondamento, la parola è tutt’uno con il pensiero:


I segni abitano il pensiero
ne comprendono l’oscurità
scavano nidi di tristezza.
A volte tessono l’alba
con porpora e peste viole.
Poi si addormentano
nelle fortezze del ritorno.
Ma accade che una folgore
li ridesti alle visioni.
La scrittura li riconosce
ne svolge lo stupore.
Nella creta viva – con acqua
e fango – levigo i giorni.
Così quand’ero vasaio”.

Si tratta di una vera e propria riflessione estetica sull’arte poetica, in cui l’idea romantico-simbolista di poesia, come processo di misteriosa geminazione, si coniuga con la concezione dell’arte come opera di studio e di strenuo esercizio. Non v’è chi non colga, poi, nella metafora identificativa della chiusa, una esplicita e riconoscibile eco della tradizione vasaia così legata alla storia e alla memoria della sua città d’origine (Pontecorvo).
Ma è la stessa natura, inoltre, che parla un linguaggio di poesia, solo che se ne sia capaci di intenderne i segni, di percepirne le voci, di saper auscultare i suoi segreti e misteriosi idiomi, come sa fare, appunto, il poeta, come sa fare straordinariamente M. B. Cerro: “Ho udito nei letti stridere risvegli/ gomitoli di richiami venire/ dalle ferite di periferie addormentate/ compiersi il senso delle cose/ che hanno vita esatta”; e altrove: “Mi destò la campana del sonno/ - l’alba ricacciava indietro/ il segreto delle ciglia -/ Cantava con vocali di vento/ il mattino”. Poesia come pensiero, quindi, poesia come esercizio di stile, ma poesia, anche, e finalmente, come canto, i cui ritmi e i cui timbri sono scanditi dal respiro interiore del poeta, che sa riconoscerli e catturarli anche nel cifrato pentagramma scritto dagli umili elementi vitali che popolano lo spettacolo naturale: “Ho letto versi ai piedi di una rupe:/ la civetta scandiva musicale/ e attenta il metro e la cesura”. Non a caso, la poesia di Regalità della luce, oltre ad originarsi e ad alimentarsi mediante una continua e arrovellata opera di scavo interiore e di fervore speculativo, si nutre, altresì, di una acuta disponibilità dei sensi, l’udito e la vista in particolare, che concorrono a determinare una costruzione della frase ricca di risonanze musicali non meno che di qualità visiva e visionaria di indubbio fascino. Di fatto, poi, “il gran cercare” che rappresenta il nucleo esistenziale ed ideologico del libro, procede tra vertigini e stupori, tra l’entusiasmo della conquista e il senso dello scacco e della resa che talvolta lo insidia, entro le coordinate di uno spazio e di un tempo sottratti ad ogni più realistica connotazione. Il tempo, in particolare, si slarga e si specifica in dimensioni assolute ed astoriche, manifestandosi attraverso elementi per dir così categoriali, come l’alba e l’aurora, il giorno e il mattino, l’estate e l’inverno, congeniali ad una meditazione che sonda e compulsa il mistero della vita e, con esso e in esso, il senso dell’umano transito. Lo stesso spazio, che pur si popola di un paesaggio arboreo e floreale dall’alto valore figurativo e simbolico, si alleggerisce di ogni circoscritto e concreto riferimento, per definirsi, emblematicamente, lungo un asse verticale che collega la profondità dell’abisso alla più inaccessibile regione del cielo, verso cui è volto lo sguardo e il desiderio di conoscenza dell’io poetante: “Non posso seguirti nell’abisso/ diafano del sasso./ Vado in cima al tempo/ all’aurora e al vorticoso arancio”. In cima, appunto, dove splende il sole, atteso con un risoluto atto di volontà (“Io volevo il sole./ L’ho atteso in piedi/ finché mi germogliasse dalla luce”), dacché la conoscenza razionale non può sollevarsi oltre un certo limite: “Non temere la gioia – diceva- / E indicava percorsi ignoti alla ragione”. Un rilievo, questo, che evoca l’esperienza dell’excessus mentis dei mistici, cui anche riconduce il senso di quelle “intatte parole/ su libri pregevoli vergate”, chiaramente allusive delle parole di verità contenute nei sacri libri. Non a caso quest’ultima citazione si rinviene nel testo conclusivo della Stanza dell’ascesa, che fa da antifona alla Stanza della visione, l’ultima sezione di Regalità della luce, in cui si rappresenta la fine del viaggio, il congedo dalla stessa possibilità del camminare, nello spazio di un approdo oltre il quale non si profila “nessuna destinazione”: il ritmo della “danzatrice” si placa, così, in una fissità catatonica che dice la fine della festa: “Si toglie le scarpe da ballo/ la danzatrice estate” e “mi verrà incontro un nuovo inverno”; ma non sarà il trionfo della morte, perché “In fondo al cuore della morte/ urlerà ancora la vita”.
Resta, in conclusione, la sensazione che “il segno del gelo” e le linee delle “allegorie d’inverno”, che avevano dato emblematico e significativo titolo alle due precedenti tappe del percorso poetico, si siano sciolti in una più fiduciosa aspettazione della vita, in una febbrile tensione vitalistica e ascensionale che disvela la forza della rinascita, scopre la vitalità della gioia e canta la pervasiva espansione del fuoco che illumina i recessi più nascosti dell’anima nello stesso momento in cui forgia una parola, la parola della poesia, “che taglia l’aria/ con la sua purezza” e “ogni volta che il tempo/ batte le sue ore/ scaglia per le altitudini/ il suo pugno di lode”. Nel nome della lode, termine sommamente francescano, con cui si era aperto, si chiude, circolarmente, questo affascinante e arduo itinerario in versi di M. B. Cerro.


RAFFAELE PELLECCHIA

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