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Giacomo Leopardi e la scrittura a stampa

Argomento: Letteratura

di Bruno Corino
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Pubblicato il 29/01/2022 07:36:44

Non si fa molto caso al fatto che Giacomo Leopardi sia stato il primo scrittore italiano che abbia tentato di vivere con il frutto della sua opera letteraria, o grazie al suo ingegno letterario. A partire dal 1825 egli ricevette per alcuni anni uno stipendio mensile dall’editore milanese Antonio Fortunato Stella; originariamente per dirigere un’edizione critica di Cicerone, ma «in seguito il programma fu modificato, e le opere appositamente redatte per lo Stella furono l’interpretazione del Petrarca e le due Crestomazia, della prosa e della poesia. Inoltre, il Leopardi pubblicò presso di lui le Operette morali e progettò una collana di moralisti greci, in vista della quale venne esercitando un’intensa attività di traduttore» (Franco Brioschi).

Ma questo rapporto di dipendenza economica con l’editore fu vissuto da Leopardi in modo traumatico. Per poter vivere della propria opera letteraria il poeta doveva imparare a scrivere e a lavorare su commissione, cioè doveva saper rinunciare alla propria libera ispirazione ed essere capace di andare incontro al gusto di un pubblico di lettori. Un pubblico che, in un mercato editoriale incipiente, mirava soprattutto alle cose “utili”, cioè a tutti quei prodotti librari che possono accrescere le sue conoscenze, le sue cognizioni, o che non avessero in sé il proprio fine, come accadeva alla vera arte, ma erano pur sempre veicoli di un messaggio ideologico o politico. Insomma, come suol dirsi, che fossero immediatamente spendibili sul mercato delle idee e delle battaglie politiche del momento.

Leopardi paragonava la sorte dei libri a quella degli insetti, chiamati efimeri (da qui il termine effimero, cioè dalla vita breve): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Più avanti, riflettendo sullo stesso argomento, annota: «Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della loro produzione» (Zibaldone, 4271).

Quantunque non appartenga al lessico leopardiano, potrei scrivere, usando le categorie di Hannah Arendt, che già ai suoi tempi Leopardi avvertisse come il libro da “bene durevole” si stesse trasformando in un “bene di consumo”. L’opera letteraria, che per secoli ha fatto parte dell’homo faber, con l’intensificazione della stampa, e quindi dell’industria editoriale, è stata assorbita nel ciclo dell’homo laborans, ossia nel ciclo delle cose che devono essere immediatamente divorate pena il deterioramento dell’“oggetto”. Gli oggetti d’arte, e quindi le “opere poetiche”, fatti per essere i più durevoli e stabili tra tutti gli oggetti creati dagli uomini, vengono sempre più assimilati agli oggetti prodotti per il consumo immediato.

Leopardi riflette su questo passaggio cruciale nel momento in cui assiste all’esplosione della cultura a stampa. Potrei dunque affermare che la questione s’impone nel momento in cui si assiste a un ulteriore eccesso di scrittura dovuto all’effetto diffusivo della stampa: «Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non scrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a sé, ec. (Pisa. 5 Feb. 1828» (Zibaldone, 4301). Appena qualche settimana più tardi, Leopardi scriverà all’amico Antonio Papadopoli: «Con questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, coglione chi si affatica a pensare e a scrivere. Scrivere poi senza affaticarsi punto e senza pensare, va benissimo, e lo lodo molto, ma per me non fa, e non ci riesco» (Pisa 25 febbraio 1828).

Anch’io, in un altro luogo scrissi, tempo fa, che oramai, grazie alla diffusione della scrittura a video, il numero di autori ha surclassato, e di gran lunga, quello dei lettori. L’eccesso di scrittura anche nel nostro caso ha devitalizzato l’opera letteraria. Infatti, è sufficiente essere appena appena alfabetizzato che ognuno si sente in diritto di inondare la blogsfera con le sue composizioni. E, inoltre, come sostenevo ancora in quella riflessione, quest’invasione barbarica ha come effetto quello di velare la distinzione qualitativa tra un’opera e l’altra. Insomma, tutte le scritture finiscono con il somigliarsi. Per cui, come scriveva Leopardi, oggi come ieri, si finisce con lo scrivere per la propria cerchia di conoscenti: «Oggi veramente ciascuno scrive solo pe’ suoi conoscenti» (Zibaldone, 4354).

Se si scorrono alcune pagine dello Zibaldone vediamo che anche Leopardi, ben quasi due secoli ora sono, avanzava pressappoco le medesime lamentele. Vediamo cosa scriveva nello Zibaldone nell’aprile del 1827: «Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più incolto […], di meno spesa; tanto più cresce l’eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle edizioni […] Troppo è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti» (Zibaldone, 4267-4269).

La scarsa qualità letteraria viene compensata, secondo questa osservazione, con la veste esteriore del libro. Si fanno edizioni di pregio per mascherare la scarsa qualità dell’opera. Nei Pensieri, Leopardi lamenta il fatto che i libri sono stampati più per ostentazione che non in ragione del fatto che qualcuno abbia davvero qualcosa di veramente nuovo da dire: «La sapienza economica di questo secolo si può misurare dal corso che hanno le edizioni che chiamano compatte, dove è poco il consumo della carta, e infinito quello della vista. Sebbene in difesa del risparmio della carta nei libri, si può allegare che l’usanza del secolo è che si stampi molto e che nulla si legga» [III]. I libri che si stampano, secondo Leopardi, sono “belli a vedere”, ma dannosi alla vista nella lettura.

In altri termini, la “popolarizzazione” della scrittura, tramite l’istruzione e la diffusione della stampa, ha di fatto “depopolarizzato” la letteratura. In un altro passo, Leopardi esplicita con chiarezza la dialettica tra la diffusione della scrittura e lo “svilimento della poesia”: «La poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è il genere più lontano dal popolare, è il più difficile ad essere tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una in tutto e per tutto nuova» (Zibaldone, 4347). Un auspicio a cui nessuno che intende produrre opera poetica dovrebbe sottrarsi, a mio avviso.


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