Queste mie riflessioni prendono spunto da un saggio che tempo fa mi capitò tra le mani, La narrativa italiana degli anni Novanta. Lo lessi con estrema attenzione al fine di comprendere cosa si muovesse nella narrativa italiana di questi ultimi decenni. In precedenza, avevo letto anche Parola di scrittore. La lingua della narrativa italiana dagli anni Settanta a oggi, edita dall’Accademia degli Scrausi (a cura di Valeria Della Valle). L’idea che mi sono fatta è che vi sono in atto nella letteratura di quest’ultimo periodo due tendenze: una prima che potrei definire piuttosto “letteraria”, e una seconda, invece, giocata sull’“anti-letterarietà”.
Potrei riassumerle in questo modo: c’è una linea poetico-espressiva che ha lo sguardo fisso sulle letterature precedenti – ciò che Gesualdo Bufalino definisce “i serpenti della tradizione” – al fine di generare altra letteratura. Questa linea ha i suoi punti di raccordo nella narrativa dello stesso Bufalino, di Vincenzo Consolo e, come punta estrema, Michele Mari, e trova la sua ragion d’essere in ciò che Consolo definisce un processo di verticalizzazione: «Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da “pochi felici”» (citato in Parola di scrittore, p. 101). Insomma, è una narrativa a basso-consumo, fatta quasi per pochi eletti, o di nicchia. La linea antiletteraria s’esprime, invece, attraverso una vena sociologica che non mira alla letterarietà quanto piuttosto al “parlato”, a una sintassi sconnessa, infarcita di anacoluti, con un uso ossessivo dell’iterazione, disseminata di tratti fumettistici, di una scrittura “palinsestica”.
Questa seconda linea parte da Tondelli e arriva a Sandro Veronesi, a Niccolò Ammaniti. Se dovessi coniare una formula sintetica appropriata a meglio definire queste due tendenze narrative in atto, parlerei di un tentativo di “sacralizzazione” da parte della narrativa letteraria, e di un tentativo di “sconsacrazione” da parte della narrativa antiletteraria. Nel primo campo, la narrativa diventa quasi un luogo di culto nel senso letterale dell’espressione, dove il lettore entra in punta di piedi. Nel secondo luogo, la narrativa si fa profana, quotidiana, trita e triviale per alcuni aspetti, e il lettore non ha alcun obbligo nei confronti della materia narrativa.
È chiaro che se interpretassimo le due tendenze in chiave puramente “politica”, potremmo commettere un errore di prospettiva, iscrivendo la tendenza della narrativa letteraria al partito “conservatore”, o a una sorta di volontà restauratrice, insomma a un partito dell’ordine, che ha fede nel rispetto delle regole grammaticali, che crede nel valore propositivo della letteratura, e che crede ancora che essa possa rappresentare un lavacro in grado di purificare l’anima contaminata dei lettori; infatti, pare che il suo compito sia proprio quello di “elevare” la coscienza del lettore, o di suggerirle che oltre la realtà banale e quotidiana esiste una realtà altra, un “altrove” dove l’anima non trova un appagamento immediato e totale dei propri sensi, ma una forma differita di appagamento.
Da questo punto di vista, la tendenza letteraria assolve la funzione di non voler appiattire le esistenze all’accadimento del presente, lasciando intravedere che in ogni nostro atto c’è o esiste sempre un sovrasenso, un “qualcosa” che sfugge al presente. Si comprende perché questa tendenza lambisce la sfera religiosa della vita, per quanto si tratti di una religiosità senza dei e senza divinità. Non a caso infatti il tessuto narrativo si fa diafano, poetico, grana fine, qualcosa che somiglia alla trasparenza dell’essere. Non a caso i personaggi di Consolo, Mari, Bufalino hanno le fattezze di “fantasmi” o di “spiriti” cristallini, sembrano cioè esseri che non appartengono al nostro mondo, ma provengono da un al di là assai indefinito. Sono cioè personaggi “poetici” più che personaggi da romanzi (in Mari, talvolta, il personaggio poetico diventa il poeta-personaggio di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti).
L’altra tendenza, invece, potremmo iscriverla al partito “progressista”, che lotta contro l’ordine costituito, proponendosi di svegliare la coscienza critica del lettore, di “svelare” l’arcano del mondo-merci, mimando i tic della vita compulsiva e metropolitana, i suoi banali rituali (la pubblicità, lo shopping, l’appiattimento emozionale, l’ipertrofia dell’informazione). In realtà, come ha dimostrato Francesco Dragosei nel saggio Letteratura e merci (1999), il discorso si può anche rovesciare: la tendenza antiletteraria potrebbe anche aiutare, suo malgrado e contro ogni sua esplicita intenzione, ad alimentare quel processo di omologazione nei confronti di un linguaggio e di una pagina di vita che ormai pare non trovare più alcuna resistenza. Facendo il verso alla società dei media, ai suoi tic, facendosi, in altri termini, «specchio della società», spinge, forse inconsapevolmente, ad accettare senza alcuna remora proprio quanto di più triviale e banale si muova oggi nel nostro tempo. Voglio dire, non operando più uno scarto tra una coscienza critica e la vita quotidiana, questa narrativa antiletteraria spinge le coscienze ad aderire con maggior disinvoltura a praticarne i consumi, i vizi, o i vezzi. Ne satura le coscienze sino al punto di far perdere di vista quella linea di demarcazione che divide la critica delle cose dalla loro acritica accettazione. Ottiene, insomma, l’effetto contrario di ciò che si propone. Per cui se la prima tendenza tende a disarticolare l’ordine sociale ponendo un ordine poetico-letterario, l’altra invece, finisce con il confermare un ordine sociale disarticolando l’ordine letterario-poetico.
La tendenza letteraria, marginalizzando la letteratura in un campo “estraneo” alla contaminazione triviale, tenta di preservare la coscienza relegandola in un lembo di austera ieraticità, da cui osservare con maggior disincanto la realtà sociale, senza lasciarsi completamente assorbire dai suoi modelli e dai suoi stili di vita. Tuttavia, tale tendenza finisce con l’assumere un “nobile” distacco, improntato di una pagina espressivo medio-alto, in grado di sfuggire alla condizione del presente, mettendosi però “a cavalcioni dell’epiciclo di Mercurio, che vede così avanti nel cielo da farmi venire mal di denti” (Montaigne, Essais).
A fronte abbiamo, invece, una letteratura antiletteraria, antipoetica, che tenda attraverso un processo di mimesi a far emergere la coscienza “spregevole” dell’uomo contemporaneo, la sua voracità di consumatore inesauribile e insaziabile, che ingoia e mastica tutto ciò che appare nel mondo della comunicazione, senza avere mai il tempo o la voglia di metabolizzarne la sostanza, di assaporarne il gusto, che ancora non ha finito di mandare giù l’ultima e abbondante razione di informazioni, di spettacoli, di film, di romanzi, di fumetti, di viaggi, ecc. che già si mette intorno alla tavolo apparecchiata per trangugiare altre informazioni, altri spettacoli, altri film, altri romanzi, altri fumetti, altri viaggi, ecc. Si tratta del consumatore ideale dei tempi nostri mai soddisfatto, mai saturo, di cui la tendenza antiletteraria esalta le qualità di divoratore.
Questo giro di ricognizione sulle tendenze attuali della narrativa m’è servito a meglio riflettere su quanto s’agita nel campo della letteratura. A me, queste analisi sulla “lingua” degli scrittori hanno aiutato a definire e a rendermi più consapevole della cifra stilistica che ho scelto per esprimere la mia “poetica”. Personalmente non m’iscrivo a nessuno dei due partiti. Per quanto mi riguarda, pur riconoscendo d’essere uno che scrive nell’ombra, un “clandestino”, un irregolare o un senza permesso di soggiorno in questa benedetta repubblica di lettere, io tento di trovare comunque la mia cifra stilistica, sfuggendo alle maglie della letterarietà e dell’antiletterarietà, entro le quali, a portarle alle estreme conseguenze, si rischia di restarne intrappolati.
Retrospettivamente, m’accorgo come io tenti a eliminare nella mia materia narrativa ogni confine, limite o margine, di fondere a tal punto i piani da non poterli più distinguerli o differenziarli. Avevo in un altro contesto parlato di “voci miscelate”, ma il discorso può valere per tutti gli altri ambiti (temporali, spaziali, sequenziali, ecc.). Non a caso mi piace autodefinirmi un autore “marginalista”, dando a questo termine una valenza economica più che sociologica, usandolo cioè nello stesso senso in cui veniva usato dagli economisti marginalisti.
Concludo queste riflessioni con il dire che la cosiddetta “letteratura” è andata oltre sé stessa. Che non si tratta più di letteratura e di letterarietà o di antiletterarietà, bensì che la vera questione affonda le sue radici nelle “scritture”, e che non si può più parlare di “lingua letteraria”, ma di linguaggio, ossia di qualcosa che va al di là della metafisica narrazionale. Insomma, c’è tutto un mondo da ripensare…
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