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I bambini di Terezìn

di Silvia Rizzo
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Pubblicato il 24/01/2011 11:59:45

Il bambino aveva grandi occhi neri e una fossetta sul mento. Era molto vivace, parlava in fretta, rideva spesso. La vecchia professoressa continuava a guardarlo sforzandosi di afferrare un'immagine sfuggente. A chi assomigliava? Distolse gli occhi da lui e si mise a guardare fuori dal finestrino. Il vetro era sporco e una mosca istupidita continuava a passeggiarvi avanti e indietro. La scacciò con la mano.
Erano giunti all'incrocio di viale della Regina e via Nomentana; il semaforo era rosso. La professoressa tornò a guardare il bambino e di nuovo qualcosa si agitò nella sua memoria, qualcosa che non riusciva ad afferrare. Il bambino ora s'era fatto serio: non parlava più e guardava fuori dal finestrino.
Il pullman era pieno del chiaccherio rumoroso e allegro di tutti quegli scolari, lieti dell'inattesa vacanza. Per loro la visita a quella mostra era solo una vacanza e nulla più. «Forse dopo non saranno più così allegri» pensò la professoressa. Molti si erano opposti alla sua idea di condurre i ragazzi a quella mostra. «Non sono cose adatte... Sono ancora troppo bambini per conoscere queste atrocità». Ma la vecchia professoressa godeva di molta autorità e il preside era stato subito d'accordo con lei.
Ora quelle due classi erano affidate a lei e in quella tiepida giornata autunnale il pullman li portava verso la mostra. Era una mostra allestita nella città coi ricordi dei bambini ebrei periti nel Lager di Terezín. «Non sono poi tanto piccoli» aveva detto la professoressa. «Alle medie si è già abbastanza grandi e queste cose debbono essere proprio loro a saperle, loro che costruiranno l'avvenire. Bisogna che le imparino e non le dimentichino mai».
Il bambino ora si era alzato ed era andato a unirsi a un gruppo di compagni che, seduti sul divano in fondo al pullman, discutevano animatamente. La professoressa continuava a guardarlo senza riuscire ad afferrare quell'evanescente ricordo. Non sapeva neppure il nome di quel bambino, perché non era della sua classe.
Improvvisamente le affiorarono alla memoria le scale oscure della sua vecchia casa, quella nel vicolo dietro piazza dell'Argentina. Erano scale buie e tortuose, dai vecchi muri scrostati e macchiati di umidità, e vi ristagnavano gli odori delle cucine. La mattina c'erano su ogni pianerottolo secchi argentei di alluminio colmi di spazzatura, in attesa di essere vuotati dall'immondezzaro, che passava verso le dieci. Allora all'odore di cucina si aggiungeva quello di spazzatura. «'Ngiorno, sora professoressa», la salutava la vecchia signora Rosa mentre saliva le scale con la borsa della spesa sbuffando e fermandosi a ogni gradino. «Sempre in gamba, signora Rosa» rispondeva lei e tirava via. Era lì, su quelle scale, che incontrava sempre quell'altro bambino. Come aveva potuto dimenticarlo? Aveva anche lui una fossetta sul mento e grandi occhi neri.
Lo incontrava ogni mattina. Usciva per andare a scuola con la sdrucita cartella di cuoio finto sotto il braccio. «Buongiorno» diceva a lei e sgattaiolava giù facendo i gradini a due a due. «Farai tardi oggi!» gli gridava la madre sporgendosi dalla ringhiera del pianerottolo. Oppure: «Ricordati di comprare la merenda!». La professoressa scendeva lentamente e quando era in strada il bambino era già sparito. Qualche volta (a poco a poco ricordava) lo vedeva giocare nel vicolo coi tappetti delle bibite insieme con altri bambini. Lei si affacciava alla finestra della cucina e li stava a guardare. Riempivano di grida la stradetta ombrosa nell'afa del meriggio. Lui era sempre il più vivace e il più destro nel gioco. I gatti del vicolo, sdegnati da quel baccano, scivolavano via silenziosamente.
Una volta la madre di quel bambino aveva suonato alla sua porta. Era una donnetta spaurita, con la faccia un po' da topo, grigia com'era e coi capelli scoloriti legati a crocchia sulla nuca. C'era anche il bambino con lei e aveva un quaderno in mano. «Non riesce a fare il compito» aveva detto la madre, «Domani l'interrogano e sono già le sette...». Allora la professoressa aveva aiutato il bambino. Con lei era molto timido e impacciato e il latino non lo capiva proprio. Riusciva molto meglio nel gioco dei tappetti.
Perché dunque la professoressa provava un così acuto rimorso nel ricordare quel bambino per tanto tempo dimenticato, ora che un altro aveva parlato e riso come lui? Perché quei vicini dell'uscio di fronte si chiamavano Levi e quando erano spariti la vita nella vecchia casa del vicolo era continuata come prima, come se nulla fosse stato. «Buongiorno, signora Rosa». «'Ngiorno, sora professoressa». Nessuno domandava, nessuno guardava quell'uscio chiuso con la targhetta «Levi» sempre più offuscata ora che non c'era più chi si preoccupasse di lucidarne l'ottone.
Il pullman si era fermato e i ragazzi si riversavano fuori tutti eccitati ridendo e schiamazzando. Bisognava mettere ordine, farli entrare, far firmare il registro delle visite. «Un po' di silenzio, ragazzi!». Finalmente entrarono nella prima sala.
Erano poche sale, la visita non sarebbe stata lunga. C'erano quadri e poesie dei bambini morti laggiù e piccole cose appartenute a loro. C'era una piccolissima scarpetta trovata nel fango del campo. La professoressa taceva e lasciava che i bambini guardassero, senza dir loro nulla. Le sembrava che i documenti esposti fossero di un'evidenza così terribile che le parole non potevano che diminuirla. Continuava a pensare al bambino della casa nel vicolo, che sapeva giocare così bene coi tappetti e non riusciva a capire il latino.
I bambini erano distratti; non la smettevano di parlare e ridere fra di loro. L'inattesa vacanza gli aveva messo l'argento vivo addosso. Le sale erano appena tre e dall'ultima lei poteva vedere la prima e il tavolo col registro dei visitatori. Notò che un gruppetto era rimasto indietro e stava intorno al tavolo. In mezzo a loro distinse il bambino che somigliava al piccolo Levi. Le sembrò che stesse scrivendo nel registro, ma non vedeva bene ed uno dei compagni, che aveva colto il suo sguardo, si spostò coprendolo alla sua vista. Quasi subito il gruppo si si disperse. «Forse avevano dimenticato di firmare» si disse, ma senza perdere d'occhio il resto della scolaresca passò nella prima sala e si fermò accanto al tavolo col registro delle firme. I fogli erano stati voltati e il registro ora si apriva su due pagine bianche. Lo sfogliò rapidamente e si arrestò di colpo su una pagina. Al centro di essa campeggiava una grande scritta vergata in caratteri stampatello un po' incerti: «Morte agli ebrei! Viva Hitler!».


Il racconto, scritto il 1° febbraio 1964, è ispirato a un fatto vero, che mi fu riferito da mio fratello Alberto (anche lui attualmente collaboratore della Recherche), che faceva parte della scolaresca in visita. Vinse il primo premio in un concorso letterario del Liceo Augusto e fu pubblicato, col titolo «Visita a una mostra», in «Augustus. Organo degli studenti del Liceo Augusto», anno X, 5-6, aprile 1964, 24-27. Il 27 dicembre 2003 l'ho sottoposto a una revisione abbastanza radicale ed è stata pubblicato nella nuova versione, sempre con lo stesso titolo e con una nota di Mario Graziano Parri, in «Caffè Michelangiolo» VIII 3, settembre-dicembre 2003 [ma primavera 2004], 33-35. Lo presento ai lettori della Recherche in occasione della" Giornata della memoria" con titolo mutato e qualche ulteriore lievissimo ritocco.


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