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Il corpo e l’orto

Poesia

Marco Amendolara
La Vita Felice

Recensione di Roberto Maggiani
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Pubblicato il 05/06/2015 12:00:00

 

A Marco, in ricordo, con amicizia

 

Conobbi Marco per posta tradizionale cartacea, alla fine degli anni Novanta, quando la posta elettronica non l’aveva ancora sostituita e facebook e i social network non avevano ancora influenza sulle comunicazioni interpersonali. Non ricordo chi mi diede il suo indirizzo né il motivo per cui mi decisi di inviare a lui il mio primo libro di poesie, ricordo solo che rispose alla mia prima lettera con cordiale amicizia, inviandomi a sua volta i suoi versi.

Con Marco instaurai una relazione epistolare, non assidua ma piacevole e cordiale. Leggevo con molto interesse i suoi versi e, quando potevo, ne parlavo, così lui faceva con i miei, ma non era uno scambio, si trattava invece di una reale voglia e volontà di evolvere insieme in poesia, a Marco piaceva fare corpo di poesia, per Marco la poesia era un corpo, era una comunità, era un modo di vivere il mondo e di ascoltarlo e goderne o soffrirne, così come un corpo sa fare. Dico questo basandomi sulla mia esperienza personale ma potrebbe darsi che altri abbiano avuto con lui altre esperienze, dunque non voglio qui affermare degli assoluti riguardanti Marco Amendolara ma solo relativi. Ci penseranno i biografi a rendere merito alla vita di Marco, lo spero vivamente perché è un poeta che lo merita. E di ciò mi sono totalmente convinto leggendo questa sua ultima postuma raccolta: “Il corpo e l’orto”, edita da La Vita Felice.

Da molto tempo l’ho ricevuta, e di questo ringrazio la famiglia, ma non sono riuscito a scriverne subito, ritenendomi inadeguato a parlare di un poeta che mi è tanto caro, anche affettivamente. Ho letto e riletto le sue poesie non riuscendo a trovare parole bilanciate per esprimere le sollecitazioni che esse hanno indotto nel mio spirito in quanto uomo e in quanto amante della poesia.

In questa raccolta leggo versi all’apice della sua maturità poetica. Essi spandono compressioni e rarefazioni nell’animo del lettore, dunque, in analogia con il suono che si produce per compressioni e rarefazioni d’aria, i versi di Marco sono Parola significativa non solo come suono, che pure mai cede a semplificazioni né a complicate involuzioni né a ricercatezze astratte, ma, soprattutto, la poesia di Marco è significante e significato (forma e contenuto) di un mondo interiore universalmente umano e di esso narra e lo esprime con fragrante e autentica passione. Questa Parola è incapace, nel senso che non è capace di lasciare il lettore immutato, anche un lettore distratto, come lo ero io, per vari motivi, in alcune letture iniziali, così come il suono non può passare indisturbante nelle orecchie di una persona che si trova nel suo raggio di azione, a meno che questa non sia sorda o totalmente distratta e indifferente agli eventi che la circondano chiusa in una sorta di grave autismo sociale e artistico.

Non è raro trovare nelle poesie di Marco accenni a una Fisica del Cosmo usata come metafora chiara e/o chiarificante del suo pensiero:

 

Un’orrenda pioggia di isotopi

colpisce violenta i giardini

e gli orti.

Nell’ombra avvengono mutazioni:

la natura si apre come

un fiore velenoso,

colori venèfici si spargono

in ogni dove; noi stessi,

ormai entità prenatali,

ridotti a oggetti mostruosi,

perduta anche la paura…

 

Marco esprime, nelle sue poesie, una Weltanschauung, nei suoi versi c’è un riflesso cosmico simile a quello delle opere leopardiane: una sorta di pessimismo caratterizza il suo animo, c’è una sopra-natura, come se un qualche evento soprannaturale iniziasse a smembrare indifferente il mondo e l’uomo, ormai mutato nella sua stessa umanità. Marco ci vuole additare le responsabilità della contemporaneità che ha il potere di deformarci in quegli “oggetti mostruosi” che hanno perso anche la paura: tronfi dei successi scientifici e tecnologici che ci hanno allontanati dalla natura, quella degli orti e dei giardini, cioè dei tempi lenti della crescita, del contatto con la terra, spazi a misura umana necessari al sostentamento (gli orti) e alla bellezza (i giardini). Una contemporaneità complessa che ha smembrato le comunicazioni e le necessità del corpo riportandoci nello spazio “prenatale” dove eravamo isolati, singole “entità” non in relazione sociale, inesistenti. La contemporaneità come epoca di isolamento e chiusura in comodi spazi personali, talvolta di egoismo sfrenato, nei propri confini, nazionali o di proprietà privata: si diventa oggetti mostruosi se privati delle relazioni che ci fanno essere umani. Contemporaneità che ricade dall’alto, come una sorta di sopra-natura capace di colpire i giardini e gli orti: “Un’orrenda pioggia di isotopi”.

 

Lo sguardo, due coltelli, luce in buio.

Coincidi veramente con il tuo corpo,

o sei altro, sei in altro,

e non lo sai?

 

Marco denuncia, neppure troppo velatamente, la schizofrenia dei tempi odierni. Ciò che sei coincide “veramente con il tuo corpo”? Ciò che pensi di essere è veramente ciò che sei? Ecco il male moderno, di cui la televisione è il monatto, l’untore capace di portare la malattia nelle case, spargendo e imponendo immagini di modelli sia verticali (spirituali dell’essere) che orizzontali (materiali dell’uso) in cui ci identifichiamo ma essendo solo ologrammi, immagine immateriale di un pensiero, creando uno sdoppiamento-slittamento delle personalità, dunque disagi, malumori, malori personali e sociali che si riflettono in brutture di razzismi e egoismi che smembrano la comunità umana come conseguenza dello smembramento delle singole persone:

 

I corpi fanno natura, sono natura,

chiusi in quel carcere buio senza conoscersi,

aspettando l’uscita, la resurrezione.

Il corpo con nessun corpo coincide.

[…]

 

Che cosa pensi, tu che leggi, di questi versi? Li lascio qui sospesi perché sono eloquenti nel loro nitore di speranza e meravigliosa chiamata a ritrovare la propria unicità. Ma anche terribili, lì sospesi in attesa di una resurrezione che già potrebbe essere ora e qui, davanti al loro risuonare nella nostra mente.

 

I versi di Marco sono infiniti proprio come lo è la natura, sono un canto alla bellezza dell’uomo, in corpo e spirito:

 

Quando non hai corpo ti conosci meglio,

scorre e dice l’acqua

mentre si specchia in te;

[…]

 

C’è un sovvertimento delle funzioni naturali e dei principi fisici, che coincide con il tentativo di Marco di rimettere nel giusto ordine le dimensioni del creato. Il corpo è centrale perché è natura (“tu sei natura”), e difatti Marco ne parla con grande affezione, però lo spirito umano, la coscienza dell’uomo, è qualcosa di più rispetto alla natura del corpo, per quanto essa sia innestata nella natura corporale, da essa scaturisce come un di più, la trascende:

 

[…]

quando non sei corpo

susciti ogni meraviglia

e, meravigliato, sei sbigottito

dalla conquista.

La natura ti annulla, è niente

e tu sei natura.

 

Queste mie poche righe sono un reale invito a leggere questa raccolta, ne trarrete vantaggio come poeti, se lo siete, o come uomini e donne, se vi ponete, come si dovrebbe, domande sul senso dell’esistere in un corpo, questa fantastica unione di elementi chimici organizzati in modo così sorprendente da diventare capace di contenere la coscienza di esistere e, di più, di replicarla; ecco una delle poesie, a mio avviso, più belle ed elevate del libro:

 

L’iperbole l’ha inventata lui,

si può dire, quando si andava al fiume.

All’improvviso si voltava col cazzo in mano

e quel crescere del sesso

veniva paragonato agli oggetti più strani

e non era che l’umana espressione,

divenuta carne, del desiderio

di non morire e di replicarsi,

all’infinito.

 

Forse in ricerca di qualcuno che possa risolvere il nostro enigma esistenziale:

 

[…]

Ti cercavo implacabilmente,

l’avrei fatto anche

se non fossi esistito.

Invece il mondo è la Tua

lettera rubata:

sei talmente manifesto,

che gli sguardi

non Ti indovinano.

 

E concludo (ma senza concludere realmente poiché di cose da dire, su questi versi di Marco, ce ne sarebbero veramente molte e con maggiore scavo, e forse lo farò) dicendo che trovo, in questi ultimi versi, ancora una volta, la spiegazione di tanta simpatia a empatia poetica che avvertivo, e avverto, con Marco, la nostra ricerca, mi si conceda, ha dei punti in comune, oggi come allora. Leggendo: “sei talmente manifesto, / che gli sguardi / non Ti indovinano”, mi sono venuti alla mente questi miei versi: “Sei come un albero / che nella sua totale presenza / si assenta nell’abitudine / dello sguardo”. tratti da una poesia che vorrei qui riportare integralmente e dedicare a Marco:

 

Ho imparato a evocarti

dai colori e dalle forme delle cose.

 

Per riconoscere la tua presenza

mi bastano la soglia di una porta

sempre aperta su un patio

e una tenda

che nella brezza sappia danzare

lentamente.

 

Sei come un albero

che nella sua totale presenza

si assenta nell’abitudine

dello sguardo.

 

Io invece sono come il mio gatto

che parla ai corvi lontani:

vedendoli piccoli

vorrebbe farne un boccone –

li prega di scendere

con versi inconsulti

non sapendo della loro grandezza.

 

Ti cerco instancabilmente

ed è solo per la nostalgia che ho di te

che scrivo poesie.

 

 

[Dio, da La bellezza non si somma, Italic]

 


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